mercoledì 30 giugno 2010

La gioia dell'arrivo e la generosità di un abbraccio


A volte, un'immagine da sola è sufficiente a raccontare tutta una storia. Nell'ultima edizione della 100 km del Passatore Francesco Caroni ha lottato per il secondo posto contro il russo Dmitry Tsyganov, esordiente in questa gara.
Negli ultimi chilometri tra i due vi è stata una continua scaramuccia. Assalti di Caroni, subito rintuzzati dal russo, sinchè - saggiamente, ormai quasi a ridosso del traguardo - Caroni ha ceduto, accettando la terza posizione.

Il russo, arrivato al traguardo di Piazza del Popolo di Faenza, precedendo Francesco Caroni di stretta misura, benchè provato, lo ha atteso sulla porta d'arrivo per stringerlo in un forte, irruento e caloroso abbraccio.
Nessuna arroganza da vincitore, nè rammarico per essere secondo sul podio.
Tsyganov, nella mimica e nella gestualità, manifestava la sua felicità in modo proprompente: felice di essere secondo dietro al grande Calcaterra per cinque volte consecutive vincitore della 100 del Passatore (una gara che - tra l'altro - è pressocchè mitica tra i Russi, un vero e proprio battesimo del fuoco sulla distanza), felice di avere combattuto lealmente contro Francesco Caroni e, alla fine di averla spuntata.
Ma, nello stesso tempo, lieto di condividere questo stato d'animo con i suoi più diretti avversari ed entusiasta dell'esperienza appena compiuta.

L'abbraccio con Caroni rappresenta tutto questo e trasmette un insegnamento oggi sempre più raro da ritrovare.

Nell'abbraccio si annulla la differenza tra vincitore e vinto, perchè tutti si è vincitori se si è arrivati sino al traguardo finale, avendo lottato "sino all'ultimo fiato", ma lealmente e con generosità.
E' stato bello che all'esemplare manifestazione di solidarietà sportiva fossero presenti un pubblico così fitto e, soprattutto, tanti adolescenti.


martedì 29 giugno 2010

Stato di paura di Michael Crichton: la scienza politicizzata è una cattiva maestra


Michael Crichton, purtroppo di recente scomparso, è stato un grande divulgatore di tematiche scientifiche, ma soprattutto ha cercato di ristabilre - attraverso i suoi romanzi "tematici" - delle verità che andassero oltre le pseudo-verità della scienza divulgata, digerita e riproposta dai mass media, con la perpetuazione e la sempre maggiore amplificazione di alcuni errori di base.

In effetti, tutti i suoi romanzi sono costruiti come dei veri e propri dossier, nel senso che - sempre, a monte del romanzo di turno - vi è stato un accurato lavoro di ricerca " critica" delle fonti bibliografiche che Crichton puntualmente inserisce in appendice in ogni sua opera, in modo tale che ogni lettore curioso possa - se lo vuole - consultare le sue stesse fonti.

In "Stato di paura", dopo il romanzo sul rischio di utilizzo delle "nanoparticelle" in cui illustra anche il cosiddetto "principio di precauzione", lo sforzo di Crichton raggiunge - secondo me - uno dei suoi culmini.

La tematica che egli prende in considerazione è quella dell'emergenza climatologica, nel cui contesto egli - alla luce di una precisa documentazione - attacca l'ipotesi del riscaldamento globale derivante dall'immissione di CO2 nell'atmosfera e, di conseguenza, demolisce in un sol colpo l'attendibilità del "Protocollo di Kyoto" e le più comuni e divulgate tesi ambientaliste che diventano niente più che luoghi comuni espressione di una verità distorta e non controllata.

Ciò che egli più evidenzia, attraverso l'intrigo in cui sono immessi i suoi personaggi e con il continuo confronto tra verità e pseudo-scienza di cui essi diventano protagonisti, è il pericolo - non nuovo - insito nel fitto intreccio di connivenze tra scienza e politica che ha dato nel passato lontano e più recenti alcuni frutti tristi e mortiferi (basti pensare alle tesi scientifiche sull'eugenetica, nate negli Stati Uniti degli anni '30 e che ebbero insigni sostenitori tra gli scienzati del tempo, sino a tracimare nella Germania nazista e nei suoi suoi cupi esperimenti). Afferma Crichton che quando si impongono simili intrecci e quando attorno ad essi cominciano a ruotare consenso e denaro il gioco è fatto e si organizzerà un edificio di menzogne (con l'ausilio dei mass-media) sempre più difficile da smontare e i cui interessi verranno tutelati anche con la violenza e con il ricorso ad azioni eco-terroristice, volte a provocare proprio gli effetti catastrofici paventati per suscitare ulteriore consenso o corroborare le opinioni dei supporter.

Il volume, corredato da alcune appendici tematiche e da una bibliografia ragionata (con riferimenti a testi che corroborano le tesi di Crichton, ma ad altri che sono paradigmatici della "cattiva" scienza politicizzata) è assolutamente da leggere per chi intenda documentarsi sull'argomento, ma in modo assolutamente godibile.

Benchè il romanzo sia stato pubblicato nel 2004 in lingua originale e tradotto in italiano nel 2005 non è per nulla datato e mantiene a tutt'oggi una grande attualità.

Questa in sintesi la storia.

Il miliardario e filantropo George Morton scompare in circostanze misteriose. Negli ultimi tempi Morton, grande finanziatore della causa ecologista (e primo donatore del NERF, un'importante organizzazione ambientalista), aveva cominciato a manifestare qualche dubbio sugli allarmi lanciati dagli scienziati. E aveva iniziato a sospettare del boss del NERF, Drake. Anche il giovane Peter Evans, avvocato di Morton e sincero ambientalista, inizia ad avere qualche dubbio. Si avvicina dunque a John Kenner, uno scienziato eccentrico e geniale di cui Morton pareva fidarsi. Kenner e i suoi soci, un team assai bene assortito, si mettono sulle tracce di un pericoloso gruppo ecoterrorista, viaggiando ai quattro angoli del pianeta.

