giovedì 26 agosto 2010

In "Giustizia privata" un film interessante con un'evoluzione, nel finale, alla James Bond


Giustizia privata (di F. Gary Gray e con Jamie Foxx e Gerald Butler, 2009) rimanda al filone dei film incentrati sulle gesta dei "giustizieri", in parte mutuati dal fumetto (V per vendetta di Alan Moore, per esempio) e dalla cinematografia (in cui domina il personaggio interpretato da Charles Bronson).
Il titolo italiano del film sembra rimandare proprio a questo filone, per l'appunto, ma quello originale - Law abiding citizen (come spesso accade) ci dice di più.
La storia di Clyde (Gerald Butler) non è soltanto quella di un cittadino che, sentendosi tradito dalla Legge (o meglio dal sistema giudiziario - americano, precisiamo- e dal modo in cui la Legge viene applicata) decide di farsi giustizia da sè, ma diventa un confronto serrato tra un cittadino "danneggiato" e quel sistema giudiziario cui - seguendo senza pietà e senza rimorso delle vie immorali e non lecite - vuole insegnare ad essere morale e ad abbandonare un sistema di amministrazione delle Legge fatto di compromessi più che di aderenza salda a dei principi univoci.
Quindi c'è in apertura il legal thriller, ma c'è anche la narrazione d'un articolato e raffinato sistema di vendetta che si mette in moto a distanza di tempo (la vendetta è un piatto che va degustato freddo), messo a punto nei minimi dettagli. C'è, infine, il confronto tra Clyde (la parte che si ritiene offesa) e la Legge, quest'ultima impersonata da Nick (Jamie Foxx che abbiamo visto recentemente in "Il solista"), al tempo dei fatti avvocato rampante ed ambizioso (pronto al patteggiamento, pur di "vincere" la causa) e 10 anni dopo ancora avvocato di punta nell'ufficio del Procuratore legale di Philadelphia di cui è con certezza il delfino designato (come collezionista di cause vinte).
Su questi due aspetti la narrazione procede in modi credibili, per quanto già visti (anche se la "ricetta" è alquanto diversa, con qualche sbrasata splatter).
Poi il film ha un'impennata verso l'incredibile - se non il fumettistico - quando Clyde si trasforma - pur chiuso tra le quattro mura di una prigione di massima sicurezza - in vendicatore , pronto ad uccidere chiunque intralci la sua strada verso il trionfo di una giustizia sanguinaria e folle.
Da questo momento in poi, come osserva Gianfranco Zappoli in mymovies, il film si segue come una trama di James Bond, sorridendo delle trovate sfoderate dal regista e chiedendosi quale sarà la successiva, sino ad una conclusione abbastanza ironica se non fosse per la scia tragica di cadaveri di cui la storia è stata disseminata.

