martedì 30 dicembre 2008

La storia di Bolt, da cane supereroe a cucciolo "normalmente" dipendente


Tempo di Natale, tempo di cartoni animati!
Ritorna la Disney con la storia di Bolt, supereroe a quattro zampe, rispettando la tradizione dell'uscita annuale d'un solo cartone come regalo natalizio per grandi e piccini.
Con un piccolo eroe a quattro zampe si torna al buon vecchio mondo Disney. Per il super-cane BOLT, stella di una serie televisiva, ogni giorno è ricco di avventura, pericolo e intrigo, almeno finché le macchine da presa continuano a girare.

E' la storia di Bolt, il protagonista assieme alla umana Penny (8la sua padroncina, nonchè comprimaria di avventure) di una serie TV di grande successo. Bolt si sente un supereroe e, essendo frutto d'un esperimento di bio-tecnologia sofisticata (nella fiction che per lui è realtà), alimenta in sè una convinzione ferma del'esistenza dei suoi poteri e una fede quasi irriducibile in essi. Bolt è sempre vissuto negli studi cinematografici di Hollywood, presentati come una moderna versione della mitica caverna di Platone, e qui è stato protetto, di fatto, dal contatto traumatico con la realtà che gli toglierebbe ogni illusione.


Il racconto, che risente molto dei modelli Pixar dal punto di vista della grafica, s'attiene tuttavia al modello "morale" della Disney, con una serie di personaggi che ruotano attorno al protagonista in uno schema consueto, con lo stratagemma della antropomorfizzazione senza tuttavia eccessivi approfondimenti psicologici nella costruzione dei personaggi che rimangono piuttosto come "macchiette" e tipi un po' tendenti ala stereotipia (e che, ciò nondimeno, piacciono).
Per una serie di fortuite circostanze, Bolt casca di botto nel mondo esterno (viene nientemeno spedito sino a New York!)e da qui, messo traumaticamente a dura prova, dovrà intraprendere un lungo viaggio di ritorno attraverso gli States per ritrovare la sua padroncina e "salvarla".
Una storia non originale, peraltro: basti pensare ai film della serie "Torna a casa, Lassie! esordita nel 1941 (e questa fortunata serie con un cane vero, un Collie, per la precisione)...
Nella sua impresa, verrà sostenuto da due "amici" che incontrerà durante il suo percorso: la gatta Mittens, il criceto Rhino, ma anche tre piccioni che, in realtà sono degli ammiratori sfegatati di Bolt nei panni del supereroe, come del resto lo è Rhino.
Questo viaggio, attraverso molte vicissitudini ed avventure, porterà Bolt a ritrovare la sua padroncina. Nello stesso tempo, le avventure narrate rappresentano un percorso di formazione per Bolt che è costretto ad abbandonare la convinzione onnipotente di essere un invincibile supereroe, accettando la dimensione esistenziale dell'essere un cane che gioca afinalisticamente, si diverte e vive quietamente la sua dipendenza canina (che, in fondo, è dei superpoteri che credeva di possedere quello più vero, quello sicuramente vincente.
Ci sono anche tuti gli ingredienti di una bella favola "morale" sui valori dell'amicizia e sul patto di fedeltà, sull'amore - più in generale, bene illustrati dall'intreccio di relazioni tra Bolt, Mittens e Rhino.
E' un film, indubbiamente, godibile anche per i più grandi.
In esso, come espressione della recente acquisizione della Pixar da parte della Disney si evidenzia l'acquisizione nel linguaggio "Disney" di una serie di stilemi narrativi più propri della Pixar.

sabato 27 dicembre 2008

Ultimatum alla terra: il pensoso remake di un film di 60 anni fa


Di questi tempi, sono di moda le visioni apocalittiche d'una prossima fine del mondo, tanto più adesso che, sopite le angosce millenaristiche del passaggio del millennio, ci avviciniamo a grandi passi al 2012 anno in cui, secondo il computo d'una tradizione maya fondata su calcoli matematici ed astrologici sofisticati, dovrebbe avvenire la fine del mondo che conosciamo, con l'allineamento dell'asse del nostro sistema solare e dellresto della galassia.
Non è un caso che, come remake, venga riproposto un film già uscito con identico titolo nel lontano 1951 (quasi 6o anni fa).
Si tratta di "Ultimatum alla terra (titolo originale "The Day the Earth Stood Still").
Questa molto in sintesi la trama.
L’alieno Klaatu atterra sull’America post-undici settembre con un avvertimento per l’umanità: non fate la guerra e amate l’ambiente. Un'affermata scienziata si ritrova faccia a faccia con un alieno chiamato Klaatu, che ha viaggiato nell’universo per avvertire l’umanità di un’imminente crisi globale.…

Entrambi i film propongono l'idea che una razza superiore abbia dislocato nei diversi pianeti abitati da esseri senzienti delle "sentinelle" (dei propri rappresentanti) che vigilano e stendono periodici rapporti sullo stato di salute del mondo di cui hanno la responsabilità. Il loro scopo è quello di mantenere in ognunoodei mondiidi cui sentono di avere la responsabilità, una sorta di equilibrio globale e di evitare che alcune specie assumano un rango di predatori attivando circoli viziosi di distruttività. Se ciò accade arrivano altri rappresentanti della loro razza con l'incarico dii"mettere lecose a posto"; nei panni dunque del dio biblico dell'Arca di Noè.


In sostanza, questi esseri si pongono nei confronti dei mondi come degli Dei "giardineri", pronti ad estirpare le erbacce malefiche che soffocano quelle buone.
La salvezza dei mondi può richiedere, a volte, delle soluzione drastiche: eliminare una specie per preservare tutte le altre, non per il piacere di farlo, ma per un motivo di ordine superiore: mantenere in vita il pianeta che li ospita.
E' questa la filosofia "cosmica" che entrambi i due film propongono.
Chiaramente, con delle differenze in funzione dell'epoca in cui sono comparsi.
Il primo risentiva degli effetti delle paure instillate dal maccarthismo e dal clima della guerra fredda, quando tutti (e soprattutto gli Americani) vivevano con il fantasma della guerra nucleare e del conseguente inverno radioattivo.
Questo remake, invece, nasce nel clima del post-11 settembre, ma soprattutto è fortemente influenzato dall'accresciuta sensibilità che ciascuno di noi alimenta sulla necessità di preservare l'equilibrio globale del nostro pianeta (visto come un organismo vivente: Gaia), dall'onda lunga del prezioso atto di denuncia di Rachel Carson e dal tentativo di cercare di porre riparo alle distruzioni già messe in opera.
Quindi, in questo secondo film, tutta l'attenzione è centrata sulla fondamentale cattiveria degli uomini nel determinare - con insensibilità e crescente protervia - danni crescenti all'ambiente che li ospita.
Keanu Reeves, pensoso e grave, si propone come personaggio "divino" (e, dopo le sue interpretazioni dei diversi episodi di "Matrix", non può che essere così) che, con onnipotenza ed estrema fermezza decide di ciò che deve essere fatto: lo sterminio di tutti gli uomini e l'annientamanto di tutte le loro opere per la salvezza della Terra e delle altre specie viventi.
Salvo, poi, a dare agli uomini un'ultima chance, riconoscendo che c'è in loro qualcosa di buono: varrà l'avvertimento, c'è da sperare.
Per il resto, tutti gli elementi del primo film ci sono tutti. Sono stati riversati con maestria e senza nemmeno eccedere con gli effetti speciali nel nuovo film: salvooforse la rappresentazione della biblica invasione di cavallette metalliche che tutto polverizzanooal loro passaggio (l'atto finale).
Una differenza rispetto al primo film è nel modo in cui arrivano gli alieni: nel primo, si trattava d'un immenso disco volante (ricordiamoci dell'ossessione degli americani per l'Area 51 e dell'ineusaribile filone degli X-Files), qui invece si tratta di immense sfere luminose, fatte d'una sostanza inattacabile ed indistruttibile.
In entrambi i casi questi veicoli non sono altro che delle "arche" che serviranno a mettere in salvo le specie da preservare, mentre gli uomini cattivi e dannosi vengono distrutti.
Una notazione cinematografica: eccellente l'interpretazione di Kathy Bates, nella parte del Segretario di Stato del Presidente USA che, invece, stranamente non compare mai: si è appena messo in salvo in una località segreta (e si può immaginare, blindata) in attesa degli eventi che verranno.
Un film che può piacere o non piacere, ma in ogni caso dignitoso ed onesto, portatore d'un forte messaggio morale.