Michael Crichton: una nota bio-bibliografica
Figlio di John Henderson Crichton e Zula Miller, Crichton è cresciuto nel quartiere di Roslyn, a Long Island. Crichton aveva due sorelle, Kimberly e Catherine, e un giovane fratello, Douglas, co-autore di uno dei suoi libri.
Ha studiato alla Harvard University di Cambridge, Massachusetts, dove si è diplomato nel 1964. Si è laureato alla Harvard Medical School nel 1969 in Medicina e Chirurgia e ha iniziato le lezioni per diventare medico al Salk Institute for Biological Studies di La Jolla, California, negli anni 1969–1970.
Durante questi anni ha scritto alcuni racconti con gli pseudonimi John Lange e Jeffrey Hudson, scelti in riferimento alla sua altezza (2.06 m): infatti Lange in tedesco significa "persona alta" e Jeffrey Hudson fu il nano preferito della regina Enrichetta Maria di Francia nel Settecento. Crichton divenne medico, ma ben presto ha abbandonato la carriera non trovando il lavoro adatto alla sua persona e sentendosi a disagio. A 25 anni gli venne diagnosticata una forma benigna di sclerosi multipla, come racconta nella sua autobiografia Viaggi.
Abbandonata la medicina ha continuato a scrivere romanzi. Grazie ai soldi ottenuti dalla vendita dei primi libri, tra cui spicca il best seller Andromeda a soli 27 anni, è riuscito a realizzare il suo più grande sogno: viaggiare. Crichton ha visitato gli angoli più remoti del pianeta ottenendo ispirazione, da questi itinerari, per le trame dei futuri successi letterari.
Si è sposato ed ha divorziato quattro volte; è stato sposato con Suzanna Childs, Joan Radam, Kathy St. Johns, Anne-Marie Martin, madre della figlia Taylor, ed infine Sherri Alexander. È morto il 4 novembre 2008 all'età di 66 anni, dopo una lunga battaglia contro un tumore. Crichton stava lavorando al quarto episodio della serie Jurassic Park, oltre ad aver in programma la scrittura della sceneggiatura del film Westworld.

giovedì 24 giugno 2010

Felicità è correre in solitudine nella natura


Dune e vento
Sole e onde
Nuvole veleggianti
Rondini volteggiano
gabbiani planano

Piccole particelle di mica
brillano come scaglie d'oro
nel manto di sabbia

Nella notte serpenti
son passati strisciando
lasciando delle tracce sinuose

Uccelli della macchia
hanno becchettato qua e là
e si vedono ancora le loro impronte,
non ancora cancellate,
mescolarsi a quelle rettiliane

La gariga è intorno a me
con il suo silenzio pulsante:
canne, lecci bassi,
ogliastri contorti, arbusti aromatici

Sentiero di terra morbida
umido sotto i piedi scalzi
dov'è la crescita rigogliosa del canneto

Ronzio di insetti
che volano nell'aria

Fogliame vibrante nel vento

Sterco di cavallo sparso qua e là,
ormai ridotto allo stato primigenio
di paglia secca e polvere

Ma sto attento eguale a non calpestarlo
timoroso delle spore del tetano

La percezione del ritmo cadenzato dei passi,
è come un metronomo interiorizzato

Sudore che cola dalla fronte
e tra le scapole

Non un anima viva attorno

Potrei essere il primo uomo creato

E ringrazio di poter vivere nella solitudine
questo momento di inebriante felicità

Via dal clamore,
via dalla pazza folla

mercoledì 16 giugno 2010

Cuoricini abbandonati


Oggi ho trovato due cuoricini abbandonati sulla strada.
Fortunamente non erano spezzati.
Uno era di metallo, simil-bronzeo, con delle decorazioni a sbalzo sulla superficie, cavo all'interno.
L'altro, di plastica, rosso, anche lui cavo.
Del resto, il cuore, oltre ad essere considerato la sede dei sentimenti, è anche - per definizione - un organo cavo...
Questi due cuoricini si aggiungono a quello che avevo trovato alcuni giorni fa, in metallo, ma quest'ultimo bi-dimensionale e recante la scritta ben augurale "Good luck".
Adesso sono tre i cuoricini trovati in un breve arco di tempo, di cui due in un sol colpo, in pratica.
Tre: un numero perfettto. Tanto perfetto che, per trascinamento, mi ha indotto a mettere tre ti in "perfetto"...
Qualcosa questo vorrà pur dire.
Ma, al di là di questa generica formulazione, non saprei dire cosa...
Rimango aperto a tutte le ipotesi...

La dignità dell'uomo, malgrado tutto: la storia dei Sem Terra nelle immagini di Salgado, a Palermo


Mercoledì 9 giugno,è stata inaugurata la bella mostra fotografica "TERRA", che raccoglie 21 foto di Sebastiao Salgado, fotoreporter brasiliano, nonchè uno dei più apprezzati fotografi nel panorama mondiale contemporaneo.
Salgado, ormai da tempo, lavora per grandi tematiche che spesso hanno una forte rilevanza sociale. Una volta identificato il tema, lo sviluppa e lo sviscera, attivando una fitta rete di scambi con ciò che diventa oggetto della sua attenzione fotografica.
Il suo approccio alla fotografia è rivelatore, peraltro, del suo originario indirizzo di studi, dal momento che, prima di dedicarsi alla fotografia, aveva lavorato come economista.
Salgado statuisce con forza che, prima della fotografia, esiste la relazione con altri esseri umani e con l'ambiente in cui essi vivono e che, pertanto, non vi può essere fotografia valida, se distaccata dalla dinamica d'una relazione intensa e forte, fondamentalmente di rispetto, nei confronti dell'altro da sé.
Senza questa forma di profondo e commosso rispetto la fotografia rischierebbe di diventare un'attività di puro e semplice voyeurismo, deputata a "rubare" l'anima altrui, destituendola di senso e verità.
Proprio per questo egli sostiene di aver sempre rifiutato l'etichetta di essere fotografo di "desperados", di gente disperata e sull'orlo del collasso psico-fisico. No, egli ribatte di essere fotografo di esseri umani che vivono momenti di grandi difficoltà e che, ciò nonostante, mantengono una serena dignità, cercando - con forza e determinazione - di conquistare per sè rispetto e accettazione e, soprattutto, dignità attraverso il lavoro.
In questo senso, sono profondamente eloquenti i suoi ritratti, alcuni dei quali visibili appunto nella mostra "Terra"