martedì 17 agosto 2010

In Splice, il dilemma morale dello scienziato che vuole farsi demiurgo


Tanto, troppo, si legge oggi di clonazioni, manipolazioni genetiche, creazioni di ibridi e chimere, di tutto ciò che riguarda le applicazioni dell'ingegneria genetica sia quelle possibili, sia quelle avveniristiche e futuribili.
Si tratta d'un campo controverso in cui le attività di ricerca scientifica non sempre sono animate da intenti chiari e soprattutto da motivazioni limpide.
In alcuni casi, a muovere le cose sono interessi economici di grandi holding farmaceutiche alla ricerca di possibili campi d'applicazione di nuove scoperte, in altri casi è un desiderio epistomofilico nei confronti della realtà portato alle estreme conseguenze, senza alcun rispetto del più elementare principio di precauzione, che impone di evitare di importare modelli semplici a realtà complesse dotate di un numero enorme di variabili, poichè i risultati possono essere diversamente orientati verso imprevedibili esiti e soprattutto andare fuori controllo (il ben conosciuto Jurassic Park è un esempio calzante di questo tipo di riflessione, sul tema della clonazione di specie estinte).
Gli scienziati e i ricercatori si trovano in un punto di snodo nevralgico tra le proprie motivazioni personale a fare ricerca, la "pura" curiosità epistemofilica e l'industria che invece insegue il progetto del profitto, nel senso che la conoscenza non è fine a se stessa ma funzione delle applicazioni e dei guadagni che potranno scaturirne.
In ogni caso, attrono a tutto ciò che che si agita dietro le manipolazioni del genoma, vi è la fantasia onnipotente di poter essere come demiurghi sostituendosi alla natura o - per chi crede - ad un'Entità superiore.
Questo è il motivo di base per cui la Chiesa cattolica è tanto contraria alle manipolazioni genetiche e alle relative applicazioni.
Tanti film sono stati realizzati su queste tematiche, alcuni stressando l'attenzione sul "mostro" che attraverso le manipolazioni veniva prodotto, altri ponendosi degli interrogativi sulla liceità di simili pratiche e sui rischi connessi.
Splice (del regista canadese Vincenzo Natali, 2009) si innesta per l'appunto su questa riflessione.
La storia è semplice Clive (Adrien Brody che abbiamo visto recentemente in Predators) ed Elsa (Sarah Polley), entrambi biochimici, lavorano in un Laboratorio di genetica e, oltre ad essere colleghi di lavoro, sono anche compagni nella vita, formando una coppia (senza figli). Non contenti dei successi già ottenuti (successi, peraltro, discutibili), vorrebbero andare oltre, esplorando ulteriori applicazioni di quanto hanno giò scoperto e, soprattutto, mescolando il materiale genetico di specie animali diverse con il DNA umano e producendo, senza avere assolutamente idea di quale potrà essere il risultato finale, una chimera.
Il loro tentativo va in porto, ma il prodotto del loro esperimento - una creatura apparentemente di sesso femminile che dai due viene battezzata Dren (che è l'acronimo di NERD, sigla del laboratorio presso cui lavorana) esce rapidamente fuori controllo (nell'interpretazione da adulta di Delphine Chanéac).
La possibilità di controllo in simili esperimenti, sembra volerci dire il regista, è una pura illusione, perchè non si sa nulla di quello che può venir fuori quando si combinano assieme geni appartenenti a specie diverse e soprattutto quali saranno gli esiti "evolutivi" della nuova creatura sia dal punto di vista ontogenetico sia da quello filogenetico.
L'interesse del film sta anche nel fatto che il regista si sofferma a guardare con occhio attento la psicologia dei due personaggi coinvolti, lasciando emergere una preoccupante delle motivazioni che li spingono ad andare avanti caparbiamente in questa strada, sicuramente condizionate da fantasmi che albergano in oscuri recessi della loro mente, ma - sino ad un certo punto - sembra volere osservare la psicologia del "terzo", cioè di Dren che sembra quasi crescere all'interno di una triangolazione edipica (anche se con esiti - anche in questo caso -imprevedibili).
In questa dinamica complessa, è soprattutto Elsa che vuole andare avanti spinta da un inconfessato desiderio di maternità e di prole, sulla quale - in seguito - proprio in quanto frutto di esperimento - ella potrà esercitare, se lo vuole, il totale controllo ed anche potere di vita e morte.
Le cose - come vedrà lo spettatore in una sequenza di colpi di scena - non sono così semplici, perchè la neo-creatura - a tutti gli effetti una chimera nel senso biologico del termine - riserverà ai due genitori-scienziati ben più di una sorpresa.
Vincenzo Natali, con maestria, riesce a muovere di continuo il suo sguardo dalla creatura in crescita alle dinamiche della coppia e alle motivazioni individuali di ciascuno dei due, con tutto il corteo di perplessità, indecisioni, ma anche di caparbia voglia di andare avanti, non trascurando anche l'interrogativo della responsabilità morale connessa ad esperimenti in cui si dia vita ad una essere vivente e senziente ("Cosa fare dopo aver dato la vita?", "E' poi così semplice dispensare la morte, qualora l'esperimento debba essere terminato?").
La parola "splice" che dà il titolo al film, mutuato dal gergo della genetica, significa in modo assolutamente generico "aggiungere, innestare" ("splicing": saldatura di materiale genetico), mentre il significato esatto del termine è il riferimento ad un passaggio fondamentale nel passaggio dal DNA cromosomico all'RNA attivo, cioè pronto per determinare la sintesi proteica, prevedente l'eliminazione di intere stringhe di materiale genetico, tenendo conto che l’intero patrimonio cromosomico umano è solo per il 27% composto da geni e che questi sono codificanti per solo il 10% (ovvero il 2,7% dell'intero genoma umano è attivo nel determinare attività di sintesi proteica). All’interno d'un medesimo gene sono presenti sequenze chiamate esoni, che verranno conservati nell’mRNA maturo, ed introni che verranno eliminati prima della traduzione, con un processo denominato appunto di "splicing".
L'efficacia del film sta nel fatto che per tutta la sua durata provoca nello spettatore un certo malessere, innanzitutto perchè lo mette brutalmente di fronte alla nascita di quella che è, a tutti gli effetti, una specie aliena - diversa ma, nello stesso tempo, affine - e, in secondo luogo, perchè si sofferma a lungo sul dramma della responsabilità morale e sui dilemmi che la creazione di ibridi genetici pongono.
Da vedere, perchè va al di là del semplice genere.
Per alcuni aspetti, il film potrebbe considerarsi come una grande metafora del Male che afflige la modernità, in cui l'ansia demiurgica di conoscere e di fare diventa causa di un Male che poi si propaga e finisce con il crescere autonomamente: fatte le debite differenze, lo si può considerare come una declinazione scientista (e terribilmente crudele) di un film "demonico" come fu Rosemary's baby di Roman Polansky, autentico e perturbante antesignano d'un intero genere cinematografico.

