venerdì 31 dicembre 2010

"Le avventure di Sammy": un film di animazione che parla della nostra cattiva coscienza ecologica


"Le avventure di Sammy" (di Ben Stassen, Belgio, 2010) è un film d'animazione che, senza possedere i fasti di un film della Disney-Pixar, si vede piacevolmente, essendo destinato - per le sue connotazioni fortemente didattico-didascaliche - ad un pubblico di piccini che possono apprendere attraverso una storia animata sia elementi preziosi sulla biologia e sulle fasi di vita delle tartarughe sia sulle azioni nefaste dell'uomo contro l'ecosistema.
Infatti, non è soltanto una semplice storia d'animazione per grandi e piccini, ma una storia costruita in modo tale che i bambini possano apprendere, da un lato, la bellezza e il mistero del mare e, dall'altro, i misteri della meravigliosa vita delle tartarughe marine, regolata da ritmi ancestrali e da potenti istinti migratori che le spingono, quando giungono all'età riproduttiva, a compiere lunghi viaggi, a volte di migliaia di chilometri per giungere alle spiaggie di cova, presumibilmente le stesse in cui sono nate.
Oggi le tartarughe marine sono insidiate, oltre che dai predatori naturali (soprattutto dal momento della schiusa delle uova alla prima immersione in mare dei neonati), da molteplici cause dovute all'insensibilità e alla disattenzione dell'Uomo nei confronti della salute del Pianeta: le navi ad elica che solcano i mari, la pesca indiscrimanata in alto mare, l'inquinamento da petrolio e da altre sostanze chimiche, i sacchetti di plastica e altri rifiuti gettati direttamente dalle navi in mare, sono tra le cause principali di nocumento alle tartarughe nel corso dei loro spostamenti.
Il film mostra tutto questo: gli anni trascorrono e Sammy, assieme ai suoi piccoli amici (la tartarughina Shelly, il compagno di "crescita" Ray), cresce (lentamente) e il suo corpo va facendosi sempre più grosso man mano che si avvicinano lamaturità sessuale e il tempo della riproduzione.
Cambiano anche i pericoli e le difficoltà con cui le tartarughe si confrontano nelle diverse fasi della loro vita e con il trascorrere del tempo.
Passano, tra una cosa e l'altra cinquantanni (le tartarughe sono creature longeve), e cambiano anche tante cose: se sono aumentati i pericoli, è cresciuta anche la coscienza ecologica degli Umani che mettono in atto una serie di sistemi per rimediare ai danni. Si passa così dai primi maldestri tentativi maldestri di "figli dei fiori" a quelli più organizzati e sistematici delle associazioni naturaliste nelle quali sono confluiti come dirigenti gli hippie di un tempo, anche se tanti altri pericoli difficilmente possono essere neutralizzati con interventi efficaci e mantengono intatta tutta la loro viruelenza: per eliminarli del tutto, occorrerebbe modificare radicalmente troppe cose e muovere i primi passi verso un altro mondo possibile e più sostenibile, contro il quale tuttavia le leve dell'Economia sono inamovibili.
Preoccupazione del regista è quella di essere "didattico" pur divertendo un pubblico essenzialmente di piccini.
Per questo motivo non ci sono trovate mirabolanti nella pellicola, nè vi è il tentativo di costruire il film come "storia di formazione", com'è nel caso di "Alla ricerca di Nemo della Pixar" della Disney.
E' uno di quei film che potrebbero essere proiettati efficacemente nelle scuole elementari per fare didattica con i più piccini, diveetendoli ed intrattendoli al tempo stesso, sia sul ciclo di vita delle tartarughe marine sia sui danni che l'Uomo ha prodotto e continua a produrre al loro ecosistema.
Di tanto in tanto è bello vedere arrivare sul grande schermo un film di animazione, prodotto altrove rispetto al regime di monopolio della Walt Disney-Pixar, più ruspante indubbiamente e meno "leccato" quanto ad effetti digitali, ma ciò nondimeno forte e robusto, espressione di una cine-diversità che, per la vitalità del cinema, va preservata in ogni modo, così come - per la salvaguardia del nostro Pianeta - occorre lottare in ogni modo per preservare la bio-diversità delle specie viventi e degli ecosistemi.

Scheda film
Un film di Ben Stassen. Voci: Melanie Griffith, Isabelle Fuhrman, Yuri Lowenthal, Anthony Anderson, Sydney Hope Banner, Ed Begley jr, Darren Capozzi, Pat Carroll, Chris Andrew Ciulla, Tim Curry, Tim Dadabo, Kathy Griffin, Denis Kacenga, Stacy Keach, Grant Klemann, Kierstin Koppel, Jenny McCarthy, Carlos McCullers II, Gigi Perreau, Geoff Searle, Heather Trzyna, Billy Unger, Eric Unger
Titolo originale Sammy's avonturen: De geheime doorgang. Animazione, Ratings: Kids, durata 89 min. - Belgio, 2010. - Eagle Pictures. Uscita mercoledì 22 dicembre 2010.

Il TRAILER

Le tartarughe marine (una nota wikipediana)

Le tartarughe marine (Chelonioidea) sono una superfamiglia di tartarughe che, appartenenti ai Rettili, nel corso della loro evoluzione si sono adattate alla vita in mare, grazie alla forma allungata del corpo, ricoperto da un robusto guscio o carapace, ed alla presenza di “zampe” trasformate in pinne.
Sono tra le più antiche creature della Terra.
Durante la stagione riproduttiva le femmine di tartaruga marina compiono delle lunghe migrazioni dalle aree di alimentazione, dove solitamente vivono, verso spiagge isolate, distanti anche migliaia di chilometri, le stesse dove probabilmente sono nate: e oggi si sa molto di più delle migrazioni che compiono grazie all'applicazione su alcuni individui di marcatori che, inviando un segnale radio, consentono di seguire nel corso del tempo i loro spostamenti.
L'accoppiamento può avvenire durante le migrazioni, o in aree vicine ai luoghi di deposizione, ma si ipotizza che le femmine possano utilizzare il seme del maschio per fecondare le uova anche dopo qualche anno. Nell'ambito della stagione riproduttiva, che varia a seconda della specie e della latitudine , le femmine possono compiere da 3 a 6 deposizioni, dopodichè intraprendono le migrazioni di ritorno verso i loro quartieri di residenza abituali per poi tornare sulla stessa spiaggia di deposizione al seguente ciclo riproduttivo.
Giunte a destinazione, le femmine emergono dal mare per lasciare le uova in nidi che scavano nella sabbia in un processo lungo e faticoso. Terminata la deposizione tornano in mare lasciando al calore della sabbia il compito di portare a termine l'incubazione. I piccoli appena usciti dalle uova si dirigono faticosamente verso il mare, guidati presumibilmente da contrasti di luce ed ombra sulla superficie del mare. La loro crescita è lenta e sono necessari molti anni perchè gli individui maturino giungendo alla capacità riproduttiva. Le prime fasi di vita sono quellle in cui i giovani individui sono maggiormente vulnerabili, insidiati da uccelli e pesci migratori.
Le tartarughe marine, oggi, devono confrontarsi per sopravvivvere non solo con i predatori naturali che ci sono stati sempre ma anche con le insidie generate dall'Uomo e dalla sua disattenzione neio confronti della salute del pianeta: navi che solcano i mari, pesca indiscrimanata in alto mare, inquinamento da petrolio, sacchetti di plastica sono tra le cause principali di nocumento alle tartarughe nel corso dei loro spostamenti.
Sono 7 le specie che popolano i mari di tutto il mondo:
  • Tartaruga verde (Chelonia mydas)
  • Tartaruga liuto (Dermochelys coriacea)
  • Tartaruga embricata (Eretmochelys imbricata)
  • Tartaruga bastarda (Lepidochelys kempii)
  • Tartaruga olivacea – Lepidochelys olivacea
  • Tartaruga piatta (Natator depressus)

Tartaruga comune (Caretta caretta)
Con una lunghezza massima di circa 140 cm di carapace è una delle tre specie di tartarughe marine che vivono in Mediterraneo. Il carapace presenta una colorazione marrone –rossiccia con 5 placche neurali, 5 paia di placche costali e 12 paia di placche marginali. Il piastrone ha una colorazione tendente al giallo. La sua alimentazione è costituita prevalentemente da crostacei e molluschi ma anche da organismi planctonici come ad esempio alcune specie di meduse. In alcuni contenuti stomacali sono stati ritrovati esemplari di cavallucci marini e pesci ago ( generi Hippocampus e Syngnathus ).
Il periodo della deposizione varia dai primi di maggio fino alla fine di agosto. Un nido è composto da un numero variabile di uova (fino ad un massimo registrato di 190).In Mediterraneo i maggiori siti di deposizione sono in Grecia, Turchia, Libia , Tunisia ed Italia. Questa specie è l’unica che regolarmente depone le uova in alcuni siti lungo le coste italiane ( es. Isole Pelagie).
ll WWF -Italia è impegnato nella salvaguardia e nella ricerca applicata alla conservazione delle Tartarughe marine dagli anni ottanta, quando fu avviato, in collaborazione con l’Università ‘La Sapienza’ di Roma, il primo programma nazionale su queste specie. Questa prima attività ha consentito lo sviluppo di molteplici attività a livello locale, con la promozione da semplici azioni di monitoraggio a complessi interventi e progetti di assistenza diretta su esemplari in difficoltà o recuperati dai pescatori.
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martedì 28 dicembre 2010

In "Il 36° Giusto" ritornano gli ammazzavampiri modenesi di Claudio Vergnani


Claudio Vergnani continua a stupirci.
Con "Il 36° Giusto", di recente edito da Gargoyle (2010), ritornano gli ammazzavampiri modenesi con una nuova serie di avventure che si riallacciano immediatamente a quelle narrate in "Il 18° vampiro", anche se i due romanzi si possono leggere autonomamente con piena godibilità della trama.
La struttura del romanzo è semplice. Dopo l’attacco alla roccaforte vampiresca di Corsano, dopo il "caos vampirico" e la susseguente "mattanza" che concludono con uno scenario da apocalisse la storia precedente, i nostri anti-eroi sono momentaneamente "disoccupati" e sull'orlo del tracollo esistenziale, disgustati da ciò che hanno fatto e visto e, nello stesso tempo, psicologicamente svuotati, nel pieno di una sorta di spleen postraumatico.
Uno di loro, Gabriele, si ricicla come romanziere (e che sia la cifra dello stesso autore?), traducendo in romanzo le avventure di cui è stato protagonista.
Rossana, l'"amica", generosa finanziatrice delle imprese precedenti, ha deciso di tirarsi fuori da una partita sostanzialmente perdente per entrare in un ritmo di vita più normale e “borghese”.
Rimangono Vergy, roboante, spassoso e patetico assieme, e Claudio (il narratore, che qui per la prima volta esce dall'anonimato), a muoversi tra il senso di svuotamento, la depressione da mancanza di motivazioni e le nebbie di alcool e tranquillanti.
Poiché ci sono sempre vampiri-zombie da fare fuori e molti luoghi infestati da bonificare, per fortuite circostante, i due - dovendo sbarcare il lunario - riescono a rimettersi in pista al servizio di un ammazzavampiri di seconda generazione rampante, arrivista e atteggiato, tal Paride, che li prende al suo servizio per i lavori “sporchi”, che Vergy e Claudio svolgeranno sempre nel loro modo scassato e, in definitiva, da antieroi che, occasionalmente, si perdono - soprattutto il narratore Claudio, in pensose divagazione di stampo esistenzialista, in cui mostrano la loro natura di individui smarriti che cercano di dare un senso ad una vita latrimenti vuota.
"Non era generosità la nostra. Né altruismo. Cercavamo semplicemente di dare un senso a ciò che facevamo. Non che il senso in sé potesse bastare a giustificare tutta quella merda, ma non avevamo altro" (p. 296)
Le loro imprese (tra cui la lenta e perigliosa traversata d'un cimitero fatiscente, il sopraluogo al vecchio motel infestato, la sorveglianza prestata - a tipo di sgangheratissimo servizio body-guard - come contractor d'una ricca famiglia modenese che si reca in villa montana a trascorrere le feste di Natale, sino alla trasferta parigina, assoldati per libero un fatiscente e labirintico edificio - che tanto rievoca le atmosfere de "I misteri di Parigi" di Sue - per eliminare un vampiro solitario denominato "Il becchino") sono a dire il vero dei poemi grotteschi e tragicomici che servono all’autore per rappresentare lo sfascio delle metropoli, lo stato di abbandono di periferie urbane sempre più degradate, crepuscolari e decadenti, che tanto rimandano alle "Carceri" di Piranesi, dimostrando nell'autore una grande capacità evocativo-visionaria.