Le 21 immagini in bianco e nero sono dense e vibranti di emozioni. Appartengono ad un serie tematica di 45 immagini che ha già girato il mondo per raccontare la vita nomade dei Senza Terra (Sem Terra) del Brasile che hanno iniziato una lotta per poter prender prendere possesso delle terre abbandonate dei latifondisti brasiliani che, pur non utilizzandole, vogliono mantenerne il possesso e che, nel corso del tempo, si sono aggregati sino a costiutire un movimento politico (STM - Sem Terra Movimiendo), nato in Brasile nei primi anni '80
Le foto di Salgado sono un omaggio all'uomo e alla sua dignità che rimane intatta, come suo unico e immenso patrimonio, anche nelle condizioni più disperate e difficili.
Ma vi è anche l'omaggio alla terra come luogo delle radici e della costruzione dell'identità dell'uomo che vi abita. Un viaggio intenso attraverso "... la TERRA amica dell'uomo, TERRA che diventa nemica quando accaparramento e speculazione la spogliano della sua funzione sociale" (S. Salgado).

La serata di inaugurazione della mostra è stata allietata dall’intrattenimento musicale dal vivo del Duo jazz El Cafè Guestivo composto da Carla Restivo al sassofono e Federico Gueci al contrabbasso e dalla lettura di poesie e brevi racconti interpretati dall’attrice Clelia Cucco.

La mostra, promossa dalla Galleria d'Arte Garage di Palermo e organizzata dall'Associazione culturale Vie d'Arte, sarà visitabile fino al 19 giugno, presso il Wall Street Institute, a Palermo.

Sebastiao Salgado è nto in Brasile nel 1943. Sino al 1973, ha lavorato come economista. Nello stesso anno, durante un viaggio in Africa, nacque in lui la passione per la fotografia che lo indusse ha cambiare del tutto il suo orientamento lavorativo. La sua fotografia si distingue per un'impalcatura ideologica di denuncia sociale e per il suo intenso realismo.
Il suo strumento di lavoro è una macchino fotografica tradizionale (una Leica) con pellicole in bianco e nero. La macchina fotografica con il tipo di ottica che utilizza gli consente di realizzare foto particolarmente nitide che poi tratta in sede in stampa, trattandole manualmente con un sbiancante per ammorbidire i toni ed attenuare i contrasti troppo intensi. Ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti internazionali.

martedì 15 giugno 2010

Wim Wenders e il senso della fotografia come antidoto all'incombere della morte


Mi piace molto Wim Wenders. Ho amato - e amo - la maggior parte dei suoi film.
Del tutto casualmente ho scoperto il suo "Palermo shooting" che, del resto, è un film nato quasi per caso, quando uno di Palermo, con agganci nell'amministrazione comunale ebbe l'idea di invitare Wim Wenders perchè facesse un film ambientato a Palermo.
Incredibilmente, Wim Wenders accettò la proposta, fluidamente, e in men che non si dica fu a Palermo con la sua troupe.
In un tempo relativamente breve realizzò la maggior parte del materiale.
Inizialmente, il film fu poco strutturato.
Soltanto dopo, venne realizzata una traccia, una storia. Germoglio un'idea.
Come spiega lo stesso Wenders in 'intervista contenuta nel libro che correda il DVD, fu la città, il luogo, a raccontare la sua storia e a condurre il regista nello sviluppo della trama.
Come del resto era già accaduto per altri film apprezzati, come era stato il caso di Lisbon story, per fare un esempio.
Questa è la trama

Finn è un fotografo di successo. La sua vita è un flusso ininterrotto di azioni: telefonate, lavoro, musica nelle orecchie, viaggi. Finn dorme pochissimo, il suo sonno è abitato da incubi. Il suo animo è torturato: scegliere ciò che davvero preme, scegliere cioè l'arte o proseguire nella lucrativa carriera della fotografia di moda? Finché una sera la morte si presenta sotto forma di un incidente d'auto, a cui il protagonista sfugge per miracolo. L'incontro sfiorato con la morte cambia la sua vita. Con la scusa di un servizio fotografico da realizzare a Palermo, Finn parte. Ciò che vuole veramente è ricominciare da zero, riavviare la sua vita come si fa con un computer bloccato. Finn si sente inseguito dalla morte, che gli appare in un personaggio misterioso sempre accanto a lui, quasi che l'appuntamento con la Fine fosse stato soltanto rimandato. Sarà l'incontro con Flavia, restauratrice impegnata a recuperare un grande affresco raffigurante il trionfo della Morte, a richiamare Finn verso la vita.

Il DVD è disponibile in commercio assieme ad un libro, intitolato "Gli spazi di un'immagine" (a cura di Frank J. Martucci), con scritti di Wim Wenders, un'intervista al regista di Bruno Di Marino, note biografice, filmografia e contributi critici. Il libro offre delle interessanti chiavi di lettura sulla poetica di Wim Wenders e sul suo particolare rapporto con i luoghi.

Nel film, ci sono tanti temi che si intrecciano inestricabilmente: la crisi esistenziale di Finn, l'impossibilità per lui di dormire e il fatto di essere visitato da improvvisi accessi di sonno nei luoghi più impensati che lo fanno affacciare su inquietanti squarci onirici che ripropongono in modo distorto e amplificato segmenti della realtà che ha appena vissuto. Ma c'è anche una riflessione profonda sulla morte e sul senso del vivere, oltre che sullo scorrere del tempo e sulla variabilità della durata in funzione di componenti soggettive; e l'interrogarsi sulla funzione del fotografo (e del cineasta) come colui che cattura la realtà con l'obietttivo della sua macchina fotografica (o da presa), ma che - così facendo - la interpreta e la reinventa (o in alcuni la manipola), combattendo allo stesso tempo proprio con il suo furor fotographandi l'effimero, il seme insidioso della putrefazione, il decadimento e l'avanzare inarrestabile della morte.
E', per l'appunto, intensa la meditazione sul tema della morte, davanti al grande e potente affresco su "Il trionfo della morte", conservato all'interno di Palazzo Abbatellis di Palermo.
Come pure è un'autentica gemma il breve colloquio con Letizia Battaglia, la grande fotografa di Palermo che ha insegnato a generazioni di giovani fotografi a gestire il difficile rapporto con la rappresentazione fotografica instantanea dei fatti di cronaca cruenti che esprimono ancora una volta il rapporto del fotografo con la morte e con il morire.