mercoledì 11 agosto 2010

Lacrime e commozione all'arrivo della 100 km delle Alpi


All'arrivo d'una gara di endurance (e, nel nostro caso di un'ultramaratona) si possono sempre cogliere degli stati d'animo diversi.
A volte è la gioia straripante a dominare, a volte invece si coglie un'espressione di stizza e dispiacere, a volte può capitare di intravedere la commozione e il pianto incontenibile.
Sono modi diversi di dare una via di sfogo alla tensione mentale che si è accumulata nel corso della gara, chilometro dopo chilometro, quella tensione interiore che rappresenta l'asse portante della ressitenza mentale, assieme - paradossalmente - alla capacità di mettere da parte (sospendoli temporaneamente) memoria e desiderio.
Una strana combinazione che spinge molti a continuare anche se il risultato non sarà quello atteso (al momento della partenza) quello pianificato (sulla base delgi allenamenti compiuti) oppure quello desiderato.
E non è vero che il risultato che si consegue in un'ultramaratona è matematicamente determinato dal lavoro che si è fatto in allenamento nelle fasi precedenti la gara, perchè le variabili in gioco sono molteplici (e non sempre predicibili a tavolino) e per quanto sia stato scrupolosa sia stata la preparazione il crono finale può essere pur sempre influenzato da altre variabili, tra le quali ha un ruolo di primo piano la cifra specifica del singolo atleta.
Gnôthi seautón (Γνῶθι σεαυτόν) era scritto sul frontone del Tempio dell'oracolo di Delfi: è il "Conosci te stesso" che - più di altre frasi lapidarie e apodittiche - riassume l'insegnamento socratico, in quanto esortazione a trovare la verità dentro di sé anziché nel mondo delle apparenze.
Niente è più vero di questo piccolo aforisma applicato nell'approccio mentale all'ultramaratona.
Sara Valdo ha concluso la 100 km delle Alpi, lottando contro una serie di crisi subentranti che hanno influenzato il risultato finale che è stato al disotto delle aspettative. Eppure, Sara ha tenuto duro e ha voluto proseguire caparbiamente sino alla fine. Nel modo di combattere contro le crisi che incrinavano la sua volontà di andare avanti ha sicuramente conosciuto se stessa nel senso socratico del termine, proprio perchè anziché dare rilievo al mondo delle apparenze (un buon piazzamento, un crono all'altezza delle aspettative), ha guardato dentro di sé concentrandosi sulla necessità di arrivare sino alla fine, vincendo la sua debolezza e una sensazione di fragilità.
Tagliando il traguardo, Sara ha pianto: il suo è stato un pianto liberatorio, un pianto di scioglimento della tensione vibrante che aveva sentito dentro di sé nella seconda metà della gara e che le ha consentito di lottare contro un'insidiosa sensazione di svuotamento interno e di perdita delle forze, ma - credo - è stato anche una manifestazione di gioia per essere arrivata sino al traguardo finale.
In questo modo, lottando sino alla fine per arrivare al suo traguardo, ha aggiiunto un ulteriore tassello per una migliore conoscenza di se stessa (sia sotto il profilo personale e umano, sia sotto quello pù specificatamente sportivo e agonistico) e, sicuramente, ha attivato nella sua mente dei circuiti neurologici virtuosi (volendo vedere della sua esperienza anche il versante neurofisiologico).
Ha trasformato le sue crisi in "esperienza" e tutto questo si tradurrà sicuramente in una migliore resilienza in gare future.
Il suo pianto, credo, è stata la sintesi di questo complicato percorso mentale ed emozionale.
Ed è anche un insegnamento per tutti, vorrei aggiungenre, quello che ci ha dato la piccola ultrarunner veronese: arrivare sino in fondo e piangere al traguardo è un'esperienza ben più intensa e "fondante" di chi si ritira quando comprende che non riuscirà a realizzare il risultato sperato e non è capace di stare a lottare sportivamente con se stesso sino alla fine (quella del ritiro - a meno che non ve siano validi e fondati motivi, come un infortunio fisico grave - è infatti, piuttosto, una "mancata" esperienza e un minus decostruttivo della propria resistenza mentale).