I vampiri-zombie, morti viventi che, pur corrotti e quasi cadenti a pezzi, continuano a rimanere attaccati ad una loro non-vita sono forse una metafora dell'inconcludenza che fa da pendant all'inettitudine esistenziale degli ammazzavampiri: entrambi condannati ad un ruolo di marginalità sociale e alla condizione di reietti della società produttiva.
Le avventure dei nostri eroi sono intercalate a periodi di riposo e di stanca, autentici momenti di “ozi di Capua”, in cui a farla da padroni sono ottenebramento alcoolico, mancanza cronica di donne e sesso, di soldi, di conforto domestico.
Le eroiche imprese servono ai due a ravvivarsi (ed è per questo che la ricerca di vampiri da quattro soldi da fuori diventa per loro un'urgenza, quasi una dipendenza non farmacologica), con il supporto di occasionali compagni di gesta: Alicia (l’avvenente segretaria di Paride), il nano ivoriano Matthew (che ricava di che vivere come macabro fotografo cimiteriale), la compiacente Elisabetta (che li riconduce al vigore di una sessualità sanguigna e promiscua), Gabriele (ex-compagno di "caccia" e neo-scrittore, che si aggrega a loro per un nuova impresa, avendo bisogno - dopo il suo primo exploit letterario - di materiale di prima mano per un nuovo romanzo).
L’essere eroi (o antieroi) per Vergy e Claudio (il narratore) è soltanto il prodotto secondario della loro tracotanza ed inconcludenza, al tempo stesso.
Alla fine, i due - malgrado tutto - riescono ad uscire indenni dalle loro imprese, sempre in condizioni pietose, ricoperti di sangue, brandelli di tessuti umani, deiezioni, vomito, fango putrido, e chi più ne ha più ne metta: disillusi, soprattutto. Perchè - uscendo sani e salvi per il rotto della cuffia da ogni impresa intrapresa - la loro vita non ha acquistato un briciolo di senso in più e, forse, è ancora più vuota di prima, perchè gli affetti "normali" e le possibilità evolutive di incontri se li lasciano alle loro spalle, bruciati dall'urgenza di sopprimere il vampiro di turno.
In un bilancio finale, tuttavia, nelle loro imprese non c’è un senso anche perché il loro uscirne per il rotto della cuffia, non cambia d'un millimetro le sorti del mondo e le sue derive inarrestabili: le loro vittorie sono del tutto ininfluenti nel modificare alcuni equilibri.
In un mondo così, fatto di rovine, di rifiuti, di cimiteri degradati, di periferie urbane disabitate e cadenti, non sorprende affatto trovare una residua popolazione di vampiri che agiscono dall’interno di corpi corrotti.
I veri vampiri – i cosiddetti “Maestri” – se ne stanno in disparte e le loro attività vanno avanti, malgrado e a dispetto degli ammazzavampiri che, per un paradosso di cui è piena la vita, vengono considerati proprio dai maestri come alleati nel tenere sotto controllo i vampiri-zombie che, imbarazzanti ed invadenti, rappresentano soltanto un sottoprodotto scomodo della loro attività che rimane il più delle volte occulta e poco evidente.
E' lecito chiedersi se nei romanzi di Vergnani non ci sia – nella contrapposizione tra “Maestri” e vampiri-zombie – una rappresentazione metaforica, appena velata, dell'agonismo/antagonismo tra capitalisti rampanti e onnipresenti e neo-proletari ridotti dai primi ad essere degli zombie, condannati a vivere una mezza vita (non caso il film-documentario di Sabina Guzzanti, sui fatti e misfatti successivi al terremoto aquilano è, evocativamente intitolato - con un abile neologismo - "Draquila", ovvero Dracula+Aquila).
Non è che, dunque, gli ammazzavampiri, esclusivamente polarizzandosi sui secondi, non stiano prendendo – in realtà – un granchio colossale, in quanto operano per il rafforzamento dei poteri occulti che governano la società?
Credo che in questa seconda opera narrativa di Vergnani, in maniera ancora più chiara rispetto a "Il 18° vampiro”, sia contenuta una grande metafora della società contemporanea.
Il linguaggio dei due amici, durante il compimento delle loro imprese, è istrionesco e picaresco, infarcito di frasi da caserma, puntualmente scandito da peti e scorregge. E ciononostante i personaggi (anche quelli minori) hanno tenuta ed esprimono una loro coerenza.
Ai loro discorsi, spesso scurrili e densi di termini scatologici, fanno da contraltare delle descrizioni paesaggistiche e di contesti urbani nelle quali Claudio Vergnani dimostra di essere un vero maestro, con un sapiente utilizzo del linguaggio per rappresentare vividamente luoghi ed ambienti, con intensa ed abile forza evocativa, con la sopresa di constatare che, prima o poi, ad impreziosire il testo arriva anche una citazione colta, che conferisce ulteriore profondità allo sguardo di Vergnani.

Dal risguardo di copertina
Pensavamo di aver smesso di uccidere i vampiri, invece abbiamo ricominciato a farlo. Ora che è accaduto quel che è accaduto, è diventato quasi un mestiere. Non devi più nasconderti per cacciarli. Sono reietti, emarginati, abbandonati dai loro stessi Maestri. Le retrovie di un esercito allo sbando. Non c'è posto per loro. Ma nemmeno per noi. E la loro presenza giustifica in qualche modo la nostra. La loro mancanza di futuro si intreccia con la nostra voglia di speranza. Loro e noi. I vampiri e i cacciatori. Una battaglia senza onore né gloria tra disperati, dove in mezzo stanno le prede innocenti. E forse c'è più colpa in noi, che possiamo scegliere, che in loro, schiavi di una sete che non possono spegnere. Loro sono nati assassini, mentre noi siamo l'estrema difesa, sempre sull'orlo dello sfascio. In qualche modo ambiguo e discorde, però, nell'inconsapevolezza innocente dei semplici, non cessiamo di confidare in un brevissimo e insperato momento di giustizia.

lunedì 27 dicembre 2010

In "Balkan Bang!" una scatenata guerra balcanica tra bande rivali nella Sarajevo post-bellica


Balkan Bang!
è il primo romanzo di Alberto Custerlina, già pubblicato nella collana spionistica di Mondadori, "Segretissimo" e ora edito da Perdisa Pop (nella collana Walkie Talkie), 2008 .

La storia, ambientata in una Sarajevo, apparentemente pacificata dopo il sanguinoso assedio da parte dei Serbi, si sviluppa con un intreccio complesso in cui tutti sono contro tutti: poliziotti onesti, poliziotti corrotti, mafiosi desiderosi estendere il proprio potere per incrementare loschi affari, e - al di sopra di tutti - l'Ombra, un personaggio misterioso e senza volto che, manovrando molti fili, cerca di destabilizzare la situazione di pseudo-equilibrio tra gang rivali per ripristinare un ordine legale che, in definitiva, poichè - per essere realizzato - si avvale di mezzi loschi del tutto affini a quelli utilizzati dalle cosche, potrà avere - se dovesse essere realizzato - soltanto la parvenza della legalità.
In queste vicissitudini fatte di intrighi, i morti e le sparatorie non si risparmiano e nemmeno delle scene fortemente colorite e sanguigne di sesso, droga e lotte di cani con il contorno inevitabile delle scommesse clandestine truccate.
Il romanzo, appartenente al filone del "turbo-noir" (termine, peraltro, coniato dallo scrittore medesimo) e prima prova letteraria di Custerlina, mostra come - in tempi di destabilizzazione politica e di conflitti tra etnie rivali - le mafie organizzate possano trarre grandi vantaggi e come, quando - alla fine - si dovesse creare uno stato di pace apparente, ci siano molte possibili evoluzioni, da quella che porta all'incremento delle sfere d'influenza di alcuni malviventi, alla necessità di attivare nuovi conflitti per trarre dalla deregulation che ne consegue ulteriori vantaggi.
Il romanzo di Custerlina è molto ben scritto e si legge con grande interesse: sicuramente, mostra da parte dell'autore un'approfondita conoscenza dei luoghi e dei retroscena cui egli fa riferimento.
La letteratura d'intrattenimento, come può esserlo una spy-story, possiede grandi potenzialità nel condurre il lettore nel cuore di luoghi a lui ignoti, di ambientazioni e di intrighi di cui non ha conoscenza alcuna perchè - solitamente - i fatti narrati riguardano cose ed eventi di cui molto di rado giornali e notiziari parlano.

Dal risguardo di copertina
Cedomir e Karel sono due vecchi criminali che vogliono mantenere il potere. Normale per dei vecchi, se non fosse che qualcuno ha deciso per loro un altro destino. Emir e Lovro sono due giovani sbirri che s'infilano dentro una storia criminale. Normale per degli sbirri, se non fosse che loro ci sarebbero rimasti volentieri fuori. Un segretario cerca di tirare le somme, ma fa male i conti. Tre killer schizzati seminano morte e una schizzata che fa la killer raccoglie vendetta. Un'ombra che aspetta. Serbi, croati e bosgnacchi, insieme, come acido nitrico, acido solforico e glicerina. Sullo sfondo, una Sarajevo che tenta di rialzarsi, come un pugile mandato al tappeto già troppe volte. Un romanzo d'esordio che è un gioco delle parti dove le parti non sanno a che gioco stanno giocando.

(Un commento nel web)
Sarajevo, oggi.
In una realtà criminale di sopravvissuti all'orrore, dove l'odio razziale viene accantonato ma non dimenticato nel nome del dio denaro, due anziani boss della malavita - Cedomir Dragovic e Karel Banfic - studiano come mantenere il potere di fronte all'inarrestabile avanzata di un cartello rivale di cui non si conosce nulla.
Janez, Joze e Jurij, tre gemelli nonché killer psicopatici, mettono a ferro e fuoco la città con spettacolare ferocia, obbedendo agli ordini di un mandante misterioso.
Al bagno di sangue contribuisce ben volentieri anche Zorka Stoltz, assassina torturatrice croata con la passione per le sevizie sadomaso, tanto da impartire quanto da subire. Anton Karadic - gay cinquantenne dal sesso smisurato, quasi quanto la sete di potere che lo divora - cerca il suo posto al sole. Lovro, uno sbirro che non rispetta nessuna elementare regola procedurale, si trova a collaborare con Emir, giovane poliziotto appena arrivato dalle montagne, con la moglie incinta e qualcuno che lo ricatta.
Nell'ombra, un potente burocrate si adopera per distruggere con ogni mezzo, anche illecito, la malavita locale. Questi sono solo alcuni dei personaggi creati dall'autore in questo esordio che sarebbe un autentico delitto sottovalutare. Custerlina ci propone un libro spietato, adrenalinico, pulp.
Un noir a prova di proiettile per l'ambientazione originale, la totale mancanza di qualsiasi forma di pietismo, l'umorismo cattivo, la capacità di tenere alta la tensione.

giovedì 16 dicembre 2010

Ne "L'isola della follia" una nuova avventura di Aloysius Pendergast, agente dell'FBI con poteri speciali