Soprattutto, è la città di Palermo a far da protagonista di questa storia "non storia", Palermo con una serie di scorci inediti del centro storico, angoli nascosti, portoni fatiscenti, dietro i quali si aprono prospettive insolite e visooni che inducono meraviglia, il porto di Palermo, ma anche Monte Pellegrino sulla cui cima più si erge una surreale foresta di tralicci e ripetitori che nessuna associazione ambientalista è riuscita a far rimuovere e che, malgrado tutto, posseggono un loro intrinseco fascino post-moderno.
Io non sapevo nulla di questo film.
Non era entrato nel circuito delle grandi sale cinematografiche. Forse a veva fatto un transito veloce in qualche cinema d'essai. L'ho scoperto casualmente in libreria nella versione libro+DVD, èper i tipi di Feltrinelli.
Palermo shooting non a tutti i Palermitani è piaciuti. Alcuni - secondo me - con molto snobismo intellettuale hanno detto che è un'autentica schifezza.
Secondo me costoro sono troppo impigliati in una forma di palermitanità asfittica ed imbrigliante, aggravata dalla boria di voler affermare che solo un Palermitano può avventurarsi a parlare di Palermo e della sua complessità o di raccontarla per immagini.
Io, personalmente, mi ribello di fronte a questo modo di vedere le cose.
Per rendersene conto, basterebbe andare a vagabondare in giro per le vie di Palermo, armati di macchina fotografica e abbandonarsi ad uno sguardo che vada oltre le cose e che sappia cogliere scorci/istanti unici ed irripetibili.
Passaggi, direi.
E chi si avventurasse a far ciò, abbandonando sterili rigidità intellettualistiche, avrebbe anche la sorpresa di scoprire molti dei posti che sono entrati con grande fascino e vigore nella narrazione cinematografica di Wim Wenders.

sabato 12 giugno 2010

Nelle città i muri parlano, i muri raccontano


Da tempo giro per le strade della città armato di macchina fotografica, alla ricerca di nuovi graffiti da catturare con il mio obiettivo.
E' una cosa che, nel corso degli anni, ho sempre fatto.
Prima, parlo di più di vent'anni fa, era più facile trovare delle scritte di contenuto vario, alcune spiritose e dissacranti, altre di taglio politico (all'insegna dell'estremismo e dell'intolleranza) altre ancora partorite dalle tifoserie calcistiche.
Pochissimi invece erano i murales in senso stretto, disegni policromi oppure scritte policrome oppure una combinazione delle due forme espressive.
Solo alcuni i muri prescelti per queste forme di "writing" espressive, in alcuni luoghi cittadini ben identificabili, spesso in vie della città poco frequentate e delimitate da lunghi muri.
In uno di questi luoghi comparve ad un certo punto la scritta: “Prima su questo muro scrivevo soltanto io, poi il diluvio di cazzate” in cui l'anonimo autore evidentemente si rammaricava del fatto di aver perso la possibilità dell'esclusivo utilizzo di quella superficie di muro con la comparsa di una quantità di neofiti-imitatori.
Ancora prima, quando andavo al Liceo (anni sessanta, ma prima del fatidico '68 che è l'anno cardine per la liberazione d’ogni forma di espressione creativa nel tessuto metropolitano: si può ricordare il famoso slogan utilizzato per ricordare il Maggio francese, Les murs ont parlé), per anni un'unica scritta campeggiava a grandi lettere nere sul muro del palazzo condominiale di fronte al glorioso liceo "Garibaldi".
Diceva: “Robert B**** è cacca”. Questa apodittica frase rimase a campeggiare lì per anni, per eclissarsi soltanto quando la facciata dell'edificio venne ritinteggiata. Ogni volta che mi capitava di leggerla (e ciò accadeva ogni giorno all'entrata e all'uscita da scuola), non potevo fare a meno di pensare al povero Robert B**** di palermitano lignaggio, definitivamente consegnato con questo ignobile epiteto alla memoria dei posteri: tra l'altro con una "nobile" accettazione di esso. Per quanto immaginassi che, nottetempo, il per me altrimenti sconosciuto Robert B***** si recasse sul posto armato di vernice e di pennello per cancellare l'ingiuria o, eventualmente, edulcorarla con un’opportuna modificazione delle sue lettere (ma come? attraverso quali abilità retoriche?), ciò non avvenne mai: tanto da indurmi a pensare che il nostro fosse una persona di eccezionale pazienza, un santo forse. Dopo la ritinteggiatura dello stabile, l'intonaco resistette pulito solo per poco e venne presto ricoperto da una selva di caotici graffiti, sigle e sgorbi senza senso. Ma già da tempo avevo smesso di frequentare il liceo.
Ma forse fu proprio la diuturna osservazione di questo perentorio messaggio e le sue successive modifiche a indurmi a manifestare sempre una curiosità nei confronti dei graffiti e, secondo la terminologia "onnicomprensiva" che ha preso piede ai nostri giorni del cosiddetto writing metropolitano.
Il writing metropolitano è una cosa viva: si evolve, trasformandosi, attraverso i contributi successivi di diversi scrittori; oppure scompare per poi riapparire sulla stessa superficie, come ombra appena dissimulata da una mano d'intonaco. Quindi, attraverso le sue successive metamorfosi racconta delle storie: storie che possono assumere un interesse se ci si sforza di interrogare le figure, le lettere e le sigle che si affastellano sulle superfici libere.
Per esempio: nei pressi di una chiesa di Palermo, zona dei quartieri residenziali, una mano ignota ha scritto “Il papa è gay” che, evidentemente, deve essere parsa di contenuto un po' troppo blasfemo e dissacrante ( e poi, proprio di fronte ad una chiesa...), tanto che di lì a poco la frase ha subito una metamorfosi in “Il parà è gay” (in corner salvato il papa, ma colpito e affondato il parà, con la trasformazione di quello che era un vago orientamento anti-clericale in sberleffo anti-militarista). Quando mi sono accorto della abile metamorfosi del messaggio, ho immaginato che fosse stato lo stesso parroco a scivolare silenzioso dalla canonica a notte fonda (perfettamente mimetizzato nella sua tonaca nera nel nero della notte) a eseguire l'opera di trasformazione, una sorta di benefico Macchia Nera di disneyana memoria. Poi, dopo qualche tempo ancora, il muro dell'edificio è stato intonacato di bianco, con la cancellazione della metamorfica scritta.
Le trasformazioni di questo tipo, tuttavia, anche quando sono realizzate con intendimenti correttivi, finiscono con l'avere, in chi guarda - fruisce del messaggio -, un effetto involontariamente comico (o grottesco, a seconda delle circostanze). S’immagini l'effetto quando, nel graffitismo vi è una precisa volontà dissacrante e di sberleffo: un bizzarro personaggio che ho avuto modo di conoscere in gioventù, lavorando abilmente di pennello, aveva modificato per scherzo il nome di una via nei pressi della via in cui abitavo allora (una via Bainsizza trasformata in via Sasizza). Guarda caso, questa via correva accanto al muro perimetrale di una parrocchia: poco dopo il corretto nome della via era stato ripristinato. Non dandosi per vinto, il tizio è ritornato sul luogo del misfatto armato di scala a pioli, pennello e vernice e ha nuovamente trasformato con pazienza da certosino il nome della via, ma questa volta in Via Sasizza n°2! Anche questa variante presto cancellata e ripristinata allo stato quo ante.
Oppure ancora, di fronte ad una scuola, in tempi di contestazione, una delle tante "pantere" o forse in occasione di una delle recenti proteste anti-Gelmini, qualcuno aveva vergato con l'ausilio di uno spray nero le parole "blocco studentesco", presto trasformate in un comico "broccolo studentesco".
Ecco che quest’aneddoto consente di illuminare una delle caratteristiche tuttora persistenti del writing che è quella dell’“impresa” da compiere: quindi se da un lato occorre capacità grafica, senso del colore, attitudine al disegno, dall’altro come nell’impresa sbeffeggiante di cui sopra bisogna mobilitare ingegno, determinazione e coraggio (specie se l’impresa viene compiuta in un luogo in cui si è a rischio di essere scoperti.

