Dopo il patto giurato dai cavalieri fondatori, quindi, la città si originò dalla giustapposizione di tanti villaggi contigui, ciascuno dei quali ebbe la sua chiesa, una sua piazza ed una sua fontana, come ricorrente cifra architettonica.
Da qui, la molteplicità delle chiese, delle piazze e delle fontane aquilane.
Il numero “
La città venne devastata da catastrofi naturali nel corso dei secoli.
La maggiore, il grande sisma avvenuto nel 1703, portò alla quasi completa distruzione della città e alla sua integrale ricostruzione nello stesso sito in un arco di circa di quarant’anni. Se allora ciò fu possibile, con i limitati mezzi tecnologici a quel tempo disponibili, ciò dovrebbe essere a maggior ragione possibile oggi, in un tempo radicalmente più breve.
Ma i progetti di ricostruzione fortemente desiderati (ed auspicati) dagli Aquilani, che – giustamente – vogliono rimanere saldamente ancorati alla loro terra (e alla loro città “storica”), non sono caldeggiati dagli attuali politici, favorevoli invece a soluzioni di tipo “affaristico”. Quindi per il momento – purtroppo e con il giustificato sdegno dei cittadini de L’Aquila che si sentono abbandonati e traditi rispetto alle promesse a suo tempo formulate – tutto tace sul fronte della ricostruzione.
Come concordano tutti quelli che si sono trovati a visitare L’Aquila prima del recente terremoto, si trattava di una città splendida e affascinante, soprattutto “vissuta” pienamente dai suoi abitanti in ogni sua parte.
In un caldo mattino di luglio mi sono ritrovato a vistare il centro de L’Aquila, al limitare della cosiddetta “zona rossa” – quella maggiormente devastata dal sisma e i cui edifici sono interamente destinati alla demolizione (e gli Aquilani si chiedono cosa seguirà alla demolizione? Perché non dovrebbe essere possibile ricostruire gli edifici così com’erano, ripristinando l’aspetto urbanistico originario?).
Nel corso della mia visita è sembrato di aggirarmi in una città fantasma.
Strade semideserte, finestre senza infissi come occhiaie vuote, buchi nei muri sbrecciati, pareti sventrate che mostrano degli interni domestici, ordinari; edifici incastellati dentro impalcature di alluminio, a volte di legno; pilastri di cemento costruiti di fretta per puntellare un angolo prossimo a cedere, putrelle di legno a sostenere la volta dei vicoli.
Cinema sbarrati, all’ingresso ancora le locandine dei film in programmazione al momento del terremoto:per esempio, “Gli amici del bar” con Neri Marcoré oppure “The Millionaire”, Oscar 2009.
Pompe di benzina deserte, semicoperte di macerie, che ancora occhieggiano con i loro display luminosi e le insegne sgargianti con i loghi delle maggiori compagnie petrolifere.
Tutte cose esattamente corrispondenti a ciò che ci si aspetterebbe di vedere in uno scenario post-apocalittico e, invece, qui c’è stato un terremoto e l’umanità non è scomparsa, né è stata decimata: attorno a L’Aquila c’è una nazione piena di risorse e uno stato con il suo apparato amministrativo: nulla giustifica questo stato di abbandono.
Lasciando affondare lo sguardo nella buia profondità dei vicoli, si intravede un mezzo dell'esercito che presidia il cuore della zona rossa oppure qualche sporadico mezzo della Protezione civile, ma quasi nessuno al lavoro per il "risanamento".
Mi dicono che tanti degli edifici ancora in piedi sono stati catalogati "C" e che quindi sono destinati alla demolizione totale.
Davanti alla Casa dello Studente, tutta recintata, molta tristezza e commozione.
La strada dove si erige ciò che rimane della palazzina - come tante altre - è deserta: qui si avventura soltanto qualcuno di fuori che vuole vedere quel che rimane di un edificio che è diventato il simbolo chiave del malgoverno e dell'affarismo che, colposamente, hanno portato alla morte di tutti quegli studenti.