martedì 10 agosto 2010

In Gone la rivisitazione in chiave moderna de Il signore delle mosche di Golding


Come sarebbe un mondo senza adulti? Nessun lampo di luce. Nessuna esplosione. Un istante prima erano lì, come sempre. Un istante dopo erano scomparsi. Tutti. Tranne i ragazzi. E il romanzo di Michael Grant, Gone (Rizzoli, 2009), stranamente pubblicato in una collana per ragazzi e consigliato a lettori da 12 anni in su, racconto le loro prime 299 ore.

Il signore delle mosche
di William Golding, premio Nobel per la letteratura 1983, ipotizza una situazione-limite (si tratta di un romanzo a tesi, per alcuni aspetti) in cui, nel corso della II guerra Mondiale, un aereo che trasporta gli studenti di un college in un luogo più sicuro precipiti poco al largo di un’isola del Pacifico. La maggior parte dei ragazzi (maschi e femmine) si salva, ma tutti gli adulti che li accompagnano e che ne hanno la responsabilità muoiono, compresi i piloti dell’aereo. I ragazzi si trovano nella necessità di organizzarsi in un modo “democratizzante” con un’equa ripartizione degli oneri e delle responsabilità (e l’attivarsi di un atteggiamento protettivo nei confronti dei più piccini) e di predisporsi alla sopravvivenza in un ambiente ostile. Subito, si delineano delle differenze tra gli uni e gli altri e, sotto stress, di alcuni emergono maggiormente alcune derive caratteriali, prima tenute sotto controllo dalle istanze educativa. Presto il gruppo si spacca in due fazioni, una costituita da quei ragazzi che hanno introiettato un codice etico, e l’altra a cui aderiscono quelli più sensibili al fascino della violenza, del sopruso e della prevaricazione.

L’emblema di tutto ciò è una testa di maiale selvatico che viene conficcata su di un ramo aguzzo e che, pur ricoperta dalle mosche, diventa per i secondi una sorta di animale totemico ed ispiratore (Il signore delle mosche, appunto).

La situazione rapidamente precipita sino all’attivarsi di una vera e propria guerra e al primo morto; peggiorerebbe ancora se non arrivassero gli adulti, nella forma di autentico deus-ex-machina, a riprendere in mano la situazione e a riportare tra i ragazzi smarriti la legge morale (anche se si tratta di una legge morale debole, dal momento che proprio gli stessi adulti assenti sono stati in guerra e si sono uccisi a vicenda).