venerdì 11 giugno 2010

La sequoia morente e l'impermanenza dell'amore


Una sequoia gigante della California
dopo tremila e cinquecento anni sta per morire,
avvelenata dalle piogge acide,
il legno ormai inaridito incapace
di trarre linfa vitale dalla madre terra

La sua vita,
nel tempo dell'universo,
non è niente più che l'istante
in cui si consuma il battito d'ali d'una farfalla o d'un colibrì

In confronto
alla sia pur breve esistenza della sequoia gigante
i nostri amori durano soltanto un attimo,
per spegnersi subito dopo
come l'esile fiammella estinta
da una corrente d'aria

Accettando la legge ineluttabile dell'impermanenza,
non rimane altro da fare
che cercare di godere
del troppo breve intervallo
che separa l'alba d’un amore dal suo crepuscolo

Sempre, troppo presto giungerà la fine

Del tempo che è stato dato,
assieme,
potremo soltanto dire grazie


Ho scritto questo riflessioni alcuni fa.
Sono saltate fuori dal mio PC nel corso di una ricerca di altri documenti.
Mi pare che queste parole abbiano resistito alle contingenze temporali e che abbiano tuttora una certa validità.

lunedì 7 giugno 2010

Reperti ed incontri mattutini di buon auspicio


L'altro ieri, appena all'inizio della mia corsetta mattutina, la mia attenzione è stata repentinamente attratta da uno scintillìo sull'asfalto... Splendeva già il primo sole del mattino da un cielo incredibilmente azzurro e i colori erano vivissimi da fare quasi male agli occhi...
Mi sono avvicinato e ho raccolto da terra un piccolo oggetto di metallo.
Cos'era?

Un ciondolo d metallo argenteo di bassa lega,
a forma di cuoricino. Forse faceva di un braccialetto e si era staccato senza che la sua proprietaria si fosse accorta di nulla.
Su uno dei suoi lati, era incisa una scritta: "Good luck!".

L'ho conservato, ovviamente, nella tasca del mio marsupio.
Poi, fortunato lo sono stato per davvero, anche se in piccole cose. Sempre correndo, mi sono imbattuto in un bel calice di vino da degustazione, in ottime condizioni, abbandonato in una fioriera, e un poco più avanti un orrendo pupazzetto in plastica che ho raccolto pure, partendo dal presupposto che bisogna sempre accettare ciò che la fortuna accorda bisogna sempre ...
Ieri, sempre correndo (ero appena entrato nel bel parco di Villa Trabia di Palermo), ho avvertito un improvviso e strano prurito "itinerante" al polso destro.
Ho represso il movimento automatico finalizzato ad eliminare il fastidio e ho guardato, piuttosto.

E cosa non c'era?
Una minuta coccinella si era posata su di me e si spostava indolentemente. L'ho lasciata fare, desiderando in cuor mio che si trattenesse il più a lungo possibile.
Quando ero piccolo, i miei mi hanno insegnato che le coccinelle bioogna rispettarle e che, se si posano su di te, ciò va interpretato, in genere, come un segno di buona sorte.
Lei (o lui?) si andava spostando ed io intanto la trasportavo per centinaia di metri, lontana dal luogo in cui era salita su di me, avendomi evidentemente scambiato per un autobus per coccinelle.

Poi, ad un certo punto, ha deciso di scendere: forse era arrivata alla sua fermata. Io, ho continuato la mia corsa, assaporando in cuor mio il sottile piacere di aver corso assieme alla creaturina, un piacere che, considerando i poteri che lo sono attribuiti come segno di buona fortuna, avrei voluto prolungare il più possibile.