L'edificio è recintato, alla grata che lo delimita dalla sede stradale sono state attaccate pagine scritte, di pensieri e poesie, le foto delle vittime, cartelli di protesta, tutti documenti che trasmettono il lutto, il cordoglio, le emozioni (rabbia compresa), il dolore inconsolabile.
Da un grande cartello sotto le tante foto (e fiori) parlano gli studenti morti (uccisi). “Ci avete tolto il futuro. Non toglieteci con il processo breve anche la giustizia”
La città, anche procedendo verso il centro storico e sino al cuore della città, dov’è ubicata l’elegante piazza del duomo, sembra svuotata, anemica, esangue, eppure le vie e le piazze hanno un aspetto maestoso e rivelano di essere state vissute sino a pochi momenti prima del sisma.
E molti continuano a stare abbarbicati qui, pochi caparbi rappresentanti d’una popolazione prima rigogliosa e contenta di esserci.
Non vogliono arrendersi all'insensibilità e al disinteresse del governo, che sarebbe pronto ad investire per la costruzione di una nuova città o di tante città “residenziali” satellite” (perchè tanti ci guadagnerebbero - o ci mangerebbero), mentre è scarsamente interessato alla ricostruzione perchè i margini di guadagno sarebbero irrisori e tante invece le spese (dare lavoro alla popolazione locale nella ricostruzione è pure considerato uno spreco, evidentemente).
Dovunque fiori appesi ai reticolati, alle delimitazioni, alcuni di plastica, altri veri, ricordano i luoghi in cui tante delle vittime sono state trovate e servono a tenere viva la dolente rievocazione di chi non è più. Nelle vie secondarie, alle quali l’accesso è sbarrato da reticolati, saracinesche serrate, piante in vaso che si sono rinsecchite per mancanze di cure: ed anche questo piccolo segno di incuria attanaglia il cuore di tristezza.
Tanti, troppi, i cartelli e le "lenzuola" di protesta appese qua e là: la gente è delusa, adirata, incazzata.
Non tollera di vedere la sua bella città, così abbandonata: e ciascuno, nel suo piccolo, standovi abbarbicato, con la tenacia della patella che si avvince alla sua roccia, cercano di mantenerla in vita.
Questa è una piccola antologia di tutti i cartelli, graffiti, lenzuoli di protesta che ho fotografato nel corso della mia visita.
“Se l’umanità dovrà crepare non sarà per un terremoto ma per un post-terremoto!”
“2010. Riprendiamoci la città!”
“Cancellata dall’elenco ‘Assegnazione alloggi’ perché pubblicate su ‘Il Centro’ mie dichiarazioni non gradite alla ‘Protezione Civile’. Il reato è: ABUSO D’UFFICIO”.
“Dopo il 1703 L’Aquila è stata ricostruita in circa 40 anni con tutti i mezzi e le tecnologie [allora disponibili]. Nel 2010 dovremmo impiegare max 10 anni. A guardare e a percorrere le vie de L’Aquila, oggi si può solo pensare che ci vorranno millenni. Che miracolo!”
“Perché non c’è trasparenza e partecipazione?”
“Il cielo stellato sopra di me. La legge morale dentro di me”.
“Missing Franca Zona…”
“L’Aquila è nostra”
“Ridiamo acqua alla fontana delle 99 cannelle!”
“1000 chiavi per riaprire la città”, dice il cartello attaccato ad un graticolato che delimita una facciata pericolante su cui sono state attaccate centinaia di chiavi diverse.
“Difendiamo i nostri 800 anni di storia! E’ un nostro diritto. Sono nostre anche le macerie!”
L'Aquila è una bellissima città e non deve morire!!!
Aiutiamo L’Aquila!
Aiutiamo L’Aquila a risorgere!
Una nota wikipediana sulle origini de L’Aquila
Il territorio dove sorge L'Aquila fu abitato fin nei tempi più antichi. Prima della conquista da parte di Roma, tutta la valle dell'Aterno fu luogo di insediamento per i Sabini e per i Vestini, i cui territori confinavano proprio nel punto dove in futuro sarebbe sorta la città.