In ogni caso, dopo la contaminazione da parte del Male, niente sarà più come prima.

Il romanzo alimenta con forza una visione del mondo molto pessimistica e esprime un atto di accusa nei confronti di un’eccessiva fiducia nella ragione, nel progresso e nella tecnologia, mentre è tangibile la convinzione che sempre si deve fare i conti con il Male che, senza argini e senza comportamenti “controllo” tenderebbe a dilagare e a prendere il soppravvento anche tra coloro, che sarebbero in una cornice “normata” tendenzialmente retti e buoni. In altri termini, la tesi proposta da Golding è che in un mondo anomico si genera, quasi autonomamente, il male.

Il recente romanzo di Michael Grant (sua prima prova narrativa), Gone, propone una situazione simile, ma senza la conclusione liberatoria di Golding, cioè senza l’arrivo salvifico degli adulti portatori di un codice morale.

In una cittadina costiera degli Stati Uniti (Perdido Beach) dominata da un’inquietante centrale nucleare subito nell’entroterra, all’improvviso, in un istante, tutti quelli al disopra di 16 anni scompaiono nel nulla, mentre la città e il territorio circostante vengono chiusi all’interno di una bolla o cupola invisibile o campo di forza (forse sostenuto da un campo di forza), all’esterno del quale il resto del mondo potrebbe essere scomparso.

Il romanzo racconta le prime 300 ore di questo mondo (un po’ meno di 13 giorni).

I ragazzi scoprono anche, con angoscia, che anche chi si trova a compiere il 16° anno scompare in un attimo, ma hanno anche la sorpresa di constatare che molti di loro hanno acquisito dei poteri straordinari, quasi fossero dei mutanti.

Come ne Il signore delle mosche i più grandi si organizzano in una parvenza di società in cui vige la distribuzione dei compiti e delle responsabilità sulla base delle abilità e delle competenze individuali: tutto potrebbe andar bene se non fosse per gli studenti della Coates Academy, una sorta di collegio per ragazzi deviati che capeggiati dal malvagio Caine (il nome è tutto un programma) vogliono prendere il controllo su gli altri ragazzi e soprattutto asservire (e neutralizzare) quelli dotati di super-poteri.

Si assiste, attraverso molte vicissitudini ad una degenerazione progressiva dei rapporti tra i due gruppi e ad un’escalation della conflittualità sino ad uno stato di guerra aperta.

Sam (che scopre di essere fratello gemello di Caine), a capo del gruppo dei buoni, alla fine, malgrado tutto riuscirà a trionfare, ma la prosecuzione del conflitto è solo rimandata. Caine, risparmiato dalla clemenza di Sam, infatti, architetta la sua vendetta, volgendosi al Male.

Gone è interessante, indubbiamente per la tematica che pone e per il modo in cui la tratta, visto anche il suo antecedente illustre. Ma Il signore delle mosche riesce ad essere ben più metafisico, senza peraltro tirare in ballo ipotesi fantascientifiche e spiegazioni esoteriche.

Gone, alla fine, lascia i lettori più esigenti un po’ delusi, perché non fornisce alcuna spiegazione stringente sulla genesi della cupola, né sull’origine dei super-poteri dei ragazzi.

Du essi non si comprende bene se siano un effetto secondario della cupola oppure se non siano stato slatentizzato (o potenziato) qualcosa che era già preesistente in loro. Forse c'entra in qualche misura la centrale niucleare. Non si sa.

In più, in modi che rimangono narrativamente poco sviluppati, viene tirata in ballo, come spiegazione ultima l’Oscurità, in altri termini un principio malefico che s’è infiltrato all’interno della cupola e che è pronto ad asservire chi sia disposto ad abbandonarvisi.

Il finale di Gone non è una vera conclusione ma prelude, secondo me, ad un sequel prossimo venturo che, in qualche misura, preconizza una situazione analoga alla fiction fantascientifica Lost.