sabato 20 dicembre 2008

The long run ovvero una corsa per la vittoria


Qualche giorno fa m'è capitato di vedere uno splendido film del regista Anangh Singh, uscito con poco battage nelle sale cinematografiche (2000) e transitato da esse quasi sotto silenzio, per poi ricomparire di recente in DVD nel mercato dell'home video.
Di tale film, sconoscevo l'esistenza, pur avendo dei motivi specifici per doverlo conoscere. Mi sono imbattuto in esso per puro caso, mentre cercavo di reperire un altro film che mi sarebbe piaciuto acquistare (nel cui titolo entrava pure la parola "run"): uno dei tanti scherzi delle indagini effettuate con i più comuni motori di ricerca, una sorta di "serendipity" telematica.
La brevissima sintesi di appena due righe, fondamentalmente ermetica, m'è piaciuta perchè rimandava al mondo della corsa e, detto fatto, l'ho ordinato.
Il film è risultato straordinario, perchè - in una bellissima storia - sono abbinate assieme "corsa" e formazione personale.
Questa ne è, in sintesi, la storia, ambientata in Sudafrica.
Barry, allenatore di atletica sulla via del declino cerca qualcuno da preparare per la Comrades Marathon che, essendo una celebre e blasonata gara podistica (si disputa dal 1921) sulla distanza di 56 miglia (circa 90 km), ha luogo ogni anno (tra maggio e giugno) sulla distanza che si sviluppa in linea da Pietermaritzburg a Durban, alimentando tra migliaia di partecipanti uno spirito di gruppo e di festa che rappresenta la vera essenza dello sport ed anche il trionfo dela competizione non agonistica.
Alla fine, Barry incontra una giovane donna che, immigrata clandestinamente dalla vicina Namibia, sembra possedere un innato talento per la corsa. Christine, questo il nome della giovanne runner talentuosa, sarà il suo cavallo vincente.
Se sono indubbiamente emozionanti le sequenze finali che il regista dedica alla corsa (la Comrades Marathon), realizzate peraltro con il supporto della stessa Associazione che si ooccupa di organizzare di anno in anno l'ultramaratona in questione, sono ben più toccanti le pagine che descrivono l'incontro tra Barry e Christine, poichè rappresentano in modo straordinario le difficoltà insite nel difficile rapporto tra allenatore e atleta, che è anche relazione tra tutor e allievo.
Il regista propone una forte riflessione sul fatto che accettare una guida (in fondo in qualsiasi campo, non solo nello sport) implica il mantenimento di spazi di autodeterminazione e che la decisione di dedicarsi con impegno ad un progetto agonistico forte deve essere necessariamente autoreferenziale e fondata su d'una propria determinazione volitiva e passionale.
Un allenatore non riuscirà mai nel suo intento (formare un atleta, portandolo alla vittoria o a risultati d'eccellenza) se l'atleta che a lui si affida non condive pienamente lo stesso progetto o non sente emergere dal suo interno una forte motivazione che lo spinge in quella direzione, facendolo adattare a grandi sacrifici e rinuncie. Tutto ciò non può avvenire meccanicamente, ma implica uno sforzo relazionale condiviso in cui entrambi i "contraenti" siano capaci di mettere in gioco se stessi, pienamente, anche sul piano degli affetti e delle emozioni.
Nel nostro film, entrambi, Barry e Chiristine, attraverso tormenti, difficoltà e costruttivi conflitti, imparano qualcosa dal loro incontro: Barry comprende alla fine che, solo accettando anche le componenti affettive della sua dedizione nei confronti di Christine e, contemporanenamente, dandole spazio perchè viva autonomamente la sua vita e le proprie esperienze di giovane donna in crescita, potrà riuscire nel suo intento.
Christine, dopo aver rifiutato Barry e il suo modo fermo e determinato (a tratti, quasi impuslivo) di imporre un controllo sulla sua vita e le sue scelte (rispettoso, ma rigido), si rende conto - dopo aver sperimentato la libertà delle sue decisioni, che ha introiettato dentro di sè la voce, le esortazioni e i consigli di Barry. E saranno proprio questi forti messaggi interiorizzati che, facendosi strada dall'interno verso la superficie, a dare a Christine - nel momento culminante della gara - quella sferzata di energia che, alla fine, le consentirà di tagliare il traguardo, vincente innanzitutto con se stessa.
"The long run" è anche un bel film sulla Comrades Ultramarathon che, anche per questo, dovrebbe essere visto da tutti quelli che amano le ultramaratone.

venerdì 19 dicembre 2008

La serenità edenica di "Blue lagoon" per curarsi dalla volgarità idiota de "L'isola dei famosi"...


Ieri, m'è capitato di rivedere in DVD un film che con la sua trama ingenua ed il lieto finale, mi aveva colpito quando più di vent'anni fa ebbi modo di vederlo al cinema. Si tratta di "Blue lagoon", realizzato dallo stesso regista di Grease ed interpretato da una ancora giovanissima Brooke Shields (allora appena diciasettenne).
Il film, quando venne fuori nel circuito delle sale cinematografiche, pur essendo un per tutti, fece scalpore, perchè i due attori protagonisti erano il più delle volte nudi, con l'esibizione naif del proprio corpo, salvo a trovare forme di delicato pudore soltanto dopo la scoperta dell'amore.
Il film, realizzato con misura e buon gusto, peraltro non creava (e non crea tuttora) aspettive morbose negli spettatori, ma presenta la rivelazione d'un mondo selvatico ed incontaminato, un vero e proprio Eden, in cui i due giovani naufraghi crescono e si sviluppanoin una condizione di purezza" primigenia.
Il mito trattato è quello del fanciullo selvaggio di Rousseau che, pur lasciato in balia di se stesso negli anni cruciali dello sviluppo, si forma con codici etici e comportamentali adeguati a quelli della civiltà da cui proviene.
Non bisogna dimenticare che il film è tratto dal romanzo d'uno scrittore inglese ancora intriso dei codici culturali vittoriani (Henry De Vere Stackpoole, un vero autore di best-selers, per quell'epoca) che, nel suo immaginario, riuscì ad ideare una vicenda decisamente in controtendenza rispetto ai canoni del tempo (e forse proprio per questo "Blue lagoon" ebbe tanto successo di pubblico).
Lo scrittore riuscì pienamente nel suo intento senza lasciarsi intrappolare dalla faccia nascosta e morbosa del puritanesimo della sua epoca.
Il film che ho visto ieri ha appunto questa forte impronta d'innocenza e purezza: il tutto, senza scadere nella melensaggine, ha il sapore fresco della scoperta, sia le gioie sia i timori sia il confronto con il duro mondo al di fuori (in cui vengono accomunati i selvaggi crudeli dediti ai sacrifici umani e i bianchi che vengono alla loro ricerca).
Non vi è mai lo scadimento nella volgarità e ogni sequenza è delicatamente interpunta con scene "documentaristiche" che mostrano la fondamentale bellezza della natura, maestra benigna e dispensatrice di doni (dove perfino delle bacche ritenute velenose fanno soltanto addormentare)
"Blue lagoon" ci offre una visione, tutto sommato, rassicurante e rasserenante che trova il suo contraltare nella rappresentazione decisamente più cupa e pessimista di William Golding nel suo "Il signore delle mosche", che pure venne trasposto efficacemente in film, dove viene mostrato come il confronto con un ambiente selvaggio in assenza degli adulti "educatori" espone i giovani a rischiose derive e alla liberazione di comportamenti violenti.
Secondo me, tutti i giovani dovrebbero vedere questo film (magari assieme al "Il signore delle mosche" che mostra l'altra faccia della medaglia della serenità edenica) per disintossicarsi e riedurcarsi dalla volgarità, dalle finzioni e dai pettegolezzi della becera "Isola dei famosi".

martedì 28 ottobre 2008

Babylon A.D.: un tema potenzialmente visionario cade nelle strettoie del film d'azione