L'isola della follia (Fever dream, Rizzoli, 2010) è il nuovo romanzo della premiata ditta Preston-Child, che non manca mai il consueto appuntamento annuale con i propri fan.
Anche questa volta si tratta di un'avventura appartenente al corpus di storie che hanno come protagonista l'agente speciale dell'FBI, Aloysius Pendergast ed alcuni suoi comprimari. In questo romanzo che - come i precedenti - presenta un fitto intreccio tra mistery, poliziesco e action thriller gli scenari si spostano ad un ritmo vorticoso, mentre Pendergast, spalleggiato prima dal tenente del NYPD Vincent D'Agosta e poi da Laura Hayward (capitano del NYPD, nonchè moglie di D'Agosta), seguono l'usta d'un omicidio commesso più di 12 anni prima, inizialmente rubricato come atroce incidente di caccia: la morte di Helen, moglie dello stesso Pendergast. I metodi di indagine di Pendergast sono del tutto non convenzionali e assolutamente reprensibili, eppure funzionano e sono efficaci.
Gli scenari sono continuamente mobili, anche se - alla fine - il nucleo più vivo della vicenda finisce con il concentrarsi nel profondo Sud degli Stati Uniti, nel cuore misterioso e paludoso della Louisiana.
Per svelare l'intreccio i due dovranno passare al setaccio i più tenui indizi per ridare vita ad una traccia ormai fredda, passando dall'interesse di Helen per John James Audubon (Les Cayes, Haiti, 26 aprile 1785 – New York, 27 gennaio 1851), un ornitologo statunitense di origine francese, famoso soprattutto per avere realizzato 435 illustrazioni di uccelli americani (date alle stampe in volumi di grande formato: The Birds of America), surclassando il lavoro precedente di Alexander Wilson, e dagli interrogativi posti dall'improvviso accendersi del suo genio rappresentativo, ai misteri loschi delle ricerche biologiche condotte da scienzati senza scrupoli per isolare nuovi farmaci dotati di possibilità d'applicazione promettenti e futuribili.
Come accade sempre più di frequente nella saga delle indagini svolte al nostro Pendergast il finale del romanzo rimane aperto.
Si giunge, sì, ad una parziale risoluzione dell'intreccio, è ovvio: altrimenti il lettore rimarrebbe deluso, ma nella stesso tempo c'è una coda di trama che, lasciata insoluta, promette un nuovo seguito altrettanto avventuroso, come pure rimane insoluta la vicenda della protegée di Pendergast, Constance Greene che, in questo romanzo fa una fugace comparsa in collegamento con un nuovo mistero (la morte del proprio figlio, ancora in tenerissima età, durante una traversata atlantica).
A questo punto, occorrerebbe un piccolo dizionario per muoversi a proprio agio nel complesso mondo delle indagini di Pendergast e dei suoi comprimari: insomma, ci vorrebbe una sorta di guida alla lettura, soprattutto per quanti - non ancora aficionados - abbiano la sorta di entrare nella saga con questa storia. Tra i romanzi che vi fanno capo citiamo Dossier Brimstone, La danza della morte, Il libro dei morti, La ruota del buio e Il sotterraneo dei vivi.
E' una lettura di puro intrattenimento che non lascia delusi i lettori desiderosi di storie: e quanto più queste sono interminabili e ad episodi successivi che si intrecciano l'un con l'altro, tanto meglio è. Preston e Child, in questo senso, sono tra i rappresentanti del moderno feuilleton di un tempo, riconettendosi direttamente in qualche misura, ad opere come I misteri di Parigi di Eugène Sue.
Douglas Preston e Lincoln Chil, in una nota conclusiva alla loro opera, annunciano che, senza abbandonare le storie di Pendergast, inaugureranno nel 2011, un nuovo filone di romanzi che avranno come protagonista un investigatore dallo strano nome, Gideon Crew.
"Ci stiamo divertendo come matti a scrivere il primo romanzo che verrà pubblicato nel 2011. Ci dispiace di non potervi fornire maggiori informazioni al riguardo, ad eccezione del titolo: Gideon's sword. Vogliamo che tutto il resto sia una sorpresa" - così scrivono.
Intanto, i due, inaugurano nel loro sito web ufficale i "Pendergast files" in cui - lungi dal volere essere celebrativi su se stessi e sulla propria attività - forniranno ai lettori una serie di anticipazioni su Pendergast o su Gideon Crew, propri inediti e testi scartati dalla produzione ufficiale a stampa, fotografie che documentano i viaggi di Douglas Preston e le ricette tratte dalla repertorio gastronomico di Lincoln Child nella sua veste di grand gourmet e tanto altro.
Nella first issue dei Pendergast files i due autori inteloquiscono, in un'intervista fittizia, proprio con Aloyisius Pendergast in persona.

Dal risguardo di copertina
Il tempo della verità è arrivato, per l'agente Aloysius Pendergast. Sono passati dodici lunghi anni da quel tragico incidente in Africa, quando lui e Helen, giovani sposi, stavano dando la caccia al Dabu Gor, un gigantesco leone dalla criniera rosso sangue mangiatore di uomini. Di fronte all'animale, però, Helen aveva mancato il colpo, e in un attimo da predatrice si era trasformata in preda. Impotente e disperato, Aloysius l'aveva vista morire davanti ai suoi occhi.
Ma il destino trova sempre il modo per sconvolgere qualunque certezza. E così quando a distanza di anni, nella dimora di famiglia in Louisiana, Pendergast imbraccia il fucile con cui Helen aveva sparato quel maledetto giorno, viene alla luce un dettaglio inquietante: l'unico proiettile rimasto è caricato a salve. Sua moglie non aveva sbagliato il colpo: non aveva mai sparato davvero.
È chiaro che Helen è stata assassinata. Inizia così per il geniale agente dell'FBI, in coppia con il tenente del NYPD Vincent D'Agosta, l'indagine più difficile che abbia mai affrontato. Perché questa volta la posta in gioco è una sola: la vera identità di sua moglie.
A guidare Pedergast in un vorticoso e inquietante viaggio nel suo passato, la misteriosa ossessione che Helen gli ha sempre tenuto nascosto: un virus sconosciuto e mortale che precipita le sue vittime nel cuore oscuro della follia. Con L'isola della follia ritorna l'agente Aloysius Pendergast, uno dei personaggi più amati usciti dalla penna di Douglas Preston e Lincoln Child, in un thriller teso e appassionante che si muove sull'ambiguo confine tra giustizia e vendetta.

Gli autori
Douglas Preston è nato nel 1956 a Cambridge nel Massachusetts, è laureato e inizia la sua carriera di scrittore con un volume sul Museo di Storia Naturale di New York, in questa occasione conosce Lincoln Child editor in una casa editrice. L'idea di scrivere un romanzo a quattro mani venne a Preston e Child accettò di buon grado: il risultato della loro prima collaborazione Relic da cui è stato tratto anche un film di discreto successo.
Lincoln Child è nato nel 1957 a Westport nel Connecticut, laureato anche lui, ha lavorato per vari anni nel campo dell'editoria.
Entrambi gli scrittori hanno scritto ottimi romanzi anche individualmente.


sabato 4 dicembre 2010

Se incontrate un nano da giardino, non fermatelo: sta facendo il giro del mondo


Cos’è un nano da giardino?
Molti forse lo sanno. Altri no.
Molto semplicemente: un nano da giardino è una rappresentazione di uno gnomo o di un nano sotto la forma di una statua di piccola taglia, utilizzata per decorare i giardini. Tradizionalmente, il nano da giardino ha la barba bianca, la pelle rosa e un berretto rosso; è vestito d'un paio di pantaloni e da un soprabito di vari colori. La variabilità negli abiti, soprattutto nella foggia e nei colori del soprabito, è ammessa.
Inizialmente apparsi in Germania nel XVII secolo, i nani da giardino sono stati importati nel Regno Unito nel 1874 da un certo sir Charles Isham, che da un viaggio in Germania portò con sé ben ventuno personaggi in terracotta, disponendoli come ornamento del giardino della sua casa nel Northamptonshire.
Oggi, esistono diverse qualità di nani da giardino, dalla scultura autentica alla statua in plastica prodotta industrialmente. A volte, ai nani da giardino, è abbinata una Biancaneve, le cui fattezze sono ispirate alla Biancaneve di Walt Disney.
Negli ultimi decenni del XX secolo si è sviluppato un movimento spontaneo per la “liberazione” dei nani da giardino, a partire dalla con stazione che i nani messi in mostra in un’ostentata immobilità fossero delle povere “anime” prigioniere, cui doveva essere donata la libertà.
A partire da queste origini “spontanee”, si è costituito il Fronte [internazionale] di Liberazione Nani da Giardino (FLNG), di ispirazione “goliardica”, con lo scopo programmatico di liberare i nani da giardino. Secondo gli aderenti, i nani, essendo completamente indifesi, sono preda di malvagie persone che li imprigionano nei loro giardini; e, essendo creature nate nei boschi, soffrono enormemente nel dover vivere intrappolati nei giardini, costretti a mostrare con i sorrisi stereotipati che hanno dipinti sul volto una finta allegria.
I nani liberati, secondo il manifesto del FLNG è quello di riportare i nani nel loro habitat naturale.
Si ritiene che i nani ricambino la gioia della ritrovata libertà, portando fortuna al loro liberatore. Alcuni potrebbero sorridere dopo aver letto queste parole e sentirsi presi in giro da quella che ha tutta l’aria di una bufala.
No, invece: il movimento esiste davvero.
Ha un suo sito web che offre anche delle mappe, contenenti indicazioni sui luoghi in cui vi sono dei nani da liberare e un bollettino, tenuto costantemente aggiornato sui nani liberati, alcuni dei quali vengono spinti ad intraprendere il giro del mondo o viaggi più o meno lunghi, dei quali viene fornita frequentemente anche documentazione fotografica. Il FLNG affonda le proprie radici in Francia, intorno alla metà degli anni novanta e da lì si è espanso sempre più, oltrepassando anche i confini francesi ed approdando anche in Italia dove però i liberatori non si limitano a "riportare" i nani nel bosco come in Francia, ma provvedono anche a liberare le lo loro anime dalla prigione in gesso in cui sono racchiuse, rompendoli (ed evitando così una nuova cattura).
L’organismo italiano si chiama MALAG (Movimento Autonomo Liberazione Anime da Giardino) e possiede pure un suo sito web (dove si possono anche leggere notizie di nani da giardino liberati che stanno compiendo il giro del mondo). In Germania, esiste un movimento simile, ma forse (virtualmente) più cruento che si è auto battezzato Fronte per L'Olocausto dei nani: è volto infatti all'eliminazione dei nani da giardino anziché alla sola liberazione. Gli aderenti a questo movimento sono spesso sono protagonisti di atti clamorosi, quali ad esempio il sequestro, la decapitazione e l'esposizione pubblica dei nani rapiti. E’ recente la notizia di sette nani da giardino decapitati (evento verificatosi circa un anno fa a Ponzano, Pordenone).
Ma, senza andare a scomodare, questi inquietanti estremismi che rimandano a forme di giustizialismo cruento ed intollerante, piace forse conservare come sintesi gentile di questo movimento una delle “storie” narrate nel film “Amelie”, in cui la stessa Amelie rapisce uno dei nani dei giardino del padre (che ne possiede un’intera collezione) e, affidandolo ad un’amica hostess, lo fa viaggiare attorno al mondo, con una precisa e puntuale documentazione fotografica polaroid che il padre di Amelie riceve puntualmente a casa e che gli mostra il suo nano da giardino “liberato” in visita ai principali monumenti delle capitali dei cinque continenti: compiuto il giro del mondo il nano da giardino farà ritorno al punto di partenza.
Chiunque quindi potrebbe imbattersi in un nano da giardino “liberato”.
Se ne incontrate uno per strada lasciatelo libero, perché è sicuramente uscito dalle ristrettezze del suo giardino e sta viaggiando orse in giro per il mondo oppure, semplicemente cerca casa: di un anno fa la notizia che si cercava una dimora per 1500 nani da giardino liberati in Australia.


Qualche giorno fa ho incontrato un nano da giardino liberato: questo è il piccolo racconto che ho scritto per illustrare l'evento.