In ogni caso, è un libro godibile anche per le sue importanti affinità (non dichiarate esplicitamente dall’autore, ma sicuramente derivanti dal suo background formativo) con Il signore delle mosche di Golding, anche se qui la storia non si pone in termini di apologo morale, perché non ci sono gli adulti salvatori che ritornano per riprendere in mano le cose, ma solo la presenza d’una Forza oscura dilagante che, forse, prenderà il sopravvento.

Questa la sintesi del romanzo proposta nel risguardo di copertina

Non ci sono state esplosioni quando è successo. Niente esplosioni, lampi o fremiti nell'aria. Semplicemente, un attimo prima gli adulti c'erano e quello dopo non c'erano più. Nessuno sa spiegare che cosa sia successo, né perché, né tantomeno che cosa sia la forza impenetrabile che impedisce a chiunque di uscire dalla città. Ma i telefoni non funzionano, e chiedere aiuto (a chi, poi?) è impossibile. Abbandonati a se stessi, i ragazzi si riuniscono in bande, litigano, eleggono capi, meditano tradimenti. Il mondo non è più quello che conoscevano, ma anche loro sono diversi, e non solo perché l'assenza di insegnanti e genitori rileva il vero carattere di amici e compagni di scuola, ma soprattutto perché alcuni si accorgono di possedere strani, pericolosi poteri...