Il mercenario veterano di guerra Toorop accetta l'incarico di scortare una misteriosa giovane donna dalla Russia a New York. Non sa però che la sua compagna di viaggio ha subito una terribile manipolazione genetica. La critica ha detto: "Sintesi compressa e caotica dei temi ricorrenti dell'odierna fantascienza" (www.mymovies.it).
Kassovitz è lo stesso regista di “Fiumi di porpora”, tratto dal romanzo di Jean-Christophe Grangé, un autore francese di thriller dalle atmosfere cupe e drammatiche, molto gettonato anche in Italia. In quest'opera di Kassovitz, rispetto al precedente “Fiumi di porpora” (2000) che fu una prova decisamente convicente, il passaggio dagli stilemi propri del thriller a quelli del film d’azione. E ciò è evidente anche nella scelta dell’attore protagonista (vin Diesel) che interpreta uno dei personaggi-cardine della vicenda e cioè il veterano Toroop.
Il film, in particolare nella sua prima metà, si propone con toni apocalittici e visionari, nella presentazione di un futuro, ormai alle porte (la vicenda è ambientanta nel 2013), devastato da guerre locali senza fine, dietro le quali – appena dissimulate da ideologie-pretesto – ci sono giganteschi interessi commerciali e soprattutto la mano delle nuove mafie emergenti (la mafia russa, la cecena, quella "siberiana"). Lo scenario, proposto in apertura, è devastante e d’impatto: immagini cupe di un’umanità regredita alla legge della clava, solo che adesso la clava è costituita da armi super-tecnologiche (missili, armamentari atomici “locali”), anche se la violenza è quella primigenia.
La prima parte della narrazione è tutta centrata sulla missione di Toroop, che è quella di portare in salvo negli Stati Uniti Aurora, la giovane donna che gli è stata affidata, superando i mille ostacoli d'un ambiente ostile, gli scenari di guerra e le trappole di gruppi organizzati che cercano di prendere in ostaggio quella stessa donna.
Nella seconda parte del film avviene il disvelamento dell’intrigo: lo spettatore apprenderà quale sia il motivo di tanto interessamento da parte di schieramenti avversi..
Purtroppo, proprio in questa seconda parte che fa balzare la vicenda in un contesto di science-fciction, peraltro pienamente credibile sulla base degli sviluppi odierni della tecnologia della riproduzione artificiale e della clonazione, la pellicola tende a scadere in un ordinario film d’azione con scene di sparatorie e inseguimenti rumorosi, tanto care alla cinematografia americana: con una perdita secca delle oltre 600 pagine del romanzo di Dantec.
Dantec è uno scrittore visionario e assolutamente poco prolifico. Dopo tre lunghi romanzi usciti a breve distanza di tempo l'uno dall'altro si è fermato e non ha più dato traccia di sé. Il suo pregio è quello di cogliere aspetti intriganti (8ed inquietanti) degli odierni sviluppi di alcune biotecnologie e dei software informatici, per applicarli alle sue trame che sono duttili e sincretiche, nel senso che accolgono - in un mix molto accattivante - elementi del romanzo d’azione, del thriller, del cyber-punk e della fantascienza in senso ampio.
Babylon A.D. offre un apertura in chiave sociologica molto interessante, peraltro, sul mondo delle sette: nella fattispecie, l'ipotetica setta dei Noeliti che predica il ritorno nel mondo di un messia che nasca da una donna mai toccata da uomo, il quale messia riporterà il mondo alla purezza originaria. Soltanto che i Noeliti del film (e del romanzo), immersi in un fanatismo radicale, sono pronti a cercare di realizzare il loro verbo profetico a qualsiasi prezzo, nello spregio di ogni valore etico.
Notevoli le parti cameo di Gerard Depardieu (il mafioso siberiano che incarica Toroop della speciale missione) e di Charlotte Rampling nella veste dela durissima sacerdotessa della setta dei Noeliti.
Il fatto davvero interessante è che, pochi anni dopo l’uscita del romanzo, tra Canada e Stati Uniti venne fuori un procedimento giudiziario a carico d’una setta fondamentalista che predicava con fanatico ardore la clonazione come strumento di salvezza del genere umano e che, a tal fine, aveva assoldato degli scienziati per dare una forma concreta alle loro convinzioni.

Il romanzo di Dantec in sintesi

Estate del 2013. Il mondo è sull'orlo del caos. I conflitti locali si stanno moltiplicando, la Cina è dilaniata dalla guerra civile, le alterazioni del clima minacciano l'ecologia del pianeta, il potere legale è ormai gestito dai clan mafiosi con l'aiuto decisivo di strabilianti tecnologie informatiche. Da questo scenario "babelico" emerge la figura di Hugo Cornélius Toorop, il mercenario idealista già al centro de "La sirena rossa", il primo romanzo di Maurice G. Dantec. Scampato al conflitto cinese. Toorop viene arruolato dalla mafia siberiana per scortare dalla Russia al Canada Marie Zorn, una giovane donna depositarla di un incredibile segreto, una sconvolgente scoperta in grado di cambiare per sempre i destini dell'umanità. E questo è solo l'inizio di una vertiginosa epopea, a cavallo tra spy story, giallo e fantascienza. (Maurice G. Dantec, Babylon Babies, Hobby&Work Publishing, che - in omaggio al film - è stato riedito nel 2008 con il titolo di “Babylon A.D.”)

Scheda del film

Regia: Mathieu Kassovitz.

Interpreti principali: Vin Diesel, Melanie Thierry, Michelle Yeoh, Lambert Wilson, Mark Strong, Jérôme Le Banner, Charlotte Rampling, Gérard Depardieu.

Genere Azione, colore;

Durata: 90 minuti. -

Produzione; USA, Francia 2008. -

Distribuzione Moviemax

domenica 12 ottobre 2008

"The mist": nella nebbia accadono cose e vivono mostri


La mattina dopo che una violenta tempesta s'é abbattuta su di una cittadina del Maine, una strana nebbia avvolge tutta la zona. Il fenomeno tiene prigionieri i clienti di un supermercato, all'interno del quale tra i rifiugiati si sviluppa un progress di tensione e azione, sino al tentativo di liberazione e di fuga da parte di un gruppetto solidale di personaggi più intraprendenti.

Chi abbia letto l'omonimo romanzo breve di Stephen King, ricorderà di esserne rimasto affascinato da questa storia e, nello stesso tempo, orripilato. I racconti del "Re", per quanto estremi e paradossali, piacciono sempre perchè sono confezionati da un grande affabulatore che rifugge dalle soluzioni troppo facili e preconfezionate e che, considerando l'effetto dell'esplicitazione diretta di dettagli orrorifici solo un condimento" alla narrazione da utilizzare con parsimonia, ne fa un uso sapiente per creare in taluni casi una sorta di catarsi rispetto alla tensione che è andata crescendo in modo intollerabile attraverso l'atmosfera del "non detto". Il racconto di Stephen King, "Nebbia" (comparso in una delle periodiche antologie che il Nostro sforna al ritmo medio di una ogni sette anni, per la precisione "Scheletri", edito in Italia dalla Sperling & Kupfer nel 1989) propone una situazione "estrema" nella quale secondo uno schema che gli è usuale, egli esamina le reazioni diverse dei vari personaggi che mette in scena, aprendo per ciascuno di essi dei "sipari" narrativi che a ciascuno di essi danno spessore e forza.
Come capita spesso nelle sue opere, egli tende a valorizzare la funzione catartica del gruppo coeso e compatto (il cui prototipo è quello del gruppo adolescenziale: si veda, appunto, la narrazione torrenziale di "IT" tutta centrata su questo leit-motiv) come antidoto al male misterioso che irrompe nella scena con prepotenza, in maniera dirompente e per ragioni che il più delle volte rimangono misteriose.
Il racconto in questione contiene, in piccolo, la maggior parte dei topoi narrativi kinghiani e si legge godibilmente sino ad una conclusione pessimistica che però lascia spazio ad un filo di speranza consolotaria, che - alla fine - per il gruppetto di eroi, scampato ai pericoli, ci potrà essere una forma di salvezza.
Il recente film di Darabont (lo stesso regista che ha diretto "il miglio verde") segue pedissequamente la trama kinghiana, ma senza l'anima che la caratterizza, senza slanci e fantasia.
Gli elementi della storia scritta (salvo il finale che, nel film, è troppo consolotario, per quanto amaro) ci sono tutti, ma realizzati a forza di effetti speciali; stesso discorso dicasi per il modo in cui è trattata la situazione di prigionia claustrofobica all'interno del supermercato; oppure della foga fondamentalista della predicatrice che ciancia, arringando sulla fine del mondo ormai prossima, leggendo brani dell'Apocalisse e invitando tutti i pecccatori a pentirsi.
Manca tuttavia lo spirito della narrazione kinghiana, con un effetto che, facendosi a tratti soporifero, viene interrotto da un eccesso di attenzione "splatter" alle mille ed una morti riservate ad una parte dei superstiti.
A volte trasfomare in film un testo letterario pedissequamente, ne rappresenta la morte.
Un'interpretazione visionaria e creativa, viceversa, lo può valorizzare. Come accadde, ad esempio, in modo eclatante con la rielaborazione cinematografica di "Shining" da parte di Kubrick, peraltro contestata da King che sui suoi testi non ama rielaborazioni.
Il risultato è pertanto quello di un film poco più che mediocre che deve il suo effetto sugli spettatori soprattutto all'abbondanza dei dettagli splatter, ma anche al tentativo di lettura dello svilupparsi delle dinamiche interpersonali in una situazione claustrofobiche mentre si trovano sotto assedio da parte di forze temibili e sconosciute (il che poi dà anche una chiave di lettura sociologica di una parte dell'America di oggi: non è un caso che sia proprio l'esercito a risolvere la situazione).
Il messaggio accusatorio e di denuncia, che il regista formula contro i demiurghi irresponsabili, rimane però debole e pretestuoso, specie quando viene tirato in ballo "Il progetto", probabilmente causa diretta della situazione di minaccia. Il monito contro gli scienzati che fanno cose di cui non conoscono gli effetti non viene adeguatamente sviluppato, rimanendo debole, se non attraverso l'ira fondamentalista della predicatrice pazza: e questo è un po' poco. L'aver tentato di "aprire" una porta di comunicazione tra il nostro pianeta e altri mondi paralleli, causando il riversarsi di sanguinarie creature aliene nella nostra realtà, è peraltro un tema che S. King che ha sviluppato in un suo più recente romanzo ("From a Buick eight"),in cui un vecchio modello di Buick - per motivi misteriosi ed indecifrabili - funziona come una porta tra mondi diversi.