(da Astromagazine. Il primo Magazine di Astrologia online)

È singolare invece il diffuso sentimento di simpatia e favore suscitato dalla coccinella, che, come altri coleotteri, è in grado di camminare e di volare, posandosi spesso sulle mani dei bambini, subito incuriositi dall’incontro. In questi casi, la stessa madre, pronta a schiacciare strillando ogni altro inerme insetto, sorriderà rassicurante e ammonirà il figlioletto, dicendo: “È una coccinella; non farle del male. Ti porterà fortuna!

Tale gentilezza nei confronti di piccoli animali selvatici è rara. Evidentemente alcuni simboli ancestrali operano nell’inconscio degli esseri umani invitandoli ad accogliere con gentilezza e simpatia la coccinella.

Da un punto di vista antropologico si può pensare che la forma ed i colori della coccinella risultino, oltre che ben riconoscibili, particolarmente graditi, ma io credo che soprattutto sia rilevante un antico retaggio culturale di matrice europea.

Almeno a partire dal Medio Evo la coccinella gode di un duraturo gradimento popolare, ed è per questo che è uno dei pochi insetti che ancora oggi risultano generalmente simpatici.

Nell’antichità questo insetto, e particolarmente la specie con sette nitidi puntolini neri sulle elitre rosse (Coccinella septempunctata), ricordava le sette stelle più brillanti delle Pleiadi. Questo affascinante ammasso stellare era particolarmente utile alla navigazione nel Mediterraneo, ma soprattutto si trova presso la costellazione del Toro, ed è quindi un antico simbolo della Dea Madre e della preistorica cultura matriarcale che dominò tutta l’Europa nell’Era detta, appunto, del Toro.

Per quella sottile ma innegabile continuità culturale che ancora vive nei popoli europei, alcuni secoli fa la coccinella fu associata simbolicamente alla Vergine Maria.

Si pensi al mese mariano di maggio, ed alle rose che fioriscono in questo periodo che vede il Sole simbolicamente nel segno del Toro, e riconosceremo molti emblemi della Madonna.

Effettivamente la coccinella è un amico dell’uomo in quanto grande divoratore di afidi, i piccoli pidocchi che tanti danni arrecano alle rose e ad altre piante coltivate. Tale caratteristica doveva essere nota ed universalmente riconosciuta, così come era (ed è) comune trovare il simpatico animaletto sui petali e sui gambi delle rose alla ricerca delle sue prede preferite. Ancora oggi la coccinella è un apprezzato strumento di lotta biologica ai parassiti ed un’interessante alternativa all’uso di insetticidi chimici.

Gli afidi, quei piccoli “demoni” scuri che succhiano la linfa dei germogli, sono tenuti a bada e sconfitti dalla coccinella, che viene associata così alla Vergine Maria, a cui si dedicano le mistiche rose e lo stesso mese di maggio in cui più frequentemente fioriscono.

Non è certamente un caso che in certe zone della Toscana le coccinelle siano ancora chiamate confidenzialmente “mariole” o “marioline”, piccole inviate di Maria.

Per gli stessi motivi, in molte zone d’Europa si dice che le coccinelle caccino i cattivi spiriti ed il malocchio, e per questo sono sempre le benvenute.

Le ragazze tedesche le chiamano “uccellini di Dio” o “galline delle donne”, e le usano come ideali messaggeri d’amore, mercuriali animaletti volanti che si posano sugli innamorati e li fanno in questo modo comunicare, anche se si trovano distanti: inviati celesti di buon augurio chiamati anche “galletti di Maria” o “vitellini del Sole”.

La “piccola mucca di Dio” è invece il popolare nome russo della coccinella, a ricordare ancora una volta le origini taurine del mito, codificatosi probabilmente dal 4000 al 2000 a.C. su precedenti basi culturali neolitiche.

Anche nelle Isole Britanniche la coccinella è detta “mucca di Dio Onnipotente” ovvero “bird of our Lady” (uccellino di nostra Signora), rimarcando così il diffuso convincimento popolare della positività dell’incontro con questo insetto, per la sua associazione con la divinità: la “gallinella del Signore” o “madonnella” appare quindi come messaggera divina, e, per questo motivo, porta fortuna nell’immaginario collettivo di tutta Europa.

In certe zone la coccinella si dice che svolga le funzioni della cicogna e che porti i bambini, associandosi ai miti della fertilità, e quindi della fortuna in generale. Le giovani donne che speravano di avere molti figli salutavano con gioia l’arrivo dell’insetto e contavano, come un segno d’augurio, le macchie nere sulle elitre per avere informazioni mantiche sul numero di bambini che avrebbero partorito: a seconda della specie, tale numero variava spesso fra sette e dodici!

Una tradizione popolare siciliana addirittura associa l’animaletto a San Nicola, precursore del moderno Babbo Natale portatore di doni; ed ecco che la “palumedda” vola a sostituire nella fessura del muro il dentino caduto al bambino con una brillante moneta. Qui la coccinella, intesa come “piccola colomba” è davvero un messaggero celeste.

A San Michele, altro tradizionale araldo divino, è associata la coccinella in una popolare filastrocca piemontese:

La gallina di San Michel, stende le ali e vola al ciel”.

È interessante osservare l’animaletto alzare le resistenti elitre rosse e distendere le sottostanti e delicate ali membranose prima di spiccare il volo: sembra un lento e placido insetto terrestre, una piccola mucca sul prato, che in un attimo mostra le ali che teneva nascoste e si alza, lenta ma sicura verso il cielo, verso la luce del Sole.

Ed è certamente in riferimento alla luce che la coccinella è chiamata anche “Lucia” in certe zone della Toscana, mentre ai bambini di questa regione fino a qualche tempo fa si insegnava una filastrocca di più incerto significato simbolico e semantico:

Mariola, mariola,

prendi il libro e vai a scuola.

Quando arrivi a mezza via,

prendi il libro e buttalo via”.