domenica 8 agosto 2010

Il solista: un virtuoso del violoncello tra gli homeless di Los Angeles

Il solista (The soloist di Joe Wright, 2009), fondato su di una storia vera, è la riduzione cinematografica del libro/documento scritto dal giornalista Steve Lopez, muovendosi su almeno due diversi livelli narrativi.
Il primo è la storia umana di Nathaniel Ayers, giovane musicista nero talentuoso che, frequentando l’Accademia musicale di New York va incontro ad un breakdown psicotico, non reggendo alla competizione e al confronto crudele in un mondo in cui ancora non c’è molto spazio per gli Afro-americani. Questo piano narrativo viene costruito partendo dal presente, in cui Ayers vive alla deriva come homeless estroso e farneticante, al passato con una serie di flashback della sua infanzia e della sua adolescenza che sono l’equivalente per immagini della storia che Steve Lopez, giornalista quotato di Los Angeles, cerca di costruire per ridare quota, con un caso toccante, alla sua rubrica.
L’altro livello che fa da sfondo, pur costituendo gran parte del film, è dato da una rappresentazione-denuncia della vita dura e allo sbando degli homeless d’America: una rappresentazione ben più cruda di quella più edulcorata nel film di Muccino “Alla ricerca della felicità”, in cui la vita dell’homeless è intesa solo come un regresso temporaneo, prima del rilancio verso l’affermazione di una nuova fortuna: nel personaggio di Muccino (Chris Gardner, interpretato da Will Smith) vi è una costante tensione positiva e il persistere di una forte integrazione e coesione del Sé del protagonista, mentre invece, qui, il mondo degli homeless, interpretato senza finzioni ed edulcorazioni da “veri” senzatetto, è dato in tutta la sua tragica realtà.
Gli homeless di Los Angeles sono 90.000, annuncia una didascalia che compare nei titoli di coda, quasi a sottolineare la volontà del regista di dare con il suo film anche un contributo alla loro causa, ma senza cadere nel tranello di rappresentarli pietisticamente come vittime di un destino avverso (d’un tracollo economico, per esempio, o della perdita del lavoro).
Diventare homeless, ci dice, può anche essere una scelta ricostruttiva del Sé (come mostra bene la storia di Nathaniel): in momenti di passaggio esistenziale in cui il mondo interno sembra andare in pezzi, la vita dell’homeless aiuta a ricompattare un guscio esterno utile a “tenere assieme i pezzi” della rottura psicotica nel rapporto con la realtà, forse proprio in funzione dell’estrema semplificazione delle incombenze di vita ma anche per l’attivarsi di rituali ossessivi e rigidi, funzionali alla sopravvivenza, ma anche alla “tenuta dell’Io.
Ma, nel bell’apologo costruito da Wright (e, a monte, nella storia di Steve Lopez) si legge un terzo crinale narrativo che è quello della forza e del potere “terapeutico” della relazione tra esseri umani, anche quando questa relazione non nasce inizialmente da motivi esattamente altruistici.
Nel suo approccio iniziale Steve Lopez (Robert Downwey Jr) è alla ricerca della “sua” storia e, quindi, l’approccio con Nathaniel (Jamie Foxx) è puramente strumentale, anche se velato di apparenti buone intenzioni.
Tuttavia, a partire da questo movente, grazie al potere cementante (alla magia) della musica che si sprigiona dallo scassato violino di Nathaniel, con sole due corde residue, e poi dal violoncello che gli viene donato da una lettrice, ex-musicista, commossa dalla lettura del “caso” lanciato da Lopez nella sua rubrica, si approfondisce e diventa bilaterale: un rapporto difficile, tormentato, conflittuale e che implica la consapevolezza e il peso della “responsabilità” derivante dalla fiducia che Nathaniel – pur nel suo modo malato e fragile – comincia a provare nei confronti del giornalista e dall’abbassamento delle sue difese schizoidi.
Ed è una relazione che, malgrado tutto, riesce ad andare avanti e ad evolversi, rafforzandosi. Una volta attivato un simile processo, non è più possibile voltare le spalle al “caso” che intanto è divenuto “persona” e individuo nei cui confronti s’è attivato un legame di affettività profonda implicante, tra le altre cose, il “rispetto” e l’accettazione della diversità, una “diversità” inemendabile, perché negli anni è divenuta cifra dell’individuo.
Se lo spettatore rapito dai virtuosismi musicali di Ayers pensa di ritrovarsi davanti ad un caso simile a quello raccontato in Shine del 1996 (che espone la storia vera di David Helfgott, diretta con brio e profondità dal regista Hicks, con l’abile interpretazione di Geoffrey Rush ) si sbaglia. Mentre in Shine, grazie al potere dell’amore, un pianista di grande talento riesce a riprendere la sua strada ripartendo dal punto in cui si era interrotta a causa di una grave crisi psicotica – che ha alle sue spalle le vessazioni di un padre-padrone ossessivo e assillante - per giungere a calcare le scene come pianista di primordine, qui la storia è minimalista.
Non ci sono grandi successi che aspettano Nathaniel, ma semplicemente una vita più integrata, supportata dal piacere di suonare con talento uno strumento musicale, traendo conforto dalla musica (fatta, ma anche ascoltata) e, soprattutto, da una forte e salda amicizia.
La lezione morale che se ne trae è che la salvezza per qualcuno che è “caduto” non deriva dal fargli fare ciò che, mettendosi nella posizione elevata e presuntuosa del “salvatore”, si ritiene sia giusto, ma dal consentirgli di usufruire di un contesto di relazioni rasserenanti che non metta alla prova il livello di adattamento raggiunto con prove che siano troppo al di là delle forze di un Io che – malgrado tutto – rimane fragile e segnato.
Splendida la colonna sonora che alterna pezzi di Beethoven con brani di musica moderna del repertorio folk-pop che danno i giusti cromatismi all’inferno in terra degli homeless di Los Angeles (nel quartiere di Skid Row, uno dei più degradati della città degli Angeli).
Il film è tratto dall’omonimo libro (Ted Lopez, Il solista, Rizzoli, 2010). Eccone la scheda.
Non si separa mai dal suo carrello, indossa quello che gli capita e dorme per strada a Skid Row, il quartiere più degradato di Los Angeles (90.000 homeless), dove bazzicano solo prostitute, tossici e diseredati dimenticati da Dio. Però quando suona il violino di fronte alla statua di Beethoven, Nathaniel Ayers diventa un altro: non più il farneticante senzatetto di colore, ma un virtuoso capace di esprimere con quello strumento scordato tutta l'armonia e il sentimento della musica. Il giornalista Steve Lopez lo sente e ne resta affascinato. Giorno per giorno, ne raccoglie le parole sconnesse, i ricordi, le sfuriate e i deliri, fino a ricostruire la storia di una promessa della musica che, nero in un mondo di bianchi, era riuscito a entrare nella più celebre accademia musicale americana, la Juilliard School. Dove, la competitività esasperata e l'ansia di raggiungere un'inarrivabile perfezione avevano scatenato la sua schizofrenia e l'avevano confinato in un mondo di paranoie e ossessioni, estraniandolo gradualmente dalla scuola e dalla famiglia. Non dalla musica, però, unico legame rimasto fra lui e il mondo. Questa è la storia vera di un'amicizia inattesa, complessa e a tratti straziante tra un giornalista affermato e un barbone, che insegna a entrambi il senso più profondo di se stessi, ma è anche una riflessione sui limiti e sulle potenzialità del genio.