L'altro giorno ho incontrato un nano da giardino liberato. Camminavo con la mia auto diretto al mare, in un bel mattino di fine novembre, quando al passaggio mi è sembrato di intravedere qualcosa sulla linea bianca che segna il limite della carreggiata.
Qualcosa? No, sarebbe meglio dire una personcina...
Un minuscolo autostoppista, forse... Uno sguardo veloce nello specchietto me lo ha confermato. Ho piantato i freni, malgrado il traffico e sono schizzato giù, percorrendo alcune decine di metri di corsa dal punto in cui mi ero fermato. Ecco: era un nanetto da giardino, girato nel senso di marcia dell'auto, dunque in direzione del mare, dove ero diretto pure io.
Tutto è fatidico. "Avrà un senso, quest'incontro" - ho pensato
Il nanetto di plastica, alto poco meno di 10 centimetri, era disegnato con i colori canonici, ma aveva anche un paio di occhialetti e un libro sotto il braccio.
Era dunque un Dotto!
Forse era un Dotto liberato dal Fronte internazionale per la liberazione delle Anime da giardino o dal nostrano MALAG (o forse liberato personalmente da Amelie) e lasciato lì on the road a sbrigarsela da solo: forse, stava per iniziare a percorrere l'intero giro del mondo...
Quanti forse!!!
L'ho preso con me.
Soltanto dopo ho realizzato che, così facendo, stavo traendo il povero nano nuovamente in schiavitù, privandolo di quell'empito di libertà che aveva sperimentato soltanto per poco (il suo minuto corpicino non recava i segni di una lunga permanenza sulla strada: quando l'ho incontrato doveva essersi appena incamminato...).
Mi son detto che sarebbe stato soltanto per poco e che di lì a poco lo avrei liberato. Intanto, a scaricarmi la coscienza dal peso di questi muti rimproveri, l'ho portato con me al mare, assecondando i suoi desideri.
Arrivati sulla spiaggia l'ho posato proprio al limitare della risacca e lui era lì che contemplava incantato il mare, i frangenti, i gabbiani, il cielo azzurro le leggere nuvole cotonose.
Per quanto lo girassi anche verso di me che stavo alle sue spalle, si rigirava di nuovo per rimimare il mare: c'era molta nostalgia in questosuo volgersi verso l'orizzonte lontano. Forse nella sua schiavitù aveva sempre sognato il vasto mare o addirittura l'oceano...
Poi, l'ho portato con me e ho provato a fargli assaggiare il mio prosecco...
Insomma, l'ho davvero considerato un mio pari, un temporaneo ospite.
Da alcuni giorni il nano da giardino è con me: in questo momento mi guarda mentre io batto sulla tastiera.
Di notte, silenziosamente, quando nessuno lo vede, apre il libro che tiene sotto il braccio e legge qualche pagina di antica saggezza.
Lo dovrò liberare presto, per onorare la mia promessa.
Mi piace pensare che si metterà sulla strada per fare il giro del mondo...
Stai tranquillo, nano, ti ridarò la libertà che hai conquistato a duro prezzo, ma intanto non posso fare a meno di apprezzare la tua compagnia quieta e silenziosa.
Che non sia io stesso un nano da giardino?
O forse lo sono stato in una vita precedente.
Non so...
Ho sempre desiderato di poter fare il giro del mondo in un'unica tirata...
Aspetto di essere liberato per partire...


Bisogna anche chiedersi se i nani da giardino abbiano tutta questa voglia di essere liberati: in fondo, il movimento per la loro liberazione si basa su d’una presunzione, cioè che essi vogliano essere liberi…
Ma forse non è così…
Ricordiamoci di uno degli episodi della saga del maghetto Harry Potter.
Hermyone Granger scopre con grande disappunto che i maghi – anche quelli buoni - si servono degli Elfi domestici, che hanno con loro un rapporto molto rigido, servo/padrone. Questo rapporto può essere tuttavia spezzato: è sufficiente regalare un oggetto qualsiasi - anche di scarso valore - ad un elfo domestico per tramutarlo in “liberto”, susctando in lui più che manifestazioni di gioia, espressioni di sommo disappunto. Gli Elfi domestici, infatti non vedono altra possibilità di rapportarsi con i maghi, se non questa e non riescono a concepire di avere con essi un rapporto da pari a pari.
Hermyone, sulla base della sua convinzione di essere nel giusto, vuole portare una ventata di democrazia nel mondo degli Elfi domestici e attiva un “movimento per la liberazione degli Elfi domestici” che si propone appunto di liberare un elfo ogni volta che sia possibile.
Come? Facendogli un dono: ma il più delle volte in questa sua azione idealistica, non trova riconoscenza, ma solo rimbrotti.
I nani da giardino la fanno da protagonisti, proprio alle prese con una migrazione e un cambio di casa, assieme a gerbilli e ad altri animaletti domestici, in un bel racconto favolistico di Margherita Oggero (Così parlo il nano da giardino, Einaudi, 2006), di recente riedito con delle accattivanti e incantevoli illustrazioni di Guido Pigni. E’ lecito pensare, per aprire ulteriori scenari, che i nani da giardino possano liberarsi da soli e da soli partirsene per una migrazione da un luogo all’altro o per un viaggio intorno al mondo, nel corso del quale possono fermarsi per condividere alcuni momenti, più o meno o lunghi, con degli ospiti “sensibili” che comprendano le loro esigenze.
I nani, in una dimensione simbolica, come gli gnomi, loro congeneri, rappresentano in qualche misura un’integrazione complementare alla figura dell’angelo.

L’Angelo (e l’Elfo nella mitologia nordica) sta al cielo e alla trascendenza, come il Nano sta alla Terra.
Come l’Angelo è etereo e rarefatto, così il Nano è terragnolo.
Mentre l’Angelo è perfetto e incorporeo, il Nano è profondamente legato alla sua corporeità imperfetta e alle sue radici.
Mentre l’Angelo conosce i segreti del Cielo, il Nano terragnolo conosce quelli della Terra, è capace di scavarla e di trarne tesori incommensurabili, come gemme e metalli preziosi.
Se l’Angelo fa da tramite tra il Cielo e la Terra, il Nano porta all’uomo i segreti antichi della lavorazione degli elementi e della loro trasformazione e, in questo senso, è il prototipo e il precursore dell'Homo faber.
Per questi motivi, i Nani meritano rispetto, così come gli Angeli, di cui sono la controparte indispensabile.
Tra gli Angeli e i Nani, ci siamo noi, gli Umani, ai quali entrambi portano alternativamente i propri doni, se soltanto sappiamo comprenderli.
Anche gli Angeli, più volte raffigurati nella pittura e nella statuaria, siderati sulle pareti e sui tetti delle chiese in pose sublimi, potrebbero desiderare di liberarsi dalle loro catene e di scendere a terra, mescolandosi agli uomini: è esattamente così che comincia lo straordinario film di Wenders, Il cielo sopra Berlino.
In fondo, dividiamo egualmente la natura dell'Angelo e del Nano.


lunedì 29 novembre 2010

Cani e gatti - Frida e l'accappatoio


L'altro giorno, di primo mattino, c'è stato un violento acquazzone e durante la corsa mattutina ce lo siamo beccato tutto, io e Frida.
Al ritorno, Frida era zuppa e sgocciolava acqua da tutte le parti, a rivoli.
Per questo motivo, le è stato precluso l'ingresso in casa e, contemporaneamente, come misura straordinaria, è stata paludata in un vecchio accappatoio appartenuto un tempo a qualche bambino e ora riciclato come accappatoio per cane.
Frida, come altre volte, non era molto felice di doverlo indossare, ma si è dovuta rassegnare, facendo buon viso a cattivo gioco...

"Guardate a cosa mi costringe il mio padrone" - sembra dire con il suo sguardo umido.

Poi, tale era la sua insofferenza, che alla fine è riuscita a sfliaserlo e se ne è scappata su per le scale del condominio, trascinandoselo con sé.
L'accappatoio ho dovuto recuperarlo qualche piano più su.

giovedì 18 novembre 2010

The way I was - Carcò, il mio compagno di banco di III

Uno dei temi frequentemente assegnati dai maestri ai ragazzini delle Scuole primarie (un tempo "elementari) alle prese con i primi e faticosi cimenti della scrittura è relativo alla descrizione del mondo che circonda i bambini, l'immediato "vicino", anche nel senso antropologico del termine.

Un esempio di composizione, attinto dai miei personali ricordi:

Il mio compagno di banco

si chiama Carcò

Ha gli occhi marrone.

Ha i pantaloni marroni

Porta un maglione marrone

e ha le scarpe e le calze marroni

Fu il testo di un mio tema quando ero - se non ricordo male - in 3^ elementare.

Il titolo che ci aveva assegnato il maestro era: "Descrivi il tuo compagno di banco".

La mia composizione si distingue per la stringatezza ("stitichezza" compositiva, soleva dire mia madre raccontando l'episodio) e monotematicità.Parrebbe cheio vedessi il mio compagno di banco come un pezzo di cacca, né più né meno (considerando la profusione di marrone), forse perchè fui sollecitato dall'assonanza tra "carcò" e "cacò" (passato remoto del verbo "cacare") con un istintivo e spontaneo spostamento verso la "cacca", amata/odiata.

"Cacca", da piccolo, parola amata: spesso solevo dire, arrivando a casa dei nonni, provocatoriamente (o forse soltanto perchè lo trovavo divertente o perchè così ritenevo di manifestare il mio affetto), "Nonno Totò e Nonna Ia, cacca e pipì!".

Ma anche odiata: la nonna sentendomi pronunciare a ripetizione queste parole esortava mia madre a punirmi, pungendomi la lingua con uno spillo.Lei diceva che sì, l'avrebbe fatto ma poi non eseguiva mai. Cionondimeno io ero terrorizzato, ma non per questo riuscivo a tenere a freno la mia linguaccia.

Mia madre raccontava questa storiella su Carcò tutto marrone e ogni volta si faceva grasse risate, commentando: "Chi l'avrebbe mai detto che, dopo, da grande, ti sarebbe venuta la passione per la scrittura!".

Mi raccontava anche che, dopo quel tema, il maestro la chiamò per discutere con lei di questa mia scrittura "stitica" e monocorde,lamentandosi della mia scarsa fantasia e della mia pigrizia nell'aggiungere alla mia composizione altre parole che rendessero il racconto un po' più corposo.

Ed ora - mi chiedo - dove sarà finito il buon Carcò (di cui non ricordo nemmeno il nome)?

mercoledì 17 novembre 2010

Con Unstoppable di Tony Scott un bell'esempio di cinematografia "ferroviaria".

Con Unstoppable. Fuori controllo (di Tony Scott, USA, 2010) abbiamo modo di vedere un film di azione "ferroviaria". Ferrovie e treni in corsa hanno da sempre attratto i cineasti, sin dagli esordi della cinematografia, soprattutto perche le riprese dei film in movimento con la loro specifica cinematica ben si prestavano a creare effetti di "presenza" in sala di proiezione di rara efficacia e vividezza., in un connubio fertile tra le futuristiche macchine e vapore e la nacente cinematografia, arte legata in modo stretto alla ripresa di oggetti e persone in azione e, dunque, alla velocità e alla modernità.
Basti pensare ai numerosi esempi di questo tipo che punteggiano la storia del cinema, sia nell'ambito della cinematografia "seria" sia nelle comiche e nelle commedie.
Con i film di treni si è creato così un vero e proprio sotto-genere che percorre trasversalmente tutti i diversi ambiti "codificati" della cinematografia e che, nello stesso tempo, segue longitudinalmente la storia del cinema stessa.
Una regola accomuna tuttavia questi film: sempre, sin dagli esordi, le riprese - per essere efficaci nel loro impatto sul pubblco - dovevano riguardare "veri" treni in movimento. Ed è così tutt'ora: era ben più rimarchevole che ciò avvenisse agli esordi della cinematografia.
Ed è così che si giunge a quest'ultimo esemplare realizzato da Tony Scott, fratello del grande Ridley e maestro della cinematografia di movimento e di azione: per alcuni un vero autore cult.
La storia è semplice: un enorme convoglio merci si avvia - per una serie di sfortunate coincidenze - a lungo un binario, in accelerazione e senza nessun pilota a bordo. La sua traiettoria lo porterà ad attraversare la città di Stanton, Pensylvania, fittamente popolata piena di impianti che trattano sostanze pericolose. Lo stesso treno trasporta numerosi vagoni contenenti una sostanza chimica altamente tossica.
Inizia una corsa contro il tempo per cercare di fermare il convoglio. Falliscono i tentativi della dirigenza della Compagnia ferroviaria che, per limitare il possibile danno, dispone alcune misure sostanzialmente poco efficaci e che, nello stesso tempo, diffida dei suggerimenti e delle ipotesi ventilate dalle persone sul campo.
La soluzione verrà data da un macchinista "veterano dei veterani" (un Denzel Washington un po' imbolsito) che, alla guida del suo locomotore e, avendo a bordo, un capotreno novellino, neo-assunto (Chris Pine) parte a tutto gas all'inseguimento del convoglio fuori controllo per cercare di acchiapparlo da dietro.
Le riprese d'azione si fanno via via più coinvolgenti ed emozionanti man man che il convoglio macina i chilometri e, sino all'ultimo, lo spettatore rimane con il cuore in gola, mentre al passaggio del treno c'è l'inevitabile contorno di automezzi investiti e ribaltati, il dispiegarsi d'un mastodontico schieramento di polizia e Vigili del fuoco che isolano la zona per vietare l'accesso a tutta la popolazione civile e la massiccia copertura mediatica che solo gli Americani USA sono capaci di mettere in campo.
La parte debole del film - debole perchè si perde in luoghi comuni e dialoghi scontati - riscattata tuttavia dall'efficacia e dall'intensità delle scene di movimento è quella dei colloqui tra i due nella cabina di pilotaggio del locomotore che, alla fine, salverà la situazione: nei dialoghi va in scena, in modi un po' scontati, il confronto tra un veterano del lavoro ferroviario e tra un giovane neo-assunto, un pivellino che deve la sua assunzione al fatto di portare un cognome importante per la dirigenza (quindi, una specie di "raccomandato"), un confronto che, dopo la fase dell'insofferenza, dell'incomprensione, del dileggio e della mancanza di stima, si tramuterà alla fine in reciproco rispetto: ma entrambi sono piccoli proletari, onesti lavoratori, che - pur bistrattati dal proprio datore di lavoro e sfiduciati da esso - in modo molto "americano" sono pronti a rischiare il tutto per tutto per essere degli eroi.
Il film si basa su di una storia realmente accaduta in una zona della Pennsylvania, negli USA.