La recensione su www.mymovies.it
Un progress di tensione e azione in cui l'effetto speciale nasce dagli abissi dell'animo umano
Dave Drayton vive con la moglie e il figlioletto Billy in una casa fuori città. Subito dopo una tempesta particolarmente violenta inizia a diffondersi una nebbia che non sembra avere ragioni meteorologiche. Insieme al vicino di casa Brent Norton (col quale non ha buoni rapporti) e a Billy Dave si dirige con il suo fuoristrada verso il supermercato locale. Lungo il percorso incontrano mezzi militari che si dirigono verso la nebbia. Brent fa allora riferimento a un misterioso Progetto. Ben presto tutti gli occupanti del supermercato si troveranno avvolti dalla nebbia all'interno della quale si muovono creature mostruose. L'incubo ha inizio.
Stephen King è un autore tanto fortunato sul piano letterario quanto poco accorto nell'assegnare i diritti delle proprie opere per la trasposizione sullo schermo. In buona parte dei casi il suo già cospicuo conto in banca deve essere aumentato ma non è certo aumentata la stima dei frequentatori delle sale. I film 'da King' sono spesso letture superficiali della struttura di base delle sue opere dalle quali sono stati espunti tutti gli approfondimenti psicologici di cui l'autore è abile artefice.
Per questo film tratto da un racconto incluso nella raccolta "Scheletri" invece siamo di fronte a una delle (purtroppo) non frequenti eccezioni. Darabont, già esperto 'kinghiano', riesce a offrire un efficace saggio di come si possa trasporre un testo letterario sullo schermo potenziandone la valenza simbolica. Se l'assunto di partenza è già stato sperimentato da Maestri (vedi ad esempio Buñuel con L'angelo sterminatore) e non grazie alla costrizione iniziale di un gruppo di individualità diverse costrette da un evento drammatico a condividere un spazio chiuso, il regista riesce a trarre da questa idea di partenza l'occasione per rileggere le dinamiche interpersonali e, forse, per fare qualcosa di più.
Man mano che il film procede e che l'orrore si fa più tangibile ciò che colpisce nel profondo lo spettatore non sono tanto i mostri assetati di sangue a cui tanto cinema ci ha in qualche modo abituato. Essi sono e restano uno strumento. Ciò che a Darabont interessa è la lettura dell'America di oggi (ma, con qualche variazione non sostanziale, potremmo aggiungere di tutto il mondo occidentale) in cui l'iniziale solidarietà contro la distruzione imminente finisce con il frantumarsi in una miriade di prese di posizione dove l'ego e i condizionamenti sociali di origine prendono il sopravvento. Si può essere razionali non negando l'evidenza nei confronti dell'impensabile ma si può anche invece decidere (proprio in nome di una supposta razionalità) di chiudere gli occhi dinanzi all'evidenza. Si può esasperare un misticismo fideistico che ha tutte le premesse della crudeltà così come consentire a risentimenti a lungo covati di venire in superficie. Tutto questo viene portato sullo schermo avendo sempre presente lo sviluppo dell'azione e costruendo un progress di tensione in cui l'effetto speciale nasce dagli abissi dell'animo umano, dalle sue pulsioni più profonde e anche dalle sue contraddizioni. È grazie a questo progressivo scavo delle singole psicologie che il j'accuse contro esperimenti top secret si affianca senza alcun moralismo alla compassione (nel senso più alto del termine) nei confronti di Dave. Che dovrà affrontare l'orrore più insostenibile. Avvertenza per gli appassionati: fin dalla prima scena Darabont paga il suo debito di riconoscenza a un maestro del genere. Non vi sarà difficile scoprire in quale modo.

Scheda film
Regista: Frank Darabont.
Interpreti principali: Thomas Jane, Marcia Gay Harden, Andre Braugher, Laurie Holden, Toby Jones, Jeff De Munn, Frances Sternhagen, William Sadler, Nathan Gamble, Alexa Davalos, Sam Witwer, Chris Owen, Robert Treveiler, David Jensen. Genere Horror, colore, 127 minuti.
Produzione USA 2007. -
Distribuzione Key Films
Vietato ai minori di 14 anni.




lunedì 29 settembre 2008

Anche a Palermo i "lucchetti d'amore"

Chi ha letto "Ho voglia di te" di Federico Moccia , seguito del più famoso "Tre metri sopra il cielo" ricorderà i lucchetti d'amore di Ponte Milvio a Roma. I due innamorati, Babi e Step, vanno a legare un lucchetto ad una catena: un lucchetto che esprime l'indissolubilità del loro amore. I lucchetti di tanti innamorati hanno preso a pendere i veri e propri festoni da catene fissate ai lampioni che fiancheggiano il ponte.
Il romanzo di Moccia, quello - per intenderci - della famosa frase "Io e te tre metri sorpa il cielo" è diventato un romanzo "cult" tra le giovani generazioni. Ed è stato così che si sono estese a dismisura una serie di "pratiche" in cui indulgono i due protagonisti di ambedue i romanzi. Come, ad esempio, il vezzo di scrivere dovunque (e con tutte le possibili varianti) la frase "Io e te..." oppure l'usanza di andare a Ponte Milvio per collocarvi il proprio lucchetto d'amore, suggello dell'eterità dell'amore per quella coppia (augurio e vincolo nello stesso tempo): un lucchetto personalizzato dall'usanza di scrivervi sopra con un pennarello indelebili i propri nomi che così venivano ad essere "cuiciti" uno all'altro dal lucchetto. E la scelta dei luchetti era infinita, spziando da catenacci davvero enormi ad esemplari piccolissimi (da valigino oppure da cassaforte tascabile), a seconda del gusto e del desiderio di protagonismo di ciascuna delle coppie che si giurava eterno amore.
Niente di nuovo sotto il sole, peraltro: un tempo gli innamorati usavano incidere i propri nomi (magari corredati da un cuore rafitto da una freccia) sulla corteccia degli alberi oppure pittarlo sulla pietra d'una panchina su cui a lungo ed in diverse circostanze erano stati seuto a gustare momenti di intimità.
Gli stessi lucchetti d'amore hanno una storia molto più antica del romanzo di Moccia: già alla fine degli anni Novanta, ve ne sono consistenti festoni in alcune località "storiche" e d'interesse turistico, come ad esempio sul Ponte Vecchio a Firenze. Solo che Moccia ha avuto il potere trainante di far diventare l'usanza del lucchetto d'amore una consolidata abitudine tra i più giovani.
Ponte Milvio è diventato meta d'un incessante pellegrinaggio di giovani coppie che vi collocavano il proprio lucchetto, appesantendo ciascun lampione del ponte, alla lunga, con decine di chili di ferraglia tra catene e catenacci. Tanto che, da un certo momento in poi,l'Amministrazione comunale di Roma, ha deciso di rimuoverli poichè erano di nocumento alla stabilità dei lampioni: un provvedimento che è stato portato a buon fine non senza suscitare veementi proteste tra i giovani che hanno tacciato gli amministratori dell'Urbe di insensibilità e scarsa attenzione ai bisogni "emozionali" dei più giovani .
Su questa faccenda si sono attivate storie e storielle, con il sapore delle "leggende" metropolitane: una delle tante versioni vorrebbe che i lucchetti di Ponte Milvio siano stati trafugati da alcuni nomadi desiderosi di rivenderli ad un commerciante di ferraglie per guadagnarci su quattro lire. Secondo un'altra versione sarebbero stati asportati diverattemente da un rivenditore di ferramenta, ma con quale scopo poi visto che, essendo privi di chiave, erano inservibili.
Ora, i lucchetti d'amore, come succede spesso con i fenomeni di culto che tendono a dilagare a macchia d'olio, sono giunti anche a Palermo. Ne sono stati avvistati alcuni, isolati, sulla ringhiera che delimita la nuova passeggiata a mare, nei pressi di Sant'Erasmo, mentre ci sono testimonianze di colonie di essi ben più cospicue sul pontile del borgo marinaro di Mondello.
Le foto che corredano il post ne sono appunto una testimonianza.


I lucchetti d'amore tra Ponte Vecchio e Ponte Milvio: una breve storia del fenomeno da wikipedia

Da diverso tempo è consuetudine di giovani innamorati mettere un lucchetto sul lampione centrale di ponte Milvio o in altri ponti e gettare le chiavi nel fiume sottostante, così da rendere infrangibile il loro sogno d'amore.

L'usanza sembra essere stata iniziata a Firenze, dagli allievi ufficiali della Scuola di Sanità in Costa San Giorgio che, al momento del congedo, legavano il lucchetto del loro armadietto su una barra metallica oltre il parapetto del Ponte Vecchio. Questa tradizione è passata in seguito agli innamorati, ed è stata traslata a Roma e resa molto popolare a seguito del libro Ho voglia di te di Federico Moccia in cui, appunto, i due protagonisti si giurano amore eterno agganciando un lucchetto nel palo centrale del ponte dopo averlo serrato, buttandone poi via la chiave.

Il trafugamento a fine febbraio del 2007 di tali lucchetti (che avevano totalmente ricoperto il lampione) ha innestato una nota polemica dai vaghi quanto comici contorni politici. Il fenomeno - che di per sé sarebbe rilevante solo sotto il profilo antropologico (la medesima usanza è riscontrabile anche sul Ponte Vecchio di Firenze, dove viene attualmente utilizzata la cancellata del monumento dedicato a Benvenuto Cellini (dove è prevista una multa di 50 € per chi viene sorpreso dalle forze dell'ordine a mettere lucchetti) ed è assimilabile al rito di gettare una moneta nella Fontana di Trevi per garantirsi un ritorno nella Città Eterna). Secondo il quotidiano milanese "Il Corri

ere della Sera" del 2 marzo 2007, l'ostilità nei confronti dell'uso di appendere lucchetti al lampione del ponte avrebbe provocato addirittura la creazione di un apposito comitato di quartiere, interessato alla conservazione patrimoniale del Ponte.