Dopo la conquista dei Romani, avvenuta nel III secolo a.C., nella località che corrisponde all'odierna San Vittorino, pochi chilometri ad ovest dell'Aquila, venne fondata la città di Amiternum, di cui, ancora oggi, possiamo ammirare i resti: un teatro e un anfiteatro che testimoniano l'importanza assunta nel tempo dalla città.
Qui nacque uno dei maggiori storici romani, Sallustio, di cui oggi è presente una statua in Piazza Palazzo; fu sede di diocesi insieme alle vicine città di Forcona e Pitinum. In seguito, sopravvissuta alla caduta dell'Impero Romano d'Occidente, Amiternum visse un periodo di grande decadenza, fino a scomparire completamente nel X secolo.
Nel frattempo, il territorio aquilano era stato inglobato nel longobardo Ducato di Spoleto e venne per la prima volta scisso dall'Abruzzo meridionale che era, invece, sotto il controllo del Ducato di Benevento, con numerose ripercussioni sull'economia della zona. Una delle attività economiche principali delle terre che costituiranno la futura città era, infatti, l'allevamento ovino, che comportava la transumanza, cioè l'annuale spostamento delle greggi, che venivano portate a svernare nel Tavoliere delle Puglie.
Con la divisione dell'Abruzzo la transumanza diventò una pratica certamente meno agevole, provocando la decadenza economica del territorio.
La rinascita economica del territorio avverrà solo dopo l'anno mille con l'arrivo dei Normanni.
Si assiste ad una ritrovata stabilità, grazie anche alla riunificazione di tutto l'Abruzzo (conquistato da re Ruggero II tra il 1139 e il 1153).
Durante il periodo normanno si assiste al fenomeno dell'incastellamento, di cui sono esempio e testimonianza, ancora oggi visibili, il castello di San Pio delle Camere e il castello di Ocre; quest'ultimo occupava una posizione strategica nella vallata dell'Aterno ed era proprietà dei conti dei Marsi. Un altro importante fattore di sviluppo economico fu la diffusione delle abbazie cistercensi, tra cui quella di Santo Spirito d'Ocre.
Questo lo sfondo storico, mentre così venne fondata la città.
Nel 1229 gli abitanti dei castelli del territorio decidono di ribellarsi alle vessazioni dei baroni feudali. Rivoltisi a papa Gregorio IX, ottengono, l'anno successivo, il permesso di Federico II per la costruzione di una nuova città.
Di questo permesso è rimasta testimonianza nel Diploma di Federico II, un documento conservato in duplice copia negli archivi cittadini, in cui si esortano i castelli degli antichi contadi di Amiternum e Forcona a unirsi per formare un unico centro.
Le vicende della fondazione dell'Aquila sono raccontate da Buccio di Ranallo da Poppleto (autore di una "Cronica" rimata che narra la storia della città dal 1254 fino al 1362, l'anno precedente la sua stessa morte) e Anton Ludovico Antinori, uno storico che descrisse dettagliatamente gli eventi, accludendovi riferimenti documentari.
Controverse sono le notizie riguardanti il numero dei castelli che contribuirono alla fondazione della città: la tradizione vuole che siano stati novantanove, ma è più probabile che il numero effettivo si aggirasse intorno alla sessantina. A ricordo della fondazione, la campana della Torre Civica (la Reatinella) batte ancora oggi 99 rintocchi ed il primo grande monumento della città, la fontana delle 99 cannelle, sembra contribuire all'alimentazione di questa leggenda.
La città venne chiamata Aquila dal toponimo del luogo in cui fu fondata (Accula) e perché il nome richiamava l'insegna degli Hohenstaufen (un'aquila, appunto). Successivamente divenne Aquila degli Abruzzi e infine, nel 1939, per decreto del Ministero dell'Interno, prese il nome odierno di L'Aquila.
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