venerdì 6 agosto 2010

Storie di incuria e degrado

(Palermo, via Principe di Paternò; foto di Maurizio Crispi)

In Via Principe di Paternò a Palermo, da alcuni giorni giace, pericolosamente di traverso sul marciapiedi riservato ai pedoni, un cartello stradale.

L'amministrazione comunale di Palermo sembra davvero sollecita nel ripristinare i cartelli della segnaletica stradale verticale abbattuti.
Tra l'altro, un passante potrebbe anche farsi del male inciampandoci sopra... e poi, in questa evenienza, chi pagherebbe il danno?

giovedì 5 agosto 2010

Cloro al clero: cosa significa?

(Palermo, via Maqueda; foto di Maurizio Crispi)

Camminando per le vie della mia città mi sono imbattuto talvolta nella scritta murale "Cloro al clero".
Cosa significa? mi sono chiesto, alquanto incuriosito.
Potevo soltanto argomentare tra me e me, a lume di naso, che fosse un modo per dire "avveleniamo" o "gasiamo" il clero. Non ero molto lontano dal vero.
Facendo una ricerca in internet, mi sono imbattuto in questa spiegazione.
"Cloro al clero" era uno slogan della contestazione degli anni settanta:" Cloro al clero, diossina alla DC, piombo piombo piombo MSI". Probabilmente la coniarono associazioni studentesche e politiche estremistiche perché volevano distruggere tutte le istituzioni dominanti. Se ne sono appropriati oggi ragazzini che non ne sanno nemmeno l'origine, nè hanno vissuto gli anni di piombo
E' chiarissimo il significato: avvelenare ciò che si odia, volerne la morte.
Ma la mia sorpresa non indifferente è derivata anche dall'aver trovato dei gruppi FB intitolati proprio con questo slogan. Per esempio, uno è intitolato proprio così "Cloro al clero" (di generica opposizione e contro) con oltre 1000 simpatizzanti (fan), mentre un altro gruppo recita nel suo titolo "Cloro al clero e all'incoerenza italiana" che, con poco meno di 300 iscritti, espone nel suo incipit le seguenti linee programmatiche:
"Questo è un gruppo contro la chiesa e i suoi membri, NON CONTRO IL MESSAGGIO CRISTIANO, ma contro solo le istituzioni che SPECULANO su un messaggio di amore e fratellanza.
E' un gruppo contro l'ingerenza della chiesa nelle faccende dello stato, e contro tutti i politici che fanno della religione cattolica un vezzo partitico, asserendo che la famiglia è sacra, e divorziando il giorno dopo.
E' un gruppo che si batte contro le strumentalizzazioni della fede e contro le incongruenze dei politici connesse al rapporto Chiesa/Stato.
Ovviamente, è un gruppo che non attacca quella parte della Chiesa e del clero impegnate in opere che rispecchiano il messaggio di fratellanza e di amore che la religione cristiana agli albori diffondeva, che non boicottano la scienza quando si tratta di fecondazione assistita, mentre la chiamano in causa quando si tratta di non far morire chi per morte naturale sarebbe gia morto, e che riescono a porsi in maniera aperta e critica a discussioni riguardanti alcune incongruenze della loro religione, senza sfociare in discorsi politici che non competono al clero.



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