Scheda Film

Un film di Tony Scott
Interpeti principali: Denzel Washington, Chris Pine, Rosario Dawson, Ethan Suplee, Kevin Dunn, Kevin Corrigan, Kevin Chapman, Lew Temple, T.J. Miller, Jessy Schram, David Warshofsky, Andy Umberger, Victor Gojcaj, Adam Kroloff, Maxx Hennard, Eric Unger, Scott A. Martin, Christopher Stadulis, Kevin McClatchy, Joshua Elijah Reese, Jeff Wincott, Paul Vasquez, Elizabeth Mathis, Meagan Tandy, Keith Michael Gregory, Patrick McDade, A.J. Verel, L. Derek Leonidoff
Titolo originale: Unstoppable
Genere:Azione, durata 99 min.
USA 2010. - 20th Century Fox
Uscita venerdì 12 novembre 2010.

domenica 14 novembre 2010

"La psichiatra", opera d'esordio di Wulf Dorn: uno psycho-thriller davvero ben costruito


Lo psycho-thriller è un sotto-genere della più ampia categoria letteraria e cinematografica del thriller che accoglie in sè, tuttavia, anche elementi propri del mistery e del dramma (tipici e fondanti del thriller, non semplicemente d'azione), ma anche elementi ascriibili tout court più propriamente alla letteratura horror.
La psichiatra (dell'esordiente Wulf Dorn, publicato in Italia per i tipi di Corbaccio, 2010), che in Germania - grazie al passaparola tra i lettori - ha avuto un enorme successo di pubblico, appartiene appunto alla categoria del psychothriller, con elementi che all'inizio farebbero pensare al medical thriller, dal momento che l'esordio della narrazione è l'inquietante rapporto che si stabilisce tra una dottoressa, Ellen Roth, psichiatra molto apprezzata in una grande clinica privata (l'immaginaria Waldklinik) ed una misteriorsa paziente che sembra essere reduce da maltrattamenti e abusi (le appare sporca e ricoperta di lividi, alla prima visita) e che se ne sta rannicchiata, muta e spaurita, nell'angolo della stanza che le è stata assegnata. Chi è l'Uomo Nero che l'avrebbe maltrattata e sul conto del quale la misteriosa donna pronuncia delle frasi smozzicate, riottosa a qualsiasi tentativo di stabilire un contatto con lei??
Ellen Roth cerca di approfondire la questione, entrando maggiormente in contatto con la paziente, senonchè costei misteriosamente scompare, così come altrettanto misteriosamente era giunta nella Clinica il giorno prima (nessuno l'aveva vista, né ne serbava memoria).
Viceversa, compare un misterioso personaggio che prende a vessare la stessa dottoressa, sollecitandola ad andare avanti in una ricerca sempre più frenetica nel tentativo di salvare la donna scomparsa e, nello stesso tempo, mettendola in un confronto stretto con la convinzione degli altri che sia lei a manifestare segni di follia, forse perchè è sottoposta ad uno stress eccessivo.
Da thriller medico-psichiatrico lo scenario si trasforma in quello di uno psycho-thriller, leggendo il quale si scende nelle profondità insondabili di una mente umana gravemente turbata in uno scenario sempre più da incubo e il lettore, costretto a doversi calare verso il cuore oscuro di una follia antica, è trasportato con numerosi colpi di scena vieppiù incalzanti verso la soluzione del mistero.
Sul quale, ovviamente, non si può dire nulla, per non rovinare ai lettori il piacere della scoperta.
La narrazione di Dorn procede con grande slancio sino ad un certo punto, poi, rallenta: il punto debole di ogni psycho-thriller è il momento delle spiegazioni psicopatologiche, secondo una tradizione messa a punto , in modo magistrale, da Hitchcock con il suo celebrato Psycho che culmina con la descrizione icastica della follia profonda di Anthony Perkins e del suo sdoppiamento di personalità.
Ma la spiegazione psicopatologica - per essere efficace - deve essere data in modo fulminante, senza dare al lettore il tempo di razionalizzare: c'è il rischio altrimenti di fare scadere la propria narrazione alla pagina di un testo di psicopatologia oppure a quella di un volume di casi clinici.
Il romanzo di Dorn che rivela di possedere una grande maestria narrativa, con una scrittura agile ed incisiva, fornisce un'esemplificazione paradigmatica delle tematiche riguardanti il maltrattamento e l'abuso dell'infanzia, gli stati dissociativi della mente, l'incidenza di stati allucinatori e di tematiche deliranti nell'influenzare pesantemente il rapporto con la realtà, tematiche che, peraltro, l'Autore conosce bene per via del suo lavoro come logopedista presso una struttura psichiatrica.

Sintesi del romanzo (dal risguardo di copertina)
Lavorare in un ospedale psichiatrico è difficile. Ogni giorno la dottoressa Ellen Roth si scontra con un'umanità reietta, con la sofferenza più indicibile, con il buio della mente. Tuttavia, a questo caso non era preparata: la stanza numero 7 è satura di terrore, la paziente rannicchiata ai suoi piedi è stata picchiata, seviziata. È chiusa in se stessa, mugola parole senza senso. Dice che l'Uomo Nero la sta cercando. La sua voce è raccapricciante, è la voce di una bambina in un corpo di donna: le sussurra che adesso prenderà anche lei, Ellen, perché nessuno può sfuggire all'Uomo Nero. E quando il giorno dopo la paziente scompare dall'ospedale senza lasciare traccia, per Ellen incomincia l'incubo. Nessuno l'ha vista uscire, nessuno l'aveva vista entrare. Ellen la vuole rintracciare a tutti i costi ma viene coinvolta in un macabro gioco da cui non sa come uscire. Chi è quella donna? Cosa le è successo? E chi è veramente l'Uomo Nero? Ellen non può far altro che tentare di mettere insieme le tessere di un puzzle diabolico, mentre precipita in un abisso di violenza, paranoia e angoscia. Eppure sa che, alla fine, tutti i nodi verranno al pettine...

Wulf Dorn (Germania) è nato nel 1969. Ha studiato lingue e per anni ha lavorato come logopedista per la riabilitazione del linguaggio in pazienti psichiatrici. vive con la moglie e il gatto vicino a Ulm, in Germania.

La psichiatra è il suo primo romanzo ed è diventato un successo grazie al passaparola dei lettori.


lunedì 25 ottobre 2010

Diario Islandese. Appunti di viaggio dell'estate del 2007


Quelli che seguono sono gli appunti che andavo scrivendo sul PC portatile, durante il viaggio in Islanda nell’estate 2007.
Ero già stato in Islanda, tantissimi anni prima (una vita prima, si potrebbe dire) ed è stata una grande emozione tornarci.
Ho rivisto alcune cose che mi erano già note e che, ciò nonostante, mi sono sembrate diverse, perché tanto acqua era trascorsa nel frattempo anche per me.
Ma ho visto anche dei posti assolutamente nuovi.
Diverso è stato il modo di viaggiare: allora, con pochi mezzi, viaggiavo a piedi e in autostop, pernottando negli ostelli e in scuole durante la pausa estiva attrezzate come foresteria: questa volta con un auto a noleggio.
Nel corso di circa 10 giorni, abbiamo compiuto l’intero periplo dell’Islanda, spingendosi sino alla remota regione dei fiordi nord-occidentali.
E’ stata una splendida esperienza: la sua bellezza è consistita soprattutto nel fatto che questa volta c’era con me mio figlio, ormai abbastanza grande per potere apprezzare un viaggio “on the road” e un po’ avventuroso.
Una sorta di passaggio generazionale: anche se, a conti fatti, non so se il viaggio gli sia veramente piaciuto o se, piuttosto, non si sia annoiato.
Riguardando le foto che feci durante il viaggio, la mia impressione è che si sia divertito: ha sempre un volto disteso e sereno, corre, ride, fa le smorfie (quelle smorfie che ci fotografavamo a vicenda, sghignazzando poi a crepapelle per quelle che venivano più buffe e grottesche). Può anche darsi di no: ma questo sinceramente non lo posso dire.
Voglio sperare che il viaggio gli sia piaciuto e che un giorno se ne possa ricordare con piacere e magari anche con un pizzico di nostalgia, al punto da desiderare di poter ritornare negli stessi luoghi, così come ho fatto io a distanza di quasi trent'anni.
Cosa mi ha spinto a tornare alla ricerca di questi appunti islandesi? Tempo fa e di nuovo recentemente ho guardato un video dei Sigur Ross, un gruppo musicale islandese: il film racconta appunto il loro ritorno in terra d'islanda, nella loro Terra, dopo una lunga tournée musicale all'estero. Per celebrare questo ritorno, i Sigur Ross decisero di portare il loro concerto in tour per i luoghi più significativi e simbolici dell'Islanda, con una serie di spettacoli gratuiti realizzati solo per il puro piacere di farli, facendoli divenire spunto per stare assieme alla gente del posto (la loro gente) in una meravigliosa esperienza di condivisione.
Guardando il film, in diverse circostanze ho avuto modo di vedere ogni volta, gli stessi luoghi attraverso cui ero passato.
E anch'io ho sperimentato la nostalgia di quei luoghi e, per questo, sono voluto andare alla ricerca delle mie impressioni di viaggio, per ricalarmi dentro quell'atmosfera.
Il CD (con DVD) dei Sigur Ross, significativamente si chiama "Heima" (Patria) e lo consiglio vivamente a tutti quanti.
Se non si è ancora avuta l'opportunità di viaggiare attraverso l'Islanda, vederlo fa venire la voglia di farlo, immediatamente.
Questo il link su uno dei passaggi contenuti nel film.


1.
Le chiese di Rejkyavik

Ci sono poche chiese qui a Reykjavik: una cattolica, una luterana, e due o tre minori. la popolazione della città, capitale dell'Islanda, assomma da sola a quasi il 70% del totale degli abitanti dell'intera isola (circa 115.000 su 300.000).
In Italia e nei paesi cattolici per servire la stessa popolazione ci sarebbero decine di edifici sacri.
Forse questa sobrietà deriva dalle caratteristiche di un popolo che ha sempre dovuto sottrarre faticosamente alla natura tutto ciò che serviva per andare avanti. Poche chiese costruite in pietra o in cemento: questi ultimi costruiti in epoca recente come, ad esempio, la Haldimirkja Kirkja costruita proprio alle spalle del monumento di inizio secolo dedicato al navigatore vichingo che secondo le scritture delle antiche saghe islandesi si sarebbe spinto sino alla mitica Vinland, l'odierna Terranova.
Che siano di antica costruzione o di moderna fattura (come quelle severamente rappresentate nei quartieri residenziali della città di più recente costruzione), esprimono - questi edifici - una grande sacralità senza pompa, ispirate come sono alla sobrietà pur nella solidità della costruzione: il loro stile neo-gotico trasmette al visitatore un'immediata sensazione di ascesa verso l'alto, anche se - nello stesso tempo - la grande luminosità degli interni esprime il desiderio (dei costruttori e dei fedeli che le frequentano) e il bisogno ben più antico di captare il sole, di esserne inondati dai suoi raggi.
I loro pavimenti di pietra, rallegrati da fasci di luce che piovono copiosi dalle strette vetrate, non comunicano una sensazione di freddo, bensì di calore e di conforto.

