"E' sicuro?"
Questo l'incipit del dialogo paradossale tra un Laurence Olivier, dagli azzurri occhi di ghiaccio, nei panni del criminale nazista Szell (conosciuto - tra le sue vittime dei lager - come l'"Angelo bianco") e Dustin Hoffmann nel ruolo di Babe, il giovane studente di storia, ebreo di origine e figlio di H.V. Levy, intellettuale vittima del maccarthismo.
A queste parole segue una scena formidabile, rifratta in due parti, in cui il criminale-nazista mette opera le sue arti di dentista per estorcere una confessione alla sua vittima. Già, perchè è un medico odontoiatra...
Una scena che nulla ha perso, malgrado i quasi quarant'anni trascorsi dall'anno di uscita del film.
Mi riferisco a "Il maratoneta", il magistrale film di John Schlesinger, da alcuni considerato un "capolavoro assoluto" della cinematografia.
Un film che mi è piaciuto per diverse ragioni, sia quando l'ho visto una prima volta alla sua uscita, in modo un po' istintivo, sia quando ho avuto modo di rivederlo proprrio di recente in DVD.
Le ragioni per cui mi è piaciuto e per cui mi piace tuttora?
Innanzitutto (fu questa la cosa che mi appassionò la prima volta), perchè - a distanza di oltre 5 anni dalla Maratona di Roma e di qualche anno da quella di Tokyo - ha fatto da cassa di risonanza alle bellissime immagini in bianco e nero, un po' sbiadite, delle imprese eccezionali di Abebe Bikila, il maratoneta etiope che vinse la maratona ai giochi olimpici del 1960 (Roma), correndo a piedi scalzi, e dopo quattro anni quella delle Olimpiadi di Tokyo, entrando nella storia dello sport come il primo uomo a vincere consecutivamente due ori olimpici nella maratona.
In secondo luogo, perchè è una bellissima apologia della corsa che ti salva la vita (e dell'amore per la maratona, come mito) e chi corre per passione sa bene che la corsa spesso ci "slava" letteralmente la vita, anche se non c'è nessun criminale nazista che ci insegue (ma, spesso, ci sono i nostri demoni interiori e le nostre inquitudini a cui sottrarsi e da sconfiggere). Babe è un corridore e carezza dentro di sè il sogno di correre una maratona e Abebe Bikila è il suo mito. Mentre corre e mentre si misura con altri podisti che - come si usa fare anche oggi - gli lanciano il guanto della sfida bonaria (ma, sotto sotto sempre seria), nella sua mente sfilano proprio quelle mitiche immagini di Abebe che, allargando e alzando elegantemente le braccia quasi fosse un fragile uccello pronto a levarsi in volo, taglia il filo di lana steso davanti a lui. E la sua capacità di correre e di correre, ressitendo al dolore, gli salverà la vita.
In terzo luogo, il film è un bel thriller che mantiene anche oggi un suo ritmo incalzante e che riesce, malgrado tutto a reggere il confronto con i film contemporanei molto più velocizzati.
E' veramente un grande film che - come dicevo - mi è capitato di rivedere recentemente, sperimentando grandi e profonde emozioni, perchè è uno dei film (l'altro "L'uomo chiamato cavallo" su cui si è fondata la mia passione per la corsa.
In contemporanea, proprio in questi giorni, ho voluto rileggere il romanzo da cui è stato tratto (Willliam Goldman, Il maratoneta, titolo originale: Marathon man) che ho trovato davvero notevole, dal ritmo intrigante e dai dialoghi serrati, spesso ironici.
Anche qui, il paradossale dialogo con il medico torturatore che esordisce con la enigmatica domanda "E' sicuro?", come nel film, è assolutamente magistrale e colpisce tanto a fondo che dopo avere letto il libro e visto il film, il rapporto con il proprio dentista non sarà più sicuro e rasserenante come prima, ve lo posso assicurare... almeno sino che quelle immagini del film non tornano nuovamente a sbiadire nel ricordo.
D'altra parte, la sovrapponibilità del film al romanzo cui si ispira e la godibilità di entrambi, sono qualità che non sempre si riscontrano nella trasposizione dei romanzi in film: in questo caso felice, la sceneggiatura del film è scaturita dalla penna dello stesso Goldman, il quale - in una simpatica introduzione - racconta con gusto ed ironia che - proprio per quella scena - il film di Schlesinger divenne un vero e proprio cult per i dentisti.
