sabato 5 giugno 2010

Una gita al mare: il ricordo di due estati fa, ancora fresco come se fosse di ieri





Ho scritto queste note, due estati fa (all'inizio dell'estate 2008, dunque): mi ripromettevo di postarle nel mio blog, allora appena nato, ma sovrastasto da un insolito bisogno perfezionistico, indugiai per apportare al testo ulteriori correzioni. Poi, come sempre accade per le cose troppo a lungo custodite, me ne dimenticai, sino a pochi giorni fa, quando curiosando in una vecchia cartella di file "antichi", lo ho ritrovato. Mi è sembrato ad una rilettura, buono, e ho deciso di postarlo, pensando che "...non è mai troppo tardi"... Mi pare che, complesso, il racconto sia ancora fresco: potrei averlo scritto appena ieri. Per questo motivo, ho cercato di lasciare tutti i verbi al presente, proprio per sottolineare che si tratta di un passato ancora vivo nella memoria, come fosse appena accaduto... Il luogo è Eraclea Minoa. Tanti anni prima ci ero andato in gita con i miei amici (e ciò accadeva al tempo del mio servizio militare); poi, a distanza di circa dieci anni, ci sono tornato per un periodo di vacanza estivo con la tenda e la canoa. Poi basta più. Il ritorno avviene dunque con uno scarto temporale di quasi trent'anni...
Sono tornato su questa spiaggia dopo anni di assenza, in un giorno ventoso di prima estate.
Ero un po’ trepidante, durante il viaggio, al pensiero che la realtà che mi si sarebbe presentata davanti agli occhi non sarebbe stata in alcun modo pari al ricordo idealizzato che conservavo dentro di me.
Fin dal primo sguardo, appena sceso dall’auto, mi sono reso conto che, in fondo, ben poco era cambiato.

Davanti al piccolo piazzale ombreggiato da pini marittimi, si apriva una distesa d’acqua, tutta striata di spuma bianca, percorsa da onde tumultuose che, di continuo, si frangevano a riva.
In lontananza, alla mia destra, si erge Capo Bianco con le sue falesie abbacinanti.
Soffia da Sud un forte vento teso, quasi continuo, come spesso accade in questa contrada e nel Canale di Sicilia.
Sono impaziente di andare oltre Capo Bianco e, subito, con il mio zainetto sulle spalle mi incammino in quella direzione, volgendo le spalle al padiglione su palafitte a pochi metri dalla battigia che funge da bar-ristorante, con una bella veranda ombreggiata cui si accede dalla sabbia con una scaletta sbilenca molto suggestiva: viene da penare con prepotenza al racconto di Stevenson, “Il padiglione sulle dune” che mi ha sempre affascinato tanto, come tutti i racconti stevensoniani con ambientazioni marittime...
La baia è davvero immensa: non ricordavo che tutto fosse in una scala così maestosa.

Il vento che mi percuote con le sue raffiche, m’impedisce un camminare fluido. La sabbia sottile come polvere abrasiva mi colpisce le gambe nude, a gragnola.
Vado avanti: nella pineta, che scorre come un grande scenario sulla mia destra ,si nascondono in ordine sparso tende e roulotte dei primi campeggiatori della stagione.
Mentre mi avvicino al Capo, la striscia di sabbia si fa più stretta; a tratti bisogna camminare con i piedi immersi nella risacca che fa un continuo andirivieni spumeggiante. In alcuni punti la parete di friabile calcare è crollata a larghe falde e devo impegnarmi a superare mucchi di detriti su cui sono impigliati rami e frasche trasportati dalle mareggiate, a volte aggirandoli, a volte inerpicandomici sopra. Finalmente, sono alla Punta, ma il transito a guado che, in condizioni normali, sarebbe facile come un gioco da ragazzi, è adesso impossibile per via della forte risacca. Guardo, scruto osservo, cercando di capire se arrampicandomi un po’ più in alto potrò trovare un arco più agevole.
La roccia mi pare infida e scivolosa ed io, quanto ad arrampicarmi non sono certo una cima. Ci provo, comunque, ma dopo pochi passi di salita rinuncio: non è cosa per me…