Concludendo, il simpatico animale ci ha infine mostrato i motivi che lo hanno portato ad essere un popolare portafortuna.

Ecco perché, ancora oggi, per molte persone, se una coccinella si posa sulla mano, è un segno sicuro di buona sorte. Ed ecco perché tale riconosciuto simbolo è stato usato con successo in numerose campagne pubblicitarie, associandosi anche facilmente all’idea di freschezza primaverile e quindi di gioventù.


domenica 6 giugno 2010

Mery è pulla...: la denigrazione come mezzo di vendetta


Sul marciapiede nei pressi del luogo, dove sino a qualche tempo fa lavoravo, comparve, all’improvviso una scritta, d'un bel blu elettrico.
"Mery è pulla", vi si affermava in modo perentorio.
Il passante che si trovava a leggere un tale messaggio era portato a pensare immediatamente che l'anonimo autore potesse essere un fidanzato tradito, oppure respinto; oppure ancora uno che, avendoci "provato", aveva toppato ed era furente per lo scacco subito.
Chiunque fosse il tizio e qualsiasi cosa gli avesse fatto la Mery in questione, doveva essere veramente arrabbiato.
Dopo alcuni giorni, in cui presumibilmente, la rabbia era stata covata ed alimentata, sul muro di fronte (che fa da recinzione ad un liceo) è comparsa una secondo scritta, questa volta d’un rosso accesso e a caratteri ancora più cubitali. Identico messaggio, stessa impressione di perentorietà definitiva.
MERY T**** e' PULLA!!!, tornava ad affermare l’ignoto graffitaro.
Come a dire: "Per chi non l'avesse capito, è a quella Mery che mi riferisco".
In aggiunta, e per completare la suggestione, sul marciapiedi era stato tracciato con la stessa vernice rossa, un numero di cellulare. Anche in questo caso il messaggio è ovvio: "Telefonate, chiamatela e vedrete come è pulla!"
Con le debite trasposizioni, una tale "messaggistica" in due tempi con relativa escalation, la si può leggere come un fenomeno di "machismo" con un diretto collegamento con il "codice d'onore" vecchia maniera, alimentato da un pensiero rozzo, primitivo ed iper-semplificante.
Se una donna sta con te, deve stare con te, punto e basta. Se ti respinge (e dunque rifiuta o mette in crisi la tua virilità) preferendo un altro, allora è una pulla; analogamente, se rifiuta le tue proposte, galanti e non, è una pulla; in tutte queste circostanze, diventa più che lecito dileggiarla ed esporla al pubblico ludibrio; in fondo non è cambiato molto dai codici di comportamento che, ancora negli anni Cinquanta del secolo scorso, regolavano questo ambito, quando imperversava (ed era sottoposto ad un regime di speciali attenuanti) il delitto d'onore.
Adesso in questo ambito, vediamo l'adeguamento ai tempi nell'uscita dalla dimensione privata all'esibizione pubblica e all'attivazione di una vera e propria campagna denigratoria.
E, in ciò, cattiva maestra televisione e l'esposizione continua alle scadenti trasmisione di gossip da cui siamo bersagliati hanno fatto e continunano a fare indubbiamente la loro parte.

Nota linguistica: nel dialetto siciliano, "pulla" sta per "ragazza di facili costumi", "prostituta".

sabato 5 giugno 2010

Una gita al mare: il ricordo di due estati fa, ancora fresco come se fosse di ieri





Ho scritto queste note, due estati fa (all'inizio dell'estate 2008, dunque): mi ripromettevo di postarle nel mio blog, allora appena nato, ma sovrastasto da un insolito bisogno perfezionistico, indugiai per apportare al testo ulteriori correzioni. Poi, come sempre accade per le cose troppo a lungo custodite, me ne dimenticai, sino a pochi giorni fa, quando curiosando in una vecchia cartella di file "antichi", lo ho ritrovato. Mi è sembrato ad una rilettura, buono, e ho deciso di postarlo, pensando che "...non è mai troppo tardi"... Mi pare che, complesso, il racconto sia ancora fresco: potrei averlo scritto appena ieri. Per questo motivo, ho cercato di lasciare tutti i verbi al presente, proprio per sottolineare che si tratta di un passato ancora vivo nella memoria, come fosse appena accaduto... Il luogo è Eraclea Minoa. Tanti anni prima ci ero andato in gita con i miei amici (e ciò accadeva al tempo del mio servizio militare); poi, a distanza di circa dieci anni, ci sono tornato per un periodo di vacanza estivo con la tenda e la canoa. Poi basta più. Il ritorno avviene dunque con uno scarto temporale di quasi trent'anni...
Sono tornato su questa spiaggia dopo anni di assenza, in un giorno ventoso di prima estate.
Ero un po’ trepidante, durante il viaggio, al pensiero che la realtà che mi si sarebbe presentata davanti agli occhi non sarebbe stata in alcun modo pari al ricordo idealizzato che conservavo dentro di me.
Fin dal primo sguardo, appena sceso dall’auto, mi sono reso conto che, in fondo, ben poco era cambiato.

Davanti al piccolo piazzale ombreggiato da pini marittimi, si apriva una distesa d’acqua, tutta striata di spuma bianca, percorsa da onde tumultuose che, di continuo, si frangevano a riva.
In lontananza, alla mia destra, si erge Capo Bianco con le sue falesie abbacinanti.
Soffia da Sud un forte vento teso, quasi continuo, come spesso accade in questa contrada e nel Canale di Sicilia.
Sono impaziente di andare oltre Capo Bianco e, subito, con il mio zainetto sulle spalle mi incammino in quella direzione, volgendo le spalle al padiglione su palafitte a pochi metri dalla battigia che funge da bar-ristorante, con una bella veranda ombreggiata cui si accede dalla sabbia con una scaletta sbilenca molto suggestiva: viene da penare con prepotenza al racconto di Stevenson, “Il padiglione sulle dune” che mi ha sempre affascinato tanto, come tutti i racconti stevensoniani con ambientazioni marittime...
La baia è davvero immensa: non ricordavo che tutto fosse in una scala così maestosa.