I giornali hanno pubblicato la notizia secondo cui, nella notte tra il 2 ed il 3 marzo 2007, i lucchetti erano stati rubati da un gruppo di nomadi. I Carabinieri avrebbero ritrovato i lucchetti nel magazzino di un commerciante in materiali ferrosi usati e i lucchetti sarebbero stati rimessi al loro posto. Alcuni abitanti del quartiere avevano motivato già il 27 febbraio 2007 al quotidiano milanese "il Giornale" i motivi della loro ostilità ma non è comprovabile che essi siano i responsabili del gesto. I lucchetti tornati a far mostra di sé sul ponte sembrano inoltre nuovi, dal momento che quelli ritrovati, tagliati da cesoie apposite e in ogni caso senza chiavi, sarebbero stati del tutto inutilizzabili.

Il 13 aprile 2007 il lampione a cui sono appesi i lucchetti, per l'eccessivo peso è quasi crollato, spezzandosi sul punto del lume. Questo è via via accaduto ad altri tre lampioni, dei quali sono rimasti solamente i monconi dei pali, essendo crollati i lumi. Nel mese di luglio 2007 sono stati tolti i lucchetti dai lampioni e sul punto sono stati aggiunti dei pilastri davanti ai lampioni stessi sui quali sono state agganciate delle catene alle quali poi sono stati rimessi i lucchetti stessi. Il tutto per salvaguardare i lampioni, quattro dei quali, come detto, sono stati spezzati dal peso dei lucchetti (anche a causa del fatto che non ci si è limitati a porre i lucchetti sul palo del lampione ma anche sul cappello, piegando e in seguito spezzando il lume stesso).



domenica 17 agosto 2008

I film visti dal retro dello schermo: un ricordo tramandato

La magia del cinema!
La meravigliosa invenzione dei fratelli Meliés, a partire dallo sviluppo della "lanterna magica", ha avuto un'incredibile sviluppo.
Difficilmente potremmo pensare alla nostra vita senza il cinematografo
E anche se oggi ci sono molteplici possibilità di vedere un film (in televisione, in DVD, attraverso il PC direttamente dalla rete, sullo schermo minuscolo di un I-Pod) rimane sempre unico ed irripetibile quello straordinario insieme di sensazioni derivanti dal vedere un film nel buio di una sala cinematografica, in una condizione di isolamento e distacco rispetto alla realtà "ordinaria".
Vedere un film al cinematografo è come entrare in uno stato onirico.
E, per quanto sofisticata possa essere, la visione casalinga dei film ( o in tutti gli altri modi che ci consente oggi la tecnologia) rimarrà sempre un pallido surrogato della sala cinematografica.
C'era un tempo in cui i primi film li si potevano vedere soltanto in luoghi spcificatamente preposti: ancora non sale cinematografiche come le intendiamo noi, ma sale da teatro o da cabaret adattate alla bisogna con un grande telo bianco che fungeva da schermo.
E' in posti così che i nostri nonni (e forse qualcuno dei nostri padri) hanno visto i primi film, a partire dai cortometraggi - quasi sperimentali e girati a mano - dei fratelli Meliés.


Sino ad un certo punto la cinematografia è stata appannaggio del'Occidente, dove ha visto un grandioso sviluppo (sia tecnologico, sia nella varietà dei temi trattati); poi s'è verificato uno straordinario punto di svolta. Oggi, l'India è il paese del mondo che produce la maggior parte dei film dell'intera produzione mondiale. E' stato creata - a far da contraltare alla regina degli Studios cinematografici che è Hollywood, la denominazione "Bollywood" per indicare il centro pulsante del cinema made in India, ma anche il genere e lo stile cinematografici prediletti dagli Indiani.
In India, andare al cinema a vedere i film - a volte lunghissimi, vere e proprie saghe in più puntate - è diventato un vero e proprio sport popolare, diffuso trasversalmente tra tutte le caste.

Viaggiando in auto qualche tempo fa, ascoltavo una trasmisione radiofonica in cui si parlava proprio di questo fenomeno. Ad un certo punto, il conduttore della discussione e l'ospite di turno hanno tirato in ballo il discorso degli intoccabili per chiedersi: "Ma anche gli 'intoccabili', i paria, vanno al cinema? E se ci vanno, come si realizza questa loro partecipazione, visto che, essendo appunto 'intoccabili', non possono darsi condizioni di promiscuità con i rappresentanti di altre caste?" UNo dei due ha detto allora: "A loro è concesso di entrare dal retro del cinematografo e, quindi poter veder il film per così dire, dietro le quinte in una condizione di apartheid, guardando la parte posteriore dello schermo e, quindi, hseguendo il film "capovolto" orizzontalmente (il lato destro al posto del sinistro) e con un sonoro - ovviamente - attenuato".
Non so se questa sia una vera notizia oppure una semplice illazione scaturita nel clima "leggero" del programma.
Ho fatto delle ricerche al riguardo, ma non ho trovato alcun riscontro.
In ogni caso, come tutte le cose "comunicate", possiede un potere associativo intrinseco e fa venire in mente ricordi e flussi ideativi che s'innestano come "curiosità" nel percorso di crescita della cinematografia in occidente.


Se è vero che, oggi, i paria dell'India moderna vanno al cinema, ma vengono fatti accomodare in corrispondenza del vano che c'è dietro lo schermo, allora si può affermare che, in fondo, niente cambia al mondo, da un paese all'altro, da un tempo all'altro.
Ed è sorprendente constatare come si verifichino certe affinità.
Mi sovviene una storia che mi raccontava una mia zia quando ero piccolo.
La zia Mariannù, sorella di mio padre, era un autentico pozzo di San Patrizio di storie e aneddoti riguardanti la sua famiglia.
Io piccolo li ascoltavo sempre incanto e ne sollecitavo sempre di nuovi, oltre a volere raccontati reiteratamente quelli già ascoltati una volta.
Mio padre era il primogenito di quattro figli (sarebbero stati cinque, ma il maggiore di tutti, come spesso accadeva in quei tempi, morì piccino pe una di quelle infezioni che, in era pre-antibiotica, avevano esito infausto).
Le condizioni economiche della famiglia del nonno non erano eccellenti, benchè decorose: lui faceva parte di una famiglia decaduta a causa del vizio per il gioco del proprio padre che, in un colpo, aveva perso tutte le fortune di famiglia e lui, il nonno Totò, a causa di ciò, dopo esser cresciuto come un giovin signore (aveva perfino il suo calessino personale che, ai tempi, era l'equivalente di una spider), aveva dovuto cominciare a lavorare per tirare sbarcare il lunario e sostentare la sua famiglia in rapida espansione, trovando impiego in quell'altra grande famiglia delle Ferrovie dello Stato.
I soldi per tirare avanti erano pochi e bisognava dare la priorità alle spese essenziali per la sopravvivenza (il cibo che, secondo le concezioni del tempo, non doveva mai mancare, il vestiario - questo con molta parsimonia e privilegiando il riciclo - e le spese per l'istruzione).

Lo "svago" erano le passeggiate e qualche gita in campagna, ma nulla di più.
Ogni tanto, però, un conoscente di famiglia, dava loro la possibilità di entrare in uno dei primi cinema di Palermo (siamo negli anni tra le due guerre). La sua buona disponibbilità, tuttavia, non poteva giungere a procurare dei biglietti-omaggio regolari (che forse, allora, in quanto tali, nemmeno esistevano): a tutti gli effetti, invece, faceva entrare tutta la famiglia (papà e mamma, i quattro marmocchi) dalla porta sul retro, facendoli accomodare alle spalle del telone bianco dello schermo su alcune seggiole appositamente predisposte.
Qui, loro - con il senso di meraviglia che solo allora si poteva sperimentare davanti alle immagini in movimento - se ne tavano estasiati a guardare il loro film, in fondo ospiti privilegiati perchè il più delle volte erano soli.
Mia zia ricorda di tanti film visti in questa maniera ed aveva anche vivida la sensazione di dovere ad una sorta di privilegio il fatto di essere là - ogni volta protagonisti di un'occasione speciale, per la quale era di prammatica vestirsi bene come si fa in tutte le uscite importanti.
Il fatto che il film si vedesse come allo specchio, in fondo, aveva un'importanza molto relativa, come anche il fatto di sentire come colonna sonora le risate ed i commenti del pubbblico che si trovava dall'altra parte dello schermo, mentre loro - proprio a causa della loro condizione di "clandestini" - dovevano rimanersene rigorosamente in silenzio.
E malgrado tutto, loro si sentivano dei privilegiati, mica degli esclusi.