Scornato, ritorno indietro sino al punto di partenza.
Il vento continua ad urlarmi nelle orecchie: l’urlo del vento ed il rombo delle onde rendono la mia testa leggera e frizzante.
Il ritorno non previsto è però una bella occasione per sedersi nella fresca veranda del padiglione sulla sabbia e dissetarmi con una birra generosa.
Poi, dopo essermi ristorato, riprendo il mio cammino. Il gestore del piccolo bar mi ha spiegato che, per scendere sull’altro versante di Capo Bianco, devo salire sino al sito archeologico e poi seguire il sentiero. Così faccio: il colpo d’occhio che si apre sull’intera baia è davvero meraviglioso, le onde, la spuma bianca, la spiaggia percorsa da file di impronte e da esili figurette che nella distanza non sembrano più grandi di una formica. Il cielo è d’un intenso azzurro che pure – per motivi diversi dal vento furiosi – lascia storditi ed ansimanti.
Forse, perché appare così immenso e sconfinato.



L’unico ancoraggio dello sguardo sono le pietre degli scavi corrose dagli elementi e tendenti a sfarinarsi in un lieve polvere sottile come borotalco, l’erba secca ed ingiallita che oscilla nel vento e qualche piede d’ulivo contorto.

Penso all’antico popolo che decise di insediarsi in questa terra inospitale, letteralmente posta tra il cielo ed il mare, e la cui terraferma era costituita da questo calcare bianchissimo e friabile, che costantemente viene corroso dal vento e dalle intemperie e trasformato in finissima polvere bianco-giallastra: gli antichi abitanti sicuramente erano ben consapevoli di dover vivere assorti nella contemplazione della presenza luminosa del dio di questo luogo. La pietra calcarea è di pasta morbida e si deteriora facilmente: il teatro antico che domina il sito archeologico deve essere protetto con apposite tettoie e teli dagli agenti atmosferici e, ciò nonostante lo spigolo degli ampi gradoni dove un tempo prendevano posto gli spettatori è del tutto scomparso.
La presenza di queste strutture e dei drappi scuri che battono sotto le raffiche di vento come vele rendono il luogo ancora più surreale.

Lasciando alle mie spalle il sito archeologico, mi ritrovo su di un’ampia strada bianca, che percorre il bordo della falesia: cammino, lasciandomi alle spalle l’ampia spiaggia di Eraclea, avendo davanti a me la costa che si distende in direzione di Sciacca e Caltabellotta, avvolta in un’azzurrina indeterminatezza.
Lo sguardo non può penetrare molto in profondità: l’aria è ispessita dal fine pulviscolo sollevato dal vento e dalla salsedine. La vista tuttavia, anche in assenza d’una grande profondità, è bellissima, unica ed emozionante.
Non un anima viva in giro. Mi sono sentito come un novello Robinson, alla fine del mondo.

 
Finalmente, dopo qualche tentativo a vuoto, trovo la via per la discesa, imboccando uno stretto sentiero che dà accesso alla parete di calcare che si ammorbidisce in ampi gradoni tondeggianti lungo i quali si può scendere agevolmente. Ed è fatta: emozionato, mi ritrovo sul lembo di spiaggia che si distende tra Capo Bianco e la foce del fiume Platani, proprio nel punto che desideravo conquistare: la mia gita fuori porta era per l’appunto finalizzata al raggiungimento di questo obiettivo…
Il luogo dà veramente la sensazione dell’immensità, ma anche della solitudine e del totale distacco da tutti.
E’ proprio come essere su di un’isola deserta. Sensazioni forti ed indimenticabile che mi fanno provare il desiderio di una comunione mitica con il luogo, spingendomi al liberarmi di ogni “orpello” tessile secondo un’espressione cara alla filosofia naturista. Me ne sto così per un po’ in un’immersione totale con il mondo che mi circonda.
Tutto assume più lucentezza.
Esploro per un po’: ai piedi della parete di roccia che con i suoi gradoni mi ha consentito di scendere c’è una grande cavità ombreggiata, dal pavimento liscio ed insolitamente pulito. Un buon riparo dal sole – penso tra me e me – un riparo di cui tenere conto...
Il vento qui è molto più forte. I granelli di sabbia sparati come minuti proiettili fanno veramente male dove colpiscono. Stare distesi sulla sabbia diventa una sofferenza e dopo un po’ si finerebbe con l’essere sommersi sotto una coltre impalpabile. Anocra oggi, trovo nelle pieghe dello zainetto che avevo portato con me sottili granelli di sabbia che spuntano inaspettati, come i coriandoli di un carnevale di molti anni prima.