.
2.
Contro il freddo ed il buio, allegria e affabilità di modi

Gli Islandesi sono un popolo allegro, gentile, affabile: sostituiscono con il calore dei modi e con lo slancio nei confronti dell'altro ciò che la natura non ha dato loro.
Vivono in un paese freddo e buio per gran parte dell'anno: un islandese ha confidato ad un viaggiatore, proveniente da un paese molto più a sud ed appena giunto nella sua terra, che l'estate - per loro - è una stagione davvero effimera, soprattutto per quanto riguarda la possibilità di godere in pieno della luce del sole. Trascorsi appena quattro mesi (da maggio a fine agosto, quando le giornate sono lunghissime perché il sole non scende mai sotto la linea dell'orizzonte - maggio e giugno - oppure scende di poco per ripresentarsi dopo poche ore appena di una notte che non diventa mai veramente buia), le giornate (intese come ore di luce disponibili) si fanno sempre più brevi, sino al periodo triste e buio della parte centrale dell'inverno (dicembre-gennaio), quando il sole sorge a mezzogiorno per tramontare definitivamente attorno alle tre del pomeriggio (una nozione che, per chi vive in uno dei paesi che s’affacciano sul Mediterraneo, è davvero quasi impensabile).
Il buio, privando della percezione dei colori primari (che sono intimamente connessi con le emozioni) accresce la sensazione di freddo e desolazione. Forse per questo le case vengono dipinte di colori vivaci che con la loro brillantezza servono a ricordare la ricchezza della gamma cromatica dell’arcobaleno. Agli Islandesi non rimane altro da fare che riscaldarsi il cuore di gentilezza e buon umore. Per questo, è così frequente vedere un bel sorriso aleggiare sulle loro labbra. Altri non ce la fanno a sopravvivere al gelo dell'inverno e si tuffano nella consolazione effimera, ma devastante, dell'alcool.
Qui, a differenza di quanto accade presso altri popoli scandinavi in cui i cittadini sembrano chiudersi in un cupo isolamento, la salvezza viene dalla solidarietà reciproca e dall’operosità, qualità che contraddistinguono il popolo dell'Islanda, da sempre abituato ad una dura lotta per la sopravvivenza contro un ambiente ostile. Le temperature invernali non sono poi così rigide come in altri paesi del Nord, perché qui si sente l'effetto benefico della Corrente del golfo che stempera i rigori della latitudine (la Groenlandia che si spinge molto più a sud è ben più inospitale, proprio perché non ne è lambita) e non scendono mai al disotto dai -5° ai -10° (e, in alcune aree, come nella capitale Rejkyavik, è raro che scenda al disotto di +5°).
Il freddo, mescolato al buio della lunga notte artica (a volte ravvivato - come ricompensa - dalle fantasmagorie delle aurore boreali), tempra gli animi degli indigeni, rendendoli propensi a gioire del più piccolo raggio di sole e delle prime fioriture di primavera che quando è il momento giungono rigogliose. E' anche per questo che amano circondarsi, d’inverno, di piante e fiori finti (che cambiano ogni giorno, come se fossero freschi, appena colti) e di corone di rametti intrecciate con filari di lucine colorate e, d’estate, di piante da fiore: camminando per le loro città nel corso dei mesi estivi, è possibile ammirare meravigliose aiuole fiorite che trattengono e poi rilasciano in vivaci scale cromatiche il sole, anche nelle giornate in cui questo rimane nascosto da un cielo corruscato di nubi. Considerando le ristrettezze climatiche cui gli Islandesi sono sottoposti per “obbligo” di nascita, uno che vive a sud e che ha avuto il dono del sole pieno (in modo del tutto gratuito) per quasi 365 giorni all'anno, in fondo, non dovrebbe arrogarsi il diritto di lamentarsi se nel posto in cui vive fa troppo caldo d'estate, proprio prendendo ad esempio questo popolo del nord che, di anno in anno, d’inverno deve accontentarsi di quelle tre stentate ore di sole e sa attendere con pazienza e serenità d’animo l'arrivo dell'estate per poi godersela tutta in ogni singolo istante, come un dono prezioso del cielo e della sorte.

3.
Correre nel cuore dell’Islanda

Dopo una notte trascorsa in una guest house nel cuore dell’Islanda (a 28 km dalle imponenti cascate di Dettifoss, a nord ovest del Vatnajokull –il ghiacciaio più grande d’Europa), appena sveglio e animato da buona volontà, indosso indumenti e scarpette da corsa e me ne vado a fare un po’ di jogging. Fa freddo, perbacco!, come in uno dei nostri più freddi giorni invernali, tira un vento gelido e cade un’acquerugiola sottile ed impalpabile, la peggior forma di pioggia, perché non te ne accorgi quasi e subito senza capire come finisci con l’essere tutto inzuppato. La casetta a due piani in cui siamo stati ospitati è una tipica casa agricola islandese, tutta di legno, funzionale ed accogliente – per quanto antiquata, con il tetto spiovente, una ripida scaletta che conduce alle basse stanze da letto, confortevoli come tane; una costruzione al margine di un gruppetto di altre case simili e di edifici agricoli, al centro del nulla: da ogni parte si stende a perdita d’occhio un paesaggio sconfinato, piatto e vuoto e questa sensazione è accresciuta dal grigiore uniforme del cielo, dal fatto che niente sia in vista, e oggi nemmeno un animale intento al pascolo, benché queste siano fattorie agricole che hanno al centro della loro attività proprio la pastorizia. Per nulla contento d’immergermi in questo gelo, abbandonando il caldo confortevole della casetta-bomboniera che mi fa pensare a quella di Dorothy del mago di Oz, muovo i primi passi di corsa, volgendo le spalle al conforto delle abitazioni che, con il biancore delle pareti ed i vivaci colori di cui sono dipinti i tetti, risaltano nettamente sul grigiore del cielo e sul nero dei detriti lavici che occhieggiano tra le maglie dal rivestimento di stenta vegetazione che ricopre il terreno. Mi allontano, dunque, dalla piccola isola di civiltà, con un groppo in gola. Penso: potrei perdermi, non ritrovare più la via di casa e smarrirmi in questo nulla che sembra infinito.
Dopo alcune centinaia di metri lungo lo sterrato dal fondo di detriti lavici, nero e brullo, mi giro indietro a guardare e già le case non si vedono più, come inghiottite da un nulla minaccioso.
Continuo ad andare avanti: non un auto, non un rumore che indichi la presenza umana o delle bestie. Soltanto il fischio del vento nelle orecchie che canta ossessivamente la stessa strofa ed il rumore dei miei passi. Vado avanti per oltre mezzora e la sensazione angustiante d’essere immerso nel nulla, in un vuoto angoscioso, si fa sempre più forte ed intensa. Penso che non ho nemmeno il telefonino per chiamare qualcuno in aiuto se davvero dovessi perdermi, immagino scene tragiche, mi vedo intento a vagare senza costrutto per queste lande desolate, sino a morire di fame e di stenti. In questi casi, avere una fervida fantasia non è certo d’aiuto… Penso a come debba essere dura la vita di questi farmer islandesi che se ne stanno a vivere e a lavorare praticamente al centro del nulla. Penso alla benedizione della luce del sole quando il cielo non è coperto dalla coltre minacciosa di nubi. Mi viene da pensare anche a come deve essere duro abitare (e lavorare duramente) in queste lande d’inverno quando la luce del sole è così scarna e arriva con la sua benedizione soltanto poche ore al giorno.
Forse per questo gli islandesi amano addobbare le loro case con fiori anche finti (non importa) per avere chiazze di colore che rimandino all’idea della vita che brulica e palpita con i suoi mille colori e di lucine colorate e sfavillanti che tengono sempre pronte per accenderle anche al di fuori del periodo natalizio.
Quando faccio ritorno (anche se, in effetti, non ce ne sarebbe stato bisogno, all’andata avevo preso una serie di punti di riferimento per non smarrirmi) sono quasi contento di rivedere le casette tutte colorate che prima mi ero lasciate alle spalle: sotto il cielo corruscato ed immenso, sembrano piccine piccine, come i pezzi di un gioco di bambini, eppure sono tremendamente confortevoli e rassicuranti.
Due cani mi corrono incontri festosi per accogliermi e giocare a rincorrersi accanto a me, in un turbinio di vitale gioiosità.
(Dettifoss, il 11.08.2007)


4.
Correre in Islanda: alba, pecore e vento

Ricevo il saluto di un’alba dai colori strepitosi: il cielo si stria di rosa carico.
Poi, nell’ora in cui usciamo per correre un po’, sorge il sole. Il giorno della maratona di Rejkyavik s’avvicina e occorre tenersi in gamba… Siamo soltanto noi, io e Paola: il nostro albergo si trova su d’una strada asfaltata, ma, siccome siamo in un posto isolato per raggiungere il quale abbiamo percorso qualcosa come 400 chilometri in un'unica tirata, è come se fosse una baita di montagna. In queste prime ore del giorno, a voler essere generosi, passerà forse un auto ogni mezzora.
La strada, illuminata dai raggi radenti del sole che fanno tanta allegria è, dunque, tutta nostra. Senza alcun pericolo potremmo, volendo, correre al centro della carreggiata senza temere alcun male da parte di automobilisti dissennati. Ma - da bravi podisti - corriamo lungo il margine dell’asfalto tenendoci contromano: le abitudini di prudenza sono dure a morire.
Siamo soltanto noi: non è esatto, a dire il vero.
Oltre a noi, ci sono miriadi di paperelle che nuotano di primo mattino nelle acque increspate del fiordo la dove si frangono in lievi ondine su strette strisce di sabbia, con la compagnia di alcuni gabbiani che volteggiano capricciosamente e, infine, le pecorelle.
Già, le pecorelle, qui in Islanda, hanno un posto d’onore visto che in un censimento risalente al 1985 circa erano già circa 800.000, in tutta l’isola.
Le pecorelle le incontri dovunque: Se ne stanno in semi-libertà, avendo a disposizione distese sterminate di terreni su cui pascolare: dovunque giri in Islanda, vedi pecorelle. Sono autenticamente una compagnia costante, una presenza,
Dunque, nella nostra corsa ci hanno fatto compagnia tantissime pecorelle che ci osservavano curiose, in alcuni casi, allarmate. Alcune pascolavano, altre s’aggiravano indolenti piluccando qua e là, alla ricerca forse del boccone sfizioso, dopo essersi ben pasciute, altre ancora s’accingevano ad accosciarsi a terra per iniziare la loro beata ruminazione, dopo aver fatto il fatto il pieno (data l’ora del giorno, la loro prima colazione…), altre – più timide – nel vedere le nostre strane sagome – per loro decisamente insolite ed inquietanti – e le nostre ombre allungarsi minacciose sino a loro – fuggivano come fiocchi cotonosi spostati da una folata di vento (e, in fuga, si mostravano buffissime perché quando corrono all’unisono sembrano globi di lana svolazzante su gambine sottili come stuzzicadenti). Altre, infine, si spostavano isenza premura lungo le spiaggette preparandosi ad un piacevole picnic in riva al mare. Curiosi di vedere cosa sarebbe accaduto, abbiamo provato ad imitare il loro richiamo. Beeeeeee! Beeeeee!
Ci hanno guardato piegando la testina in basso con fare interrogativo, alcune hanno anche risposto con un “beeeee” giusto oppure abbiamo avuto l’impressione che, da brave comari quali sono, si parlassero tra loro: “Ma che vogliono ‘sti due balordi?” (tradotto approssimativamente dal pecorese).
La cosa veramente buffa è che le pecorine se ne stanno il più delle volte in gruppetti di tre: è raro veramente vederne una isolata. Se così è, dopo poco ne spuntano altre due (che non erano subito in vista). Forse ciò accade perché – come tanti altri mammiferi sociali - in tre costituiscono l’unità elementare del branco, perché in tre possono guardarsi meglio da tutte le diverse direzioni per proteggersi in maniera cooperativa dai pericoli. In effetti, in ogni gruppetto di tre, accadeva che ce n’era una che si drizzava in piedi e se ne stava ad osservarci attentissima, senza perdere nemmeno uno dei nostri movimenti, mentre le altre due continuavano a starsene intente nelle loro attività. A volte però davano anche l’idea di essere molto curisose nel loro modo, ludiche e gioiose nella fuga, poiché la loro corta coda si agitava come in uno scondizolio..
Insomma, la nostra corsa s’è svolta in compagnia delle paperelle, delle pecore e del vento che come ogni altro giorno ha soffiato furioso: poi, per il resto, abbiamo avuto la sensazione che questo posto, benché fossimo stranieri, ci appartenesse e ci accogliesse in un tutto armonioso con le altre creature viventi che lo abitano.
Alla fine, quando siamo rientrati in albergo, il nostro cuore era pieno della sensazione d’aver fatto qualcosa di più di un semplice allenamento e d’aver vissuto una profonda esperienza interiore.