Del resto, andare al cinema era costoso e non tutti potevano permetterselo.
Come ci mostra Tornatore nel suo "Nuovo cinema paradiso" ancora negli anni Cinquanta, nei piccoli paesi, andare al cinema ed i sala occupare una posizione di privilegio era un segno di distinzione di classe.
C'era chi poteva e chi non poteva.
E chi poteva non solo traeva piacere dallo spettacolo, ma godeva anche del suo privilegio, a fronte dei tanti che avrebbero desiderato entrare ma che rimanevano di fatto esclusi.

martedì 5 agosto 2008

La chiocciolina che voleva toccare il cielo

Camminavo nel caldo d'un giorno d'estate, quando mi sono imbattuto in una chiocciolina.
Stavo per passare oltre, ma una vocina sottile mi ha trattenuto.
"Chi sei?"
"Sono un viandante"
"Dove vai?"
"Non lo so. E' la strada a portarmi, non so ancora dove mi condurrà."
"Ce l'hai un nome?"
"No, nessuno me l'ha mai dato, ma se vuoi puoi chiamarmi Wanderer"
"E tu, invece, ce l'hai un nome, chiocciolina?"
"Un tempo ero una principessa ed il mio nome era Noemi"
"Non ti chiederò certo come sei diventata chiocciola..."
"Fai bene: sarebbe una storia troppo lunga da raccontare! Però, siccome mi fai simpatia, forse un giorno te la racconterò, ma non adesso. Per ora, fa persino troppo caldo per parlare."
"Piuttosto, dimmi, chiocciolina - o dovrei dire Noemi? - cosa ci fai appollaiata là sopra? Questo sì che mi incuriosisce!"
"Dopo che sono stata trasformata in chiocciola, mi sono ritrovata in un bel campo di erba verde e tenera. C'era tanto cibo a disposizione e si stava al fresco. Poi, purtroppo, è venuta la siccità e il bel campo verde si è trasformato in un'arida e polverosa distesa di stoppie. Ho pensato che avrei potuto morire di fame e di sete. Mi sentivo soffocare!"
"E, allora, cosa hai fatto?"
"Lo vedi, no?"
"Cosa devo vedere?"
"Ma dai, sciocco, perchè secondo te sono quassù?"
"Non ho molta fantasia, chiocciola-Noemi. Io sono solo un povero viandante... Dimmelo tu!"
"Come ti ho detto, morivo dal caldo in mezza all'erba secca. Di lì a poco sarei morta di stenti. Ho visto quest'affare e ho pensato che fosse una torre che saliva ardita verso il cielo. Allora, pian pianino, ho preso ad arrampicarmici su. Sinceramente, pensavo che sarei riuscita ad arrivare sino al cielo il cui azzurro è così intenso da farmi venire male al cuore..."
"E poi, cos'è successo?"
"Niente!"
"Come, niente?"
"Sono arrivata, dopo giorni e giorni di lenta arrampicata, proprio qui dove tu mi vedi, sulla guglia della torre, ed oltre non si può andare".
"E cosa fai?"
"Aspetto!"
"Aspetti?"
"Sì, aspetto di poter arrivare a quel bel cielo blu, di poterlo tastare con le mie antenne: non ho ancora perso le speranze di poterlo raggiungere, un bel dì. Così è scritto nel libro delle profezie, a quanto sembra: che dovrei farcela. I saggi dicono che sia molto bello lassù. Ma ho anche la convinzione che, se potrò arrivare al cielo, riavrò le mie sembianze di principessa, benché non abbia di che lamentarmi della mia vita di chiocciola. Mi ha insegnato tanto e, soprattutto, mi ha dato il dono dell'umiltà."
"Come passi il tuo tempo?"
"Guardo il bel cielo su di me ed i suoi colori cangianti. Ascolto il frinire delle cicale e lo stormire delle foglie di quegli alberi lontano. A volte, mi limito ad ascoltare il suono del silenzio. Certe volte cado nel deliquio del sonno e sogno del tempo in cui ero una principessa. Qualche volta canto, anche se nessuno può sentire la mia voce che è tanto esile e sottile. Però, una cosa ti posso dire: non mi annoio mai. Mi riparo dal caldo: vedi bene come mi sono sigillata dentro il mio guscio. Durante la notte arriva un po' di rugiada che mi dà sollievo. Ma non ho ancora ho perso le speranze di poter riprendere il mio cammino, un giorno. Quando sarà, sarà. Anche se dovesse venire la pioggia e il campo ricoprirsi di erba succosa, non rinuncerei mai al mio sogno del cielo"
"Ti capita mai di soffrire, di desiderare qualcos'altro?"
"Affatto! Penso che quando, alla fine, raggiungerò la mia meta, la mia conquista sarà ancora più dolce proprio per tutta questa paziente attesa... In uno dei miei frequenti sogni, un saggio dall'aspetto antico - con una grande barba fluente e lo sguardo severo mi ha detto con voce grave che se non ci sono fatica e offerenza, non ci può mai essere alcuna conquista. 'No pain, no gain', egli ha detto solenne: questa frase mi frulla per la testa ma non ne conosco il significato".
"Ma è quello che hai appena detto prima! 'Non c'è guadagno senza sofferenza'. Lo diceva anche un mio amico, che mi ha fatto da Maestro, tanto tempo fa."
"Ma guarda un po': ci siamo appena incontrati e scopriamo di avere questo punto in comune! Io, il veccho saggio che mi parla nel sogno e tu, il tuo amico-Maestro... Si tratta davvero di una singolare coincidenza, anche se siamo così distanti: io, una piccola e umile chiocciolina, e tu, un viandante."
"Chiocciolina-Noemi, è stato proprio bello incontrarti. Mi hai detto delle belle cose che mi hanno riscaldato il cuore e che porterò dentro di me per il resto del mio cammino. Era da giorni che non scambiavo una parola con qualcun'altro. Ma adesso devo andare: la strada mi chiama imperiosa."
"Ciao a te, allora, Wanderer! Anche per me è stato bello incontrarti: ti sei fermato e mi hai rivolto la parola. Tanti passano e nemmeno si accorgono di me, anche se io cerco di attirare la loro attenzione. Penso che ci siano tante affinità tra noi: io voglio raggiungere il cielo, tu sei attratto irresistibilmente dalla strada. C'è qualcosa che ci spinge ad andare, ma non so bene cosa... Magari, se ci incontriamo di nuovo, un giorno, potremo capirlo meglio..."
"Ciao, io vado allora..."
"Va bene, va bene, ma ricordati che se ripassi di qui potresti ritrovarmi ma nella forma di principessa..."
"E come farò a riconoscerti?"
"Stai tranquillo, non avrai alcun dubbio: sarà il tuo cuore a dirti che sono proprio io, Noemi."


sabato 2 agosto 2008

L'ultimo romanzo della Verasani: un piccolo dramma sull'assurdo della vita

Ho letto questo libro di ritorno dalla mia trasferta riminese, quasi tutto in aereo: è un libro che li legge in un baleno, sia perchè è smilzo, ma anche perchè ha un ritmo narrativo ineludibile.

Questa, in sintesi la trama.
Settembre inoltrato. Un uomo e una donna, in una notte fonda prossima all'alba, si incontrano per caso sulla spiaggia di un lago. Non si conoscono e non sanno di essere lì per la stessa ragione: farla finita. Giulio ha fatto un'ultima puntata al casinò. Sandra ha perduto un figlio. Lui, "cinico incompleto", creditore immaginario incapace di un rapporto diretto con la realtà, vince le iniziali resistenze lasciandosi affascinare dal dolore concreto di quella donna che ride per spaventare la paura e definisce l'amore "una cosa semplice". Complice la notte, il luogo si popola di altre presenze precarie e Giulio e Sandra hanno poche ore per raccontarsi qualcosa delle loro vite e, forse, per cambiare idea. Scritto in "bianco e nero", con incisività drammatica e senso del grottesco, il romanzo mette in scena un'umanità dolente che si incrocia in un luogo quasi metafisico, in attesa dell'alba, in attesa che qualcosa si rompa, che qualcosa succeda. E che infatti succede.
E' un thriller sui generis, come un piccolo ed intenso lavoro teatrale "esistenziale" questo ultimo romanzo della Verasani, un racconto nel quale, al di là dell'apparente unità di tempo e spazio (un'intera notte, uno stesso luogo - la riva di un laghetto), lo spazio e il tempo si dilatano all'infinito, includendo le esistenze di molte altre persone, le loro miserie, i loro dolori, le loro gioie, le loro fughe.
E' come se i due protagonisti si siano incontrati con apparente causalità, ma nella vita il "caso" e la "necessità" s'intrecciano in modi così meravigliosi che uno sarebbe tentato di pensare che, dietro gli accadimenti, ci sia un grande demiurgo che tocca con sapienza, con arguzia e, a volte, con crudeltà, i diversi fili.