Due figurette in nero camminano lungo la spiaggia battuta dal vento: da dove vengono?
Non si capisce bene.
Sembrano procedere in lotta con il vento e fanno improvvisi movimenti laterali come se la forza delle raffiche li spostasse di peso di lato.

Certamente, arrivano da lontano, poiché - prima che potessi distinguerle come persone - mi erano apparse come semplici puntini neri. Del resto, il riverbero strano e surreale della luce a causa del sottilissimo pulviscolo di salsedine e sabbia fine che riempie l'aria rendono la percezione estremamente confuso. Intanto che sto ad osservare il progredire della marcia dei due nerovestiti ai piedi della falesia bianca, assolata, ricevo stoicamente le folate di vento che lanciano addosso sottili granuli di sabbia con effetto abrasivo sulla mia pelle.Si avvicinano i due e, nell'immensità dello spazio disponibile, vengono a mettersi proprio a poca distanza da me, massimo a venti passi.
La mia irritazione sale alle stelle...
Sono due tipi, uno più grassoccio, l'altro magrolino.
Entrambi vestiti di nero.
Subito distendono le loro cose: impresa ardua perchè il vento dissesta subito qualsiasi cosa e la ricopre rapidamente di sabbia. Si spogliano, denudandosi del tutto. nulla di strano! Siamo, del resto, nel tratto di spiaggia naturista.
Poi, compiono rapide e ripetute perlustrazioni nella mia direzione.
Guardano, osservano, mi ronzano attorno, prima uno e poi l'altro.
Senza nessun pregiudizio: si capisce al volo che sono una coppia gay.
Già, avevo letto da qualche parte, che questo tratto di spiaggia tra Capo Bianco e la foce del Platani, oltre ad essere un sito prediletto dai naturisti, è anche frequentato dai gay.
Nulla di che.
C'è posto per tutti.
Dopo un po' non resisto più, ho dormicchiato, sono tutto impastato di sabbia e pronto per la frittura, come una triglia impanata.
La sabbia sottile, con l'olio solare di cui mi ero asperso, mi si è incollata al corpo, penetrandomi anche dentro le orecchie, nel naso, negli occhi.
Appena mi alzo per raccattare le mie cose, uno dei due - quello più grassottello - mi si avvicina: quasi dispiaciuto che io stia andando via.
E, per un po', parliamo.

Da dove vieni?
Sei un turista?

No.

Da dove vieni?
(iterazione di fronte alla mia reticenza)

Da qua (generico, con un cenno della testa).

E voi da dove venite?
Siamo di qui
(con un gesto altrettanto generico della testa dalla direzione da cui lui e il suo amico sono arrivati arrancando).

Ah, allora non sei un turista!

(E se lo fossi stato, cosa cambiava?)

Non è proprio giornata oggi!
Già!
Infatti, me ne sto andando.
Non c'è quasi nessuno oggi.

Certo, con questa giornata e con questo vento!
Però, domenica qui c'era un sacco di bella gente.

Sì, lo so.

Proprio, un sacco di gente, bella gente.
Sì, lo so! C'era un raduno nazionale promosso da un'Associazione naturista.

No, io dicevo per la domenica che c'era un sacco di bella gente.
Era un raduno di tre giorni e c'era anche un convegno sul naturismo e sull'ambiente.
Ah! Di questo non sapevo nulla.
Era finalizzato a presentare la filosofia naturista ma anche a portare avanti la battaglia per ottenere che questo tratto di spiaggia venga riconosciuto “ufficialmente” come spiaggia riservata ai naturisti. Ciao, allora
Ciao!

Mi gira le spalle e se ne torna dal suo amico che era rimasto in attesa.
Io mi rivesto e riprendo la scalata del Capo per tornare indietro.

Anche i due si rivestono e si incamminano per fare ritorno al luogo da dove erano venuti.
In pochi minuti la spiaggia torna ad essere vuota e solitaria, solo percorsa dal quel fruscio del vento che sembra eterno.

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