5.
Islanda: pernottamento presso la fattoria di Raudsdal (fiordi nord-occidentali)

Una casa isolata e, di fronte, l’oceano vasto e sconfinato, indistinto nell’azzurrina lontananza il profilo montuoso della grande penisola Snaefellsnes.
Il fronte del mare s’è ritratto con la bassa marea e ha lasciato scoperta una larga striscia di sabbia chiara su cui spiccano sparsi come un gregge di pecore grossi massi neri.
Il vento soffia incessante e fa piegare l’erba che ricopre il soffice pendio che si stende tra il mare e l’erta montagna di nera lava.
Due cavalieri spingono i loro cavallini al passo sulla striscia di sabbia lambita dalle onde.
Pecorelle bianche, nere, con il manto bicolore, rigorosamente a gruppetti di tre se ne stanno a pascolare, mentre altre si sono accosciate e ruminano beate.
Sulla strada asfaltata più in basso, là dove finisce il pendio erboso, ogni tanto passa un’auto: nei momenti di punta, se ne vedono sfrecciare al massimo sei in un ora, ma nelle prime ore del mattino e la sera tardi ne potrà passare una ogni mezzora.
La cittadina più vicina che possa dirsi tale è a più di un’ora di viaggio in auto. Attorno, non c’è niente se non la nuda natura, i campi d’erba battuti dal vento, i monti di neri detriti vulcanici erosi dalle intemperie..
L’unico suono è l’ululato del vento e il fruscio dell’erba smossa di continuo.
Davanti al tavolo dove sto scrivendo c’è una grande finestra che s’affaccia sul mare infinito in cui leggere onde, mentre la marea va salendo pian piano, si infrangono con creste di spuma bianca. Subito fuori dalla finestra battuta dal sole del tramonto che poi scenderà di poco sotto la linea dell’orizzonte per lasciare soltanto un lieve chiarore sino al suo nuovo sorgere appena poche ore dopo c’è un impiantito di legno con un tavolo e delle sedie per chi volesse godere del calore del sole, appena più in un là, un grosso barbecue corroso dalla ruggine, ma con segni di uso recente, e un prato delimitato da una bassa staccionata di legno che serve a chiudere la dimensione domestica rispetto all’infinito del cielo e del mare.
Chi sta seduto a questo tavolo può apprezzare cose essenziali: il colore del cielo e del mare, il soffiare del vento, la pacata inquietudine delle onde che si infrangono, il passaggio delle auto che evocano luoghi lontani, eppure familiari, perché qui su quest’isola – in fondo – non ci sono molti luoghi in cui andare.
La staccionata serve a racchiudere l’infinito rassicurante nelle giornate di sole, ma ancora di più deve avere una funzione consolatoria nei mesi invernali, quando per lungo tempo il sole sale al disopra della linea dell’orizzonte soltanto per poche ore e per la maggior parte del tempo di ogni giorno domina una semi-oscurità dai colori smorti e bigi. Forse per questo le pareti della stanza sono intonacate di un bianco abbagliante, proprio per restituire allo sguardo reso opaco dalla mancanza di colori un po’ di luce. D’inverno, la staccionata serve a racchiudere uno spazio magico che tiene a bada i fantasmi del buio e della notte.


6. Correre in Islanda: la leggerezza che ti dona il vento

Siamo su d’un lungo nastro d’asfalto, anche oggi in corsa…
La strada si dipana tra verdissimi campi per la foraggiatura ed il pascolo ed una lunga spiaggia nero-grigia, su cui si frangono leggere onde capricciose. In lontananza, si intravede il profilo azzurrino dei monti di una lunga penisola che oggi raggiungeremo con un ferry per risparmiarci un centinaio di chilometri lungo un’interminabile sterrato. Là, basse nubi contornano le cime, qua è sereno. Qui non c’è più una sola nube a differenza di ieri, là invece sembrano essersi raccolte tutte. Perché, non so. La capricciosità dei venti, forse, oppure su questo versante dei fiordi il clima è più asciutto, chi sa!
Il nastro d’asfalto scorre sotto i nostri piedi, sparse sui campi le solite pecorelle ingentiliscono il paesaggio e fuggono veloci al nostro passaggio, cercando di mantenere sempre una distanza di sicurezza di un centinaio di metri. Fedeli alla logica del branco, si danno anche il richiamo non appena ci vedono.
Alcune si spingono in basso verso il mare; una, apparentemente isolata, è scesa laggiù sino ad un piccolo promontorio di roccia nera e sembra starsene appoggiata alla scabra parete, un puntolino bianco a ridosso della scogliera nera…
Il vento soffia incessante: ci sarà mai un giorno qui senza venti? E’ difficile pensarlo: comunque, è certo che il vento accresce il senso di solitudine e di malinconia; con il suo soffio costante porta via i pensieri, li stordisce e li ottunde, a volte opprime il petto. Però, nello stesso tempo, dà l’idea che tutto è movimento, tutto scorre: forse, per questo a questo paesaggio e a questo clima si addice così bene la corsa. Accresce il senso di leggerezza e ci fa pensare di poter essere trascinati via dal vento.
(15.08.2007)


7.
In attesa della Glitnir Reykjavik Marathon

Già, a distanza di più di 15 giorni dall giorno della maratona si respira a Rejkyavik, capitale di una nazione con la vocazione di cittadina quieta, tranquilla e a misura d’uomo, l’avvento della maratona.
La città è tappezzata di grandi manifesti che raffigurano giovani uomini e donne in abbigliamento sportivo dai grandi piedoni sollevati intenti in un gesto che dovrebbe essere quello della corsa, ma che appare come una sua divertente parodia. I corridori sono ripresi con un grandangolo dal basso, una ripresa che fa diventare davvero enormi i piedi calzati in scarpette di corsa di cui viene ad essere in primo piano il battistrada. I corridori esprimono un’idea di gioiosità e spiccano dovunque sulle pareti di alcuni edifici pubblici in formato gigantografia, sulle paratie laterali degli autobus, sulle pareti laterali delle pensiline dei mezzi pubblici. Dopo che hai capito che si tratta di immagini promozionali della prossima maratona, non puoi più fare a meno di notarli…
La città non sembra particolarmente ansiosa di vedere lo svolgersi della maratona ma nemmeno ostentatamente respingente.
Intanto, in attesa del marathon-day chi è arrivato in terra d’Islanda con un certo anticipo non può che starsene a curiosare in giro e ad esplorare alcuni degli splendidi scenari naturali che questa immensa isola nordica offre al viaggiatore. Tra il 4 e il 6 Agosto hanno avuto luogo le celebrazioni del Ferragosto degli Islandesi, mentre alla fine della settimana successiva avrà luogo nell’arco di tre giorni la ben nota manifestazione del Gay-pride internazionale che ormai da alcuni anni si celebra qui in Islanda, mentre nello stesso giorno della maratona si svolge il festival nazionale dei saltimbanchi e dei teatranti da strada (busker) che attrae da ogni dove la popolazione dell'Islanda.
Questo è uno dei motivi per cui i maratoneti che arrivano da altre nazioni e che non hanno avuto l'accorgimento di prenotare con molto anticipo, hanno molte difficoltà a trovare un alloggio a prezzi convenienti.


8.
18 Agosto 2007
Glitnis Reykjavik international marathon


Nella fredda Islanda,
la Glitnis Reykjavik Marathon
ridente ed accattivante


Quella di Reykjavik è davvero una maratona internazionale dall’aspetto familiare ed accattivante.
Modesti i risultati delle due competitive maggiori da parte dei top runner, mentre è grande il successo di partecipazione. Tanti gli Italiani che l’hanno corsa.
Una certa preoccupazione ha pervaso l'attesa di questa maratona: un Italiano - nostro conoscente che aveva partecipato alla precedente edizione - nel raccomandarcela, ci aveva però detto: "Badate bene che è ventosissima! Avete mai corso una maratona disturbata dal continuo soffiare del vento? Ebbene, questa di Reykjavik è molto di più di qualsiasi maratona con vento abbiate mai sperimentato!!!"
In attesa del giorno della maratona, questa affermazione riecheggiava nelle nostre orecchie, trovando conferma nelle condizioni climatiche con cui ci dovevamo confrontare giorno dopo giorno...
Freddo? Sì, abbastanza per i nostri parametri: dai 12-13° nelle giornate migliori a 5°-6° in quelle più rigide...
Pioggia? Parecchia, a funestare soprattutto il viaggio nella parte orientale e nord dell'isola, fredda e fastidiosa, nella forma di quella sottile nebbia d'acqua che dalla mie parti veniva chiamata "azzuppaviddani" (ovvero “che inzuppa i panni del contadino”). E quando non pioveva, nubi basse e cupe che spesso chiudevano l'orizzonte e privavano del piacere di un raggio di sole e di uno squarcio d'azzurro.
Vento? Tantissimo, giorno per giorno, quasi incessante: soprattutto quest'ultimo rendeva la temperatura più difficile da sopportare. Man mano che si avvicinava il giorno della maratona, si costruiva forte e chiara l'aspettativa di dover correre una maratona funestata dal vento e da condizioni atmosferiche avverse.
Eppure (un autentico miracolo!), la mattina della maratona siamo stati "graziati" con il dono di un giorno straordinario sotto tutti i profili: cieli quasi del tutto liberi da nubi, temperatura mite (attestata al culmine della giornata attorno ai 16-17°), assenza pressoché totale del vento che rendeva particolarmente accattivante la visione del golfo di Reykjavik dove nel 874 DC approdò il primo colonizzatore “storico” dell'Islanda, Ingòlfur Arnaldson, seguendo la rotta tracciata dal cuscino del suo seggio che egli aveva buttato in mare abbandonandolo al capriccio dei venti e delle correnti, giurando che si sarebbe fermato per costruire la sua casa nel punto in cui si fosse arenato.
Insomma, dobbiamo ringraziare gli dei dell'Islanda (Odino, Thor e Freya in testa) se, in occasione di questa 24^ edizione della "Glitnis Reykjavik Marathon, c’è stato fatto dono di un giorno così speciale, particolarmente apprezzabile soprattutto per la calma di vento, dopo giorni di un soffiare incessante..
Le condizioni atmosferiche favorevoli hanno dato alla maratona un tocco di gentilezza e di gioiosità in più, dando modo soprattutto ai maratoneti provenienti da paesi di norma più caldi di apprezzarne tutte le bellezze.