E' come se i due protagonisti, Sandra e Giulio se ne stessero seduti su una metaforica panchina, ad osservare il mondo davanti a loro, tutto racchiuso nella superficie cangiante del piccolo lago davanti a loro dalla notte più buio al grigio dell’alba, mentre personaggi diversi entrano in scena, e mentre, soprattutto, ciascuno vede scorrere spezzoni di film della propria vita, talvolta regalandone il racconto all'altro.
E' anche un libro meraviglioso sullo scrivere e sul contatto vivific

ante che, a volte, può esserci tra lo scrittore e i suoi lettori: con la lezione che possono essere i lettori "fedeli" a regalare al primo le più belle storie, per poi poterle leggere trasfigurate. Come mostra questo bellissimo dialogo:
"Ha detto che non sa più cosa scrivere," protesta lei, "che le manca un'idea..."
"Insomma, vuole regalarmi una storia. La sua?
Sandra si morde il labbro inferiore. "Forse"
Giulio ride ancora. "Se è una bella storia, è un gioco dove vinco solo io. Lei cosa ci guadagna?
"Che magari un giorno la leggerò," risponde Sandra, "e penserò che è anche un po' merito mio."
La Verasani non ama scrivere romanzi-fiume: i suoi sono, in genere, densi e concentrati, rispondendo sempre ad un preciso ritmo musicale (basti pensare a quelli in cui è protagonista Giorgia Cantini), scandito dall'interiorità dei personaggi. Qui, accanto al ricordo "narrato" e a quello in soggettiva (che rimane non detto, nella mente di ciascuno dei due protagonisti), assume una grandissima rilevanza il dialogo tra le due dramatis personae (gli altri sono solo delle comparse), e forse, anche l'idea che la relazione con l'altro, il "donarsi" possa lenire alcune ferite, anche se soltanto sino all’alba.

lunedì 28 luglio 2008

Ho guardato le stelle

Di notte, nelle montagne del Montefeltro, sono arrivato in cima ad un passo di cui non ricordo il nome (a 987 m. slm).
La strada veniva da Villagrande di Montecopiolo: lì ero arrivato in auto trasportato dagli organizzatori d'una gara podistica.
Poi avevo proseguito in bici (ottenuta in prestito) per percorrere così i restanti 50 km del percorso di gara.
Notte fonda: ero partito da Villagrande alle 2.00 di notte circa.
Il cielo strinato di lampi minacciosi, un profondo silenzio nelle strade.
Sino a poco prima del mio arrivo sul passo, qualche goccia di pioggia, ma giù prima del 40° km di gara aveva anche grandinato.
Giunto su al passo, ricordando di alcune panchine di legno e di un tavolo da picnic che, opportunamente disposti per la sosta dei viandanti, mi avevano invitato a ristare l'anno precedente (ma allora non c'era tempo per indugiare), ben volentieri mi son fermato a riposare.
La mia idea era quella di attendere le prime luci del giorno e, intanto, fotografare i podisti in transito.
Il buio era totale, spezzato solo dal bagliore giallastro molto lontano di alcuni lampioni.
Le condizioni di luce non erano certo le migliori per fare delle foto, anche perchè non si poteva mettere a fuoco bene.
Quindi, ho rinunciato alle foto - ma senza alcun rammarico - limitandomi ad attendere standomene seduto su una delle panchine di legno, confortevole come non mai.
Una piazzola di sosta, un prato rinsecchito, una panchina: elementi essenziali per scrutare nel mio panorama interiore.
Tanto tempo guadagnato, dunque, per stare con me stesso e con il mondo: in verità, solo un frammento piccolo di esso, eppure incommensurabile come un intero universo.
Unici rumori: lo scalpiccio dei runner in transito, guidati dal vago ondeggiare delle lucine che tenevano sistemate sul capo a mo' di lavoratori delle miniere; voci dialogonti sommesse; a volte il rombo di un motore; strani rumori e trepestii misteriosi dalla macchia d'alberi alle mie spalle; i canti degli uccelli già alacri, benché l'alba fosse ancora lontana.
A tratti, sentivo le palpebre farsi pesanti e scivolavo in brevi sonni accompagnati da un meraviglioso fiorire di sogni. Sogni di cui non ricordavo nulla al risveglio, se non quel senso di meraviglia e appagamento.
Ogni tanto, sveglio e lucido, contemplavo il buio che mi avvolgeva come una coltre; poi, volgendo lo sguardo al cielo, nei momenti in cui il velo di nubi si apriva, m'inebriavo alla vista della moltitudine di stelle che, distanti, mi invitavano al vagabondaggio e al desiderio struggente (di cosa, però, non ero in grado di dirlo).
E' bella la condizione del vagabondo delle stelle: una condizione in cui, pur da sveglio, puoi sentire che quasiasi delle cose che solo accadono nei sogni potrebbe verificarsi.
Non sentivo il desiderio di muovermi, avrei potuto continuare a stare in questo stato tra sonno felice e contemplazione delle stelle amiche per un tempo illimitato.
Guardando in basso, attraverso uno squarcio degli alberi, s'intravedeva la distesa apparentemente infinita di luci pulsanti giù nella pianura: tante luci isolate, a grappoli, in distese, mentre le case, i paesi e le città erano ancora immersi nel più profondo dei sonni.
Io lassù, osservavo e contemplavo.
In quel momento, avrei anche potuto essere l'unico sopravvissuto all'olocausto dell'intera umanità.
Non sentivo la solitudine, solo quella forma di melanconia che hai quando senti la potenzialità del desiderio di qualcosa che non hai ancora raggiunto e che però potresti conquistare.
Poi, ho deciso di mettere fine allo stato sognante e, inforcata la mia bici, ho preso a pedalare per ridiscendere nelle città degli uomini.
Per raggiungere quelle soglie e quei destini che ancora mi attendono.

domenica 20 luglio 2008

Sarà poi vero?



Questo è quello che ci dice l'anonimo writer metropolitano con sicumera.
Sarà poi vero?
E voi, siete d'accordo?
Quelle sbavature di vernice, in contrasto con la netta definizione dei caratteri, fanno tanto pensare a lacrime che gocciolano come quella lacrima che scivola via dall'occhio di un Pierrot triste.
D'altra parte, il blu è il colore della tristezza...
I feel the blues...
Perchè mai il writer avrà scelto proprio questo colore per la sua affermazione perentoria?
E quelle sbavature di vernice nn saranno un artefatto?
Se così fosse, potrebbe trattarsi di un'affermazione che contiene implicita una negazione...
Come è, ad esempio, nel terzo film di Tornatore (Stanno tutti bene, 1990, poco amato dalla critica) in cui Matteo Scuro (Marcello Mastroianni), vedovo e anziano padre di tre figli che, tutti, se ne sono andati lontano, nel suo ininterrotto dialogo con la moglie defunta - dandole notizie sui figli lontani - afferma instancabile (e con un finto ottimismo) "Stanno tutti bene...".
Quando poi non è affatto così, come scoprirà nel corso di un suo viaggio attraverso l'Italia intera a partire dalla periferica Castelvetrano, nel tentativo di recuperare e far rivivere gli affetti familiari e riannodare con i figli i fili di un dialogo interrotto.

giovedì 3 luglio 2008

Il carro magico e i rimedi miracolosi... quelli li propinano anche a noi, a iosa!

Tra la fine del XIX secolo e l'inizio del XIX comparvero per le strade dell'America i cosiddetti "carri magici". Cos'erano? Niente di più che dei baracconi ambulanti, trainati da cavalli o muli, con le fiancate vivacemente dipinte, delle quali una era mobile e ribaltabile in modo tale che potesse fungere da palcoscenico per l'allestimento di spettacoli improvvisati.
Questi "carri" si muovevano da un posto all'altro, preferibilmente nei posti più sperduti della "frontiera", quelli che, ancora confinanti con le "terre selvagge" e mai raggiunti dal vento della modernità, mai ricevevano i quotidiani del giorno (ma solo qualche sparuta notizia attraverso il telegrafo, se c'era), quelli i cui abitanti erano sempre avidi di sapere qualcosa di quell'altro mondo per loro precluso, in fondo curiosi delle innovazioni e bisognosi di cure, ma anche facili ad essere ingannati vista la loro scarsa dimestic
hezza con il mondo delle città dell'Est.
Gli spettacoli improvvisati, quando il carrozzone si fermava erano gestiti dal "patron" che aveva alle sue dipendenze una piccola truppa di inservienti e magari anche uno o due animali esotici da esibire. C'erano, quindi, intrattenimenti, lotte, esercizi e giochi di abilità, tutti condotti però sul filo dell'imbroglio e, in genere, finalizzati a suscitare sorpresa e meraviglia.
In forma embrionaria e minuscola, il Carro magico rappresentava il Circo moderno, come si sviluppò - sempre nell'America del Nord - grazie alle grandi intuizioni del grande Barnum che ebbe l'idea di realizzare una sorta di mostra itinerante delle "meraviglie". Per esempio, sua fu l'idea di esibire i "freak", cioè gli esseri portatori di "mostruosità" (di cui molti veri, pochisimi quelli fasulli) oppure di portare in Europa il Wild West Show con Buffalo Bill ed autentici Pellerosse.