Questo l'incipit del dialogo paradossale tra un Laurence Olivier, dagli azzurri occhi di ghiaccio, nei panni del criminale nazista Szell (conosciuto - tra le sue vittime dei lager - come l'"Angelo bianco") e Dustin Hoffmann nel ruolo di Babe, il giovane studente di storia, ebreo di origine e figlio di H.V. Levy, intellettuale vittima del maccarthismo.
A queste parole segue una scena formidabile, rifratta in due parti, in cui il criminale-nazista mette opera le sue arti di dentista per estorcere una confessione alla sua vittima. Già, perchè è un medico odontoiatra...
Una scena che nulla ha perso, malgrado i quasi quarant'anni trascorsi dall'anno di uscita del film.
Mi riferisco a "Il maratoneta", il magistrale film di John Schlesinger, da alcuni considerato un "capolavoro assoluto" della cinematografia.
Un film che mi è piaciuto per diverse ragioni, sia quando l'ho visto una prima volta alla sua uscita, in modo un po' istintivo, sia quando ho avuto modo di rivederlo proprrio di recente in DVD.
Le ragioni per cui mi è piaciuto e per cui mi piace tuttora?
Innanzitutto (fu questa la cosa che mi appassionò la prima volta), perchè - a distanza di oltre 5 anni dalla Maratona di Roma e di qualche anno da quella di Tokyo - ha fatto da cassa di risonanza alle bellissime immagini in bianco e nero, un po' sbiadite, delle imprese eccezionali di Abebe Bikila, il maratoneta etiope che vinse la maratona ai giochi olimpici del 1960 (Roma), correndo a piedi scalzi, e dopo quattro anni quella delle Olimpiadi di Tokyo, entrando nella storia dello sport come il primo uomo a vincere consecutivamente due ori olimpici nella maratona.
In secondo luogo, perchè è una bellissima apologia della corsa che ti salva la vita (e dell'amore per la maratona, come mito) e chi corre per passione sa bene che la corsa spesso ci "slava" letteralmente la vita, anche se non c'è nessun criminale nazista che ci insegue (ma, spesso, ci sono i nostri demoni interiori e le nostre inquitudini a cui sottrarsi e da sconfiggere). Babe è un corridore e carezza dentro di sè il sogno di correre una maratona e Abebe Bikila è il suo mito. Mentre corre e mentre si misura con altri podisti che - come si usa fare anche oggi - gli lanciano il guanto della sfida bonaria (ma, sotto sotto sempre seria), nella sua mente sfilano proprio quelle mitiche immagini di Abebe che, allargando e alzando elegantemente le braccia quasi fosse un fragile uccello pronto a levarsi in volo, taglia il filo di lana steso davanti a lui. E la sua capacità di correre e di correre, ressitendo al dolore, gli salverà la vita.
In terzo luogo, il film è un bel thriller che mantiene anche oggi un suo ritmo incalzante e che riesce, malgrado tutto a reggere il confronto con i film contemporanei molto più velocizzati.
E' veramente un grande film che - come dicevo - mi è capitato di rivedere recentemente, sperimentando grandi e profonde emozioni, perchè è uno dei film (l'altro "L'uomo chiamato cavallo" su cui si è fondata la mia passione per la corsa.
In contemporanea, proprio in questi giorni, ho voluto rileggere il romanzo da cui è stato tratto (Willliam Goldman, Il maratoneta, titolo originale: Marathon man) che ho trovato davvero notevole, dal ritmo intrigante e dai dialoghi serrati, spesso ironici.
Anche qui, il paradossale dialogo con il medico torturatore che esordisce con la enigmatica domanda "E' sicuro?", come nel film, è assolutamente magistrale e colpisce tanto a fondo che dopo avere letto il libro e visto il film, il rapporto con il proprio dentista non sarà più sicuro e rasserenante come prima, ve lo posso assicurare... almeno sino che quelle immagini del film non tornano nuovamente a sbiadire nel ricordo.
D'altra parte, la sovrapponibilità del film al romanzo cui si ispira e la godibilità di entrambi, sono qualità che non sempre si riscontrano nella trasposizione dei romanzi in film: in questo caso felice, la sceneggiatura del film è scaturita dalla penna dello stesso Goldman, il quale - in una simpatica introduzione - racconta con gusto ed ironia che - proprio per quella scena - il film di Schlesinger divenne un vero e proprio cult per i dentisti.
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