La maratona si è snodata lungo un percorso cittadino decisamente “anomalo” rispetto ai nostri parametri “continentali” di abitatori di città affollate, affastellate e caotiche, poiché, il più delle volte, non aveva assolutamente l'aria di essere tale: e ciò per la natura stessa dell'edilizia abitativa e pubblica della capitale dell'Islanda, fatta di edifici bassi, distaccati l'uno dall'altro e intercalati da ampi spazi di verde; ma anche per la presenza quasi costante del mare, incombente con i suoi suoni e i suoi odori; infine, per il fatto che – in massima parte - il percorso era tracciato lungo una rete ampia ed articolata di piste ciclabili e camminamenti pedonali all'interno di parchi ariosi, abbellita dall’attraversamento di graziosi ponti di legno nei pressi di fiumicelli e piccole cascate gorgoglianti.
Lungo un percorso vitale e piacevole, movimentato e rallegrato dalla presenza di molti cittadini della capitale intenti in varie attività di svago all'aperto, di anziane coppie a passeggio, di intere famigliole in bici (qualcuno in pieno relax, disteso sui prati a godersi il sole) e da i numerosissimi i bimbi di tutte le età, perché sembra che l’Islanda non sia toccata dal calo demografico e dall’incombere del punto demografico di “crescita zero”, è capitato ai partecipanti di sperimentare una maratona tranquilla e gioiosa al tempo stesso, perfettamente integrata nel contesto, armonicamente accettata dalla popolazione e vissuta con quieta partecipazione.
Solo in alcuni punti ci si è ritrovati a percorrere le stesse strade per cui si era già passati prima, ma siccome il percorso seguiva traiettorie diverse, utilizzando "cammini" differenziati, della sovrapposizione (specie negli ultimi sette chilometri) non ci si accorgeva nemmeno, poiché la prospettiva da cui ci si ritrovava a guardare era diversa, ma era anche diversa la luce e - nei tratti in cui si costeggiava il mare - il ritrarsi della marea con la messa a nudo di floride distese di alghe multicolori e di scogli nerastri laddove prima vi era la distesa delle acque che rifletteva il cielo e le nuvole creava un cambiamento.
Il percorso della maratona è risultato vario anche per il continuo altalenare di piccole salite e discese: nelle note informative diffuse dall'organizzazione era specificato che, "essendo il dislivello altimetrico complessivo di soli 30 metri”, non si era ritenuto utile includere nella brochure illustrativa un profilo altimetrico della maratona. In realtà, il percorso ondulato, con i numerosissimi cambi di pendenza e le frequenti piccole colline da scalare, indurrebbero a pensare chi ne ha fatto esperienza ad un dislivello altimetrico complessivo positivo decisamente superiore... Forse i 30 metri menzionati rappresentano soltanto la differenza di altimetria tra il punto più alto e quello più basso del percorso. Ovviamente, nel fare queste affermazioni, procedo a lume di naso: ma, in ogni caso, se imprecisione c'è stata, questa svista agli organizzatori gliela possiamo tranquillamente perdonare....: si tratta di un'inezia, una minuzzaglia, rispetto alla piacevolezza dell'insieme di questa maratona...
Peraltro, il percorso era davvero ben segnato, con strisce di plastica di un bel giallo vivo incollate sull’asfalto che – nei punti critici – creavano una sorta di sbarramento virtuale verso le strade laterali. I cambi di rotta erano egualmente ben segnalati e frequentemente presidiati da addetti che, sempre con gentilezza e con il sorriso sulle labbra, davano indicazioni sulla strada da seguire. Perfino nelle zone più deserte, come ad esempio durante l’attraversamento della nuova zona portuale, era praticamente impossibile sbagliarsi.
La movimentazione di podisti è stata ampia.
Per la sola maratona, oltre 500 sono stati i partenti (e quasi tutti – 501 - classificati al traguardo finale) di cui circa 50 quelli partiti alle 8.00 con un 1h 10’ di anticipo rispetto allo start ufficiale, avendo dichiarato all’atto dell’iscrizione un tempo stimato di percorrenza dell’intera distanza tra le 5 e le 7 ore: davvero un’ottima iniziativa che ha consentito ai podisti più lenti di partecipare con relativa tranquillità senza essere confinati alla coda della corsa con tutti quegli inconvenienti che ne conseguono sia a loro stessi sia all’organizzazione. Una misura davvero lodevole, pratica e pragmatica insieme che, consentendo certamente uno snellimento nell’impianto della gara, i nostri organizzatori potrebbero prendere ad esempio.
Un notevole impulso nell’incremento delle iscrizioni in questa edizione del 2007 è stato dato dal prendere piede, anche in questa maratona (a somiglianza di altre più affermate come la Maratona di Londra) dell’abitudine di correre la gara in nome di organizzazioni caritatevoli – le cosiddette Charities – con il fine di raccogliere fondi a loro favore. Tuttavia, considerando che nell’evento podistico convergevano ben cinque diverse gare (oltre alla maratona, una mezza maratona, una competitiva di 10 km, una non competitiva di 3 km e la garetta per i più piccini - nata solo nel 2006 - su di un circuito all’interno di un parco cittadino), la movimentazione di persone coinvolte è stata davvero notevole: la notizia ufficiale fornita dall’organizzazione parla di un totale di 11.300 individui presenti nel corso dell’intera manifestazione e a diverso titolo coinvolti in uno dei diversi eventi sportivi..
Ospitalità: davvero grande ed evidente anche in piccole attenzioni e cortesie per gli ospiti. Oltre al pasta party in cui il cibo non è stato lesinato a nessuno degli accompagnatori ed in cui il momento “istituzionale” s’è tramutato in una bella festa, vi è stata l’opportunità per tutti gli iscritti di frequentare gratuitamente (sia alla vigilia sia nel giorno della maratona) tutti gli impianti dotati di piscina in Reykjavik ma anche a random sono stati offerti vari doni ai podisti che via via tagliavano il traguardo della maratona (borse sportive Asics, libri fotografici sull’Islanda)…
Cos’altro si può aggiungere?
Si è avuta l’impressione che la maratona di Reykjavik sia in continua e costante crescita, anche se a piccoli passi: ma è così che procedono le cose in Islanda. Gli Islandesi non vogliono le cose eclatanti e, di gran lunga, preferiscono quelle che si svolgono in maniera sommessa, delicata, quasi in punta di piedi. Tantissime sono state le presenze straniere sia dai diversi paesi dell’Europa, i confratelli paesi scandinavi e il Regno Unito in testa, vista la vicinanza e la facilità nei trasporti, ma anche molti i Canadesi (tra cui una nutrita squadra di podisti appartenenti ad un’associazione di diabetici) per i quali l’Islanda è – per così dire – proprio ad un tiro di schioppo; e, d’altronde, non fu un Islandese, il mitico Leifur Heirikson, il primo colonizzatore europeo a giungere nel Nord America, nell’antica Vinland (l’odierna Terranova)?
Il numero dei partecipanti alla maratona aumenta ogni anno con regolarità, come ogni anno si incrementa il numero dei visitatori dell’Islanda che, nel 2006 ha visto oltre 440.000 presenze. Afferma il Sindaco di Reykjavik, Vihjálmur þ. Vihjálmsson: “Il numero dei runner che partecipano è aumentato ogni anno. Ciò significa che la maratona di Reykjavik oggi non soltanto un importante evento in calendario per la città, ma anche un momento importante di pubblicità e di marketing di Reykjavik all’estero.
La maratona di Reykjavik è sia per i residenti sia per i visitatori il modo migliore per acquisire una buona conoscenza delle vie e delle strade pedonali della città.”
Ma non solo la maratona di Reykjavik l’evento clou della giornata: in concomitanza, prendendo le mosse sin dal mattino, si svolge un grande evento-happening, detto la “Notte culturale” che è caratterizzata da un fitto susseguirsi di spettacoli artistici, mostre, recital e spettacolazioni da strada lungo le vie e nelle piazze principali della città che attraggono gli Islandesi da ogni parte dell’isola, tanto che è impresa ben ardua trovare qui a Reykjavik un alloggio per questi tre giorni se non lo si è fatto con largo anticipo.
Prosegue il Sindaco: “Tenere la maratona nello stesso giorno della ‘Cultural night’ è stata un’iniziativa di grande successo che ha creato una simpatica mescolanza di esercizio fisico e di cultura. Dopo aver completato la gara podistica, le migliaia di partecipanti possono passeggiare indolentemente per il centro della città e godere dei numerosi eventi culturali e degli happening che vi si svolgono a rotazione continua sino a tarda notte”.
In effetti è stato proprio così: al termine della maratona, confortati da una bella doccia bollente, è possibile ritornare in strada, adesso gremita di cittadini, di bimbi festanti, di turisti e fermarsi ad osservare i clown, i mangiatori di fuoco, i venditori di palloncini colorati dalle più diverse fogge, i musicanti improvvisati ma abilissimi, oppure entrare in uno dei tanti edifici pubblici per soffermarsi ad ascoltare le performance di big band jazzistiche, oppure ancora ammirare una danzatrice del ventre esibirsi con l’accompagnamento di una banda di percussionisti, con l’intercalare di coloratissime bancarelle (molto mediterranee che vengono dolciumi, cibarie, bibite varie). Osservando le spettacolazioni “di strada” e, al contempo, la pittoresca movi
mentazione della folla variopinta e festosa, si è sorpresi dalla quantità di bimbi che sono portati in giro dai genitori. Alla fine, a notte tarda (ma è ancora possibile osservare un barlume di luce nel cielo, laddove per poche ore soltanto il sole si è tuffato sotto l’orizzonte), sono esplosi i giochi pirotecnici con il contorno di fragorosi botti, degna conclusione d’una giornata così turbinosa ed eccitante, che ha visto il pieno coinvolgimento della popolazione locale. Il giorno successivo dopo la piena immersione nel mondo dello sport e dell’atmosfera festosa, molti dei runner, partendo da una città ancora addormentata ed insonnolita, dalle vie quasi deserte e di nuovo piovigginose dopo il fulgore del giorno della maratona, si sono diretti verso le piscine termali di Blue Lagoon, situate al centro delle brughiere laviche e lunari della parte meridionale della penisola di Rejkyanes, per vivere l’esperienza unica dei un lungo bagno rilassante nelle acque riscaldate dai vapori che fuoriescono copiosi dal sottosuolo.
Se si vuole fuggire via dalla pazza folla, se si amano i luoghi spettacolari dal punto di vista naturalistico, se si nutre una forte predilezione per le cose che si svolgono sommessamente e con gentilezza, la maratona di Reykjavik non deluderà le attese e soprattutto potrà rivelarsi una bella occasione per avventurarsi in un indimenticabile ed affascinante viaggio.
Un consiglio rivolto a tutti quelli che volessero partecipare a questa maratona è quello di considerare la maratona puramente “incidentale” e di pianificate piuttosto il viaggio con l’idea di andare alla scoperta di un paese capace di offrire intense emozioni a chi ama i paesaggi incontaminati e luoghi semi-desertici dal fascino selvaggio, ricordandosi alla partenza di provare a rileggere il famoso “Viaggio al centro della terra” in cui gli avventurosi esploratori capitanati dal bizzarro ed intraprendente professor Otto Lidenbrock si recano in Islanda seguendo le indicazioni di un’antica iscrizione runica in cui si danno indicazioni di un viaggio d’esplorazione nelle cavità della terra compiuto dall’islandese Arne Saknussemm, scienziato alchimista del XVI secolo, che nel suo viaggio ebbe accesso all’affascinante mondo sotterraneo in corrispondenza di uno dei crateri spenti dello Sneffelsjokull (nome che tuttora possiede una forte risonanza mitica nella mente di coloro che da adolescenti assorbivano con passione le storie di Verne). La parte iniziale del romanzo offre una lettura densa di suggestioni perché vi viene descritto il lungo viaggio per mare verso l’Islanda, rappresentata come un paese selvaggio ed inaccessibile e poi l’avventuroso attraversamento a cavallo delle lande desolate per giungere da Reykjavik all’estremità della penisola di Snefells.
Come in molti dei romanzi di Jules Verne in cui l’intreccio avventuroso era l’occasione per fornire informazioni e conoscenze sulla geografia dei luoghi e fare divulgazione sulle più scoperte scientifiche che in quel periodo si susseguivano con rapidità (dando l’idea di un progresso inarrestabile e senza limiti), anche qui non manca l’accurata (e gustosa) la descrizione della capitale dell’Islanda (da leggere anche per verificare quante cose siano cambiate in una cittadina che viene descritta come un semplice agglomerato di basse case di legno dalle facciate dipinte a vivaci colori, pur essendo rimasto intatto lo scenario selvaggio ed incontaminato che contorna la città) e lo spostamento con mezzi di fortuna per raggiungere la penisola di Snefells.
Fare un viaggio di durata congrua, spinti dal desiderio di conoscere ed esplorare e motivati dal pensiero che non capiterà tanto facilmente di tornare in questi luoghi una seconda volta, implicherebbe la rinuncia preventiva all’ habitus mentale di quella tipologia di maratoneta che si muove per partecipare alla gara podistica con lo stile “mordi e fuggi”: il suggerimento è piuttosto quello di “perdersi” nel viaggio e lasciare che la partecipazione alla maratona rimanga un evento puramente marginale, ma ciò nondimeno godibile. D’altra parte, la distanza da coprire per guadagnare l’Islanda e i costi da coprire, suggerirebbero di prolungare il più possibile la permanenza in Islanda. È chiaro che gli incorreggibili maratone, “quelli che siamo qui soltanto per correre…” sono degli ossi duri da convincere: ma gli stakanovisti “puri” della maratona, maratona, maratona sono sempre di meno, mentre crescono quelli che vedono nella maratona l’occasione e lo stimolo per compiere esperienze di vita e di viaggio…


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