La differenza tra il circo ed il carro magico, oltre che nelle diverse proporzioni, stava nel fatto che nel secondo caso, al termine dell'esibizione delle piccole e modeste meraviglie di cui il patron disponeva (molto spesso truffaldine), il gestore del Carro magico, improvvisandosi "medicine man" iniziava a fare l'imbonitore di rimedi miracolosi contro tutti i mali.
E, se prima aveva meravigliato a sufficienza il suo pubblico con lo spettacolino, magari riusciva a vendere un bel po' di rimedi, tirando su un bel gruzzolo: l'unico problema era che, realizzate le vendite, doveva prendere baracca e burattini e andarsene a gambe levate, perchè i rimedi spacciati per miracolosi, non possedevano alcuna delle qualità tanto decantate.
Si può ricordare qui che il primo "Drug act" promulgato negli Stati Uniti non nacque con intenti proibizionisti, ma proprio per cercare di difendere i consumatori da questi spacciatori di rimedi miracolosi e fasulli, come racconta Noam Chomsky in un suo saggio critico sulle strategie proibizioniste.
Esce proprio in questi giorni in libreria un romanzo davvero insolito dell'eclettico scrittore americano Joe R. Lansdale, Il carro magico (Fanucci Editore, 2008) che, con toni comici e picareschi, arricchiti da ammiccamenti ed ironie, racconta appunto la storia di un carro magico che si muove per le strade sperdute d'America nel 1909 e guidato da un ciarlatano il cui vanto maggiore è quello di essere il discendente diretto del pisolero Wild Bill HickoK

Questa in breve la trama.

Il XX secolo è appena iniziato: nel Texas fanno la loro comparsa i primi venditori ambulanti di rimedi miracolosi, mentre i vecchi cowboy sorvegliano le linee di frontiera e gli sceriffi mantengono l’ordine nelle piccole città, dove l’odio razziale fatica a spegnersi, nonostante la liberazione degli schiavi appartenga al passato. La famiglia del giovanissimo Buster Fogg, voce narrante di questo romanzo, viene spazzata via da un tornado insieme alla sua casa, e il ragazzo si unisce – per caso o per volontà del destino – alla compagnia itinerante di Billy Bob Daniels, inventore di medicine prodigiose e tiratore eccezionale, che si proclama figlio illegittimo del leggendario e pistolero Wild Bill Hickok. Insieme all’ex schiavo Albert e ad Alluce Marcio, una scimmia lottatrice, il gruppo di memorabili personaggi viaggia in lungo e in largo per il Texas, inseguito da una tempesta che incombe su di loro come una maledizione indiana, e trascinando il lettore in una spirale di emozioni continue, esilaranti e a tratti tragicomiche. Il carro magico, un romanzo ancora inedito scritto da Joe R. Lansdale nel 1986 - molto prima di conoscere l'enorme successo che lo attendeva - è un'ironica e nostalgica elegia dedicata al selvaggio West, oggi riscoperta dalla meritevole casa editrice italiana e pubblicata in Italia per la prima volta.

Un buon esempio del venditore di rimedi è rappresentano nel film recente di Tim Burton, "Sweeney Todd, il diabolico barbiere di Fleet Street", con l'ottima interpretazione di Sacha Baron Cohen (da non perdere, tanto per farsi un'idea dei personaggi eccentrici e teatrali che governavano i carri magici) che, nell'occasione, si impegna con Sweeney Todd in una pubblica disfida a colpi di rasoio: chi sarà il migliore barbiere?
Ma ciò che ci interessa qui è parlare della vendita di rimedi miracolosi che il ciarlatano del carro magico riusciva a mettere a segno, facendo leva sulla "meraviglia" indotta negli spettatori che, attraverso questo tipo di sollecitazione, dientavano proclivi a prendere per vera qualsiasi panzana e, magari, anche ad esborsare dei soldi pur di avere una panacea contro tutti gli acciacchi.
Poi, naturalmente, i nodi venivano al pettine.
Ecco cosa racconta Lansdale, nell'incipit del suo romanzo, della compagnia di itinerante di Billy Bob
La sera prima ce l'eravamo sostanzialmente filata di soppiatto dalla Louisiana e avevamo raggiunto il confine con il Texas per via di una medicina che Billy Bob avva venduto ad un tizio con la promessa di fargli passare le emorroidi. Non gli erano passate. Non che qualcuno di noi pensasse che funzionasse davvero. Non era altro che acqua, con dentro un po' di colorante e un po' diwhiky. Be', soprattutto di whisky.
Il venditore di rimedi miracolosi dopo aver ampiamente elogiato la sua "buona" medicina ed averne venduto ai gonzi, che hanno abboccato all'amo della mistificazione, deve sostanzialmente filarsela e mai più fare ritorno in quello steso luogo.
Questa storia mi fa pensare a quella di un venditore ambulante, una sorta di "magliaro" di un paese della Sicilia che assieme ad un gruppetto di compaseani suoi se ne andava in giro da un luogo all'altro della Sicilia vendendo porta a porta lenzuola e set per corredi nuziali.
Mi disse, a mo' di confidenza, che loro praticavano l'usanza del "pacco di fiocco".
"Cos'è' sto' 'pacco di fiocco'? - feci io, alquanto meravigliato.
"Dottore, deve sapere, che quando faceamo vedere la merce, noi sciorinavamo la merce buona, lenzuola delle dimensioni giuste e così via, un esemplare unico per ogni tipo di mercanzia tessile che endevamo. Poi, quando i clienti si convincevano all'acquisto, noi gli rifilavamo il pacco confezionato che tenevamoo già pronto, tutto sigillato, e questo lo chiamavamo appunto 'pacco di fiocco'. Concluso l'affare e consegnato il pacco di fiocco all'cquirente dovevamo andarcene subito. Trattandosi di roba per corredi da sposa, il più delle volte non venivano aperti e rimanevano sigillati per anni. Ma se fossero stati visionati subito..."
"Perchè - ho replicato io, alquanto incuriosito - come era fatto?"
"Era delle dimensioni e della conitenza giusta, ma quando si apriva si vedeva che le lenzuola erano minuscole e che non avevano nemmeno la dimensione giuste per preparare il lettino di un bambino... per dare sostanza al tutto utilizzavamo bambagia o cascami di tessuti vari."
"Ah! Ho capito! Ma poi perchè avete smesso [da anni aveva smesso questa attività?"
"Una volta è accaduto che mentre noi ci eravamo attardati un'altra vendita, i primi acquirenti hanno voluto disfare il 'pacco' e hanno capito come stavano le cose. Sono arrivati infuriati.Volevano legnarci, non gli bastava che gli restituissimo i soldi! E questo fatto ci ha rovinato la piazza.
Troppo rischioso riprendere una simile attività!"
Vi ricordate l'espressione che si usa tuttora (forse, oggi, un po' desueta) "Mi hanno fatto un pacco!" oppure "Mi hanno impaccato", per dire "Mi hanno fregato!". Bene, magari il "pacco di fiocco" ne è proprio all'origine.
Che venda rimedi miracolosi per tutti gli acciacchi o che proponga indumenti o lenzuola per corredi, un venditore itinerante - subito dopo aver messo a segno un affare - è costretto a fuggire il più lontano possibile e a non tornare più in quello stesso posto.
Tutta la sua esistenza finisce con l'essere fondata sull'inganno e sull'arte della fuga.
In entrambi i casi, vige il principio che, prima, l'acquirente potenziale, deve essere stupito e affascinato, in modo tale che il piacere della meraviglia sperimentata gli faccia sentire che si trova davanti ad un fine intrattenitore (e soprattutto che l'imbonitore che ha di fronte parla con la verità). Quando s'è realizzato questo d'animo, egli avrà irremediabilmente abbassato la guardia e sarà pronto ad accettare - come medicina - qualsiasi cosa gli sia stata spacciata come tale, qualsiasi rimedio dichiarato efficace nella cura di malanni di cui è stato indotto a credere di essere portatore: l'arte sopraffina del venditore di rimedi miracolosi può arrivare sino a questo punto!!!
C'è da chiedersi se anche i politici politicanti dell'universo mondo non siano come i medicine man dei carri magici d'una volta e come gli imbonitori del "pacco di fiocco", di livello ovviamente ben più sofisticato.
Ma la risposta ad un simile interrogativo non può che essere lasciata aperta.
In ogni caso, il problema maggiore è che loro, dopo averci venduto i loro "rimedi", prima imbonendoli con suadenti parole, non sono costretti a fuggire lontano ed anzi, hanno il privilegio di poter continuare a somministrarcene
caparbiamente ancora, e di farcene provare di nuovi, quelli che decidono loro, "per il nostro bene", a ritmo continuo.
Certo è che - come nel romanzo di Lansdale in cui una metaforica tempesta si addensa sul cielo di ogni luogo in cui il carro magico si ferma - una sorta di nemesi è sempre sul punto di abbattersi sui venditori di rimedi magici: E, prima o poi, si arriverà ad un redde rationem.
Intanto,
se non si può piangere per questa continua indigestione di rimedi miracolosi e di panacee, cosa ci resta da fare se non ridere come il contadino della canzone di Jannacci di tanto tempo fa (la mitica "Ho visto un re"), dove Il contadino che è stato derubato del cavallo, della mucca e del cavallo per le esigenze del re, del cardinale e degli alti dignitari del regno, motteggia con una finta allegria?
E sempre allegri bisogna stare
che il nostro piangere fa male al re
fa male al ricco e al cardinale
diventan tristi se noi piangiam,
e sempre allegri bisogna stare
che il nostro piangere fa male al re
fa male al ricco e al cardinale
diventan tristi se noi piangiam!
Ve la ricordate?


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