Il vento che mi percuote con le sue raffiche, m’impedisce un camminare fluido. La sabbia sottile come polvere abrasiva mi colpisce le gambe nude, a gragnola.
Vado avanti: nella pineta, che scorre come un grande scenario sulla mia destra ,si nascondono in ordine sparso tende e roulotte dei primi campeggiatori della stagione.
Mentre mi avvicino al Capo, la striscia di sabbia si fa più stretta; a tratti bisogna camminare con i piedi immersi nella risacca che fa un continuo andirivieni spumeggiante. In alcuni punti la parete di friabile calcare è crollata a larghe falde e devo impegnarmi a superare mucchi di detriti su cui sono impigliati rami e frasche trasportati dalle mareggiate, a volte aggirandoli, a volte inerpicandomici sopra. Finalmente, sono alla Punta, ma il transito a guado che, in condizioni normali, sarebbe facile come un gioco da ragazzi, è adesso impossibile per via della forte risacca. Guardo, scruto osservo, cercando di capire se arrampicandomi un po’ più in alto potrò trovare un arco più agevole.
La roccia mi pare infida e scivolosa ed io, quanto ad arrampicarmi non sono certo una cima. Ci provo, comunque, ma dopo pochi passi di salita rinuncio: non è cosa per me…

Scornato, ritorno indietro sino al punto di partenza.
Il vento continua ad urlarmi nelle orecchie: l’urlo del vento ed il rombo delle onde rendono la mia testa leggera e frizzante.
Il ritorno non previsto è però una bella occasione per sedersi nella fresca veranda del padiglione sulla sabbia e dissetarmi con una birra generosa.
Poi, dopo essermi ristorato, riprendo il mio cammino. Il gestore del piccolo bar mi ha spiegato che, per scendere sull’altro versante di Capo Bianco, devo salire sino al sito archeologico e poi seguire il sentiero. Così faccio: il colpo d’occhio che si apre sull’intera baia è davvero meraviglioso, le onde, la spuma bianca, la spiaggia percorsa da file di impronte e da esili figurette che nella distanza non sembrano più grandi di una formica. Il cielo è d’un intenso azzurro che pure – per motivi diversi dal vento furiosi – lascia storditi ed ansimanti.
Forse, perché appare così immenso e sconfinato.



L’unico ancoraggio dello sguardo sono le pietre degli scavi corrose dagli elementi e tendenti a sfarinarsi in un lieve polvere sottile come borotalco, l’erba secca ed ingiallita che oscilla nel vento e qualche piede d’ulivo contorto.

Penso all’antico popolo che decise di insediarsi in questa terra inospitale, letteralmente posta tra il cielo ed il mare, e la cui terraferma era costituita da questo calcare bianchissimo e friabile, che costantemente viene corroso dal vento e dalle intemperie e trasformato in finissima polvere bianco-giallastra: gli antichi abitanti sicuramente erano ben consapevoli di dover vivere assorti nella contemplazione della presenza luminosa del dio di questo luogo. La pietra calcarea è di pasta morbida e si deteriora facilmente: il teatro antico che domina il sito archeologico deve essere protetto con apposite tettoie e teli dagli agenti atmosferici e, ciò nonostante lo spigolo degli ampi gradoni dove un tempo prendevano posto gli spettatori è del tutto scomparso.
La presenza di queste strutture e dei drappi scuri che battono sotto le raffiche di vento come vele rendono il luogo ancora più surreale.

Lasciando alle mie spalle il sito archeologico, mi ritrovo su di un’ampia strada bianca, che percorre il bordo della falesia: cammino, lasciandomi alle spalle l’ampia spiaggia di Eraclea, avendo davanti a me la costa che si distende in direzione di Sciacca e Caltabellotta, avvolta in un’azzurrina indeterminatezza.
Lo sguardo non può penetrare molto in profondità: l’aria è ispessita dal fine pulviscolo sollevato dal vento e dalla salsedine. La vista tuttavia, anche in assenza d’una grande profondità, è bellissima, unica ed emozionante.
Non un anima viva in giro. Mi sono sentito come un novello Robinson, alla fine del mondo.

 
Finalmente, dopo qualche tentativo a vuoto, trovo la via per la discesa, imboccando uno stretto sentiero che dà accesso alla parete di calcare che si ammorbidisce in ampi gradoni tondeggianti lungo i quali si può scendere agevolmente. Ed è fatta: emozionato, mi ritrovo sul lembo di spiaggia che si distende tra Capo Bianco e la foce del fiume Platani, proprio nel punto che desideravo conquistare: la mia gita fuori porta era per l’appunto finalizzata al raggiungimento di questo obiettivo…
Il luogo dà veramente la sensazione dell’immensità, ma anche della solitudine e del totale distacco da tutti.
E’ proprio come essere su di un’isola deserta. Sensazioni forti ed indimenticabile che mi fanno provare il desiderio di una comunione mitica con il luogo, spingendomi al liberarmi di ogni “orpello” tessile secondo un’espressione cara alla filosofia naturista. Me ne sto così per un po’ in un’immersione totale con il mondo che mi circonda.
Tutto assume più lucentezza.
Esploro per un po’: ai piedi della parete di roccia che con i suoi gradoni mi ha consentito di scendere c’è una grande cavità ombreggiata, dal pavimento liscio ed insolitamente pulito. Un buon riparo dal sole – penso tra me e me – un riparo di cui tenere conto...
Il vento qui è molto più forte. I granelli di sabbia sparati come minuti proiettili fanno veramente male dove colpiscono. Stare distesi sulla sabbia diventa una sofferenza e dopo un po’ si finerebbe con l’essere sommersi sotto una coltre impalpabile. Anocra oggi, trovo nelle pieghe dello zainetto che avevo portato con me sottili granelli di sabbia che spuntano inaspettati, come i coriandoli di un carnevale di molti anni prima.


Due figurette in nero camminano lungo la spiaggia battuta dal vento: da dove vengono?
Non si capisce bene.
Sembrano procedere in lotta con il vento e fanno improvvisi movimenti laterali come se la forza delle raffiche li spostasse di peso di lato.

Certamente, arrivano da lontano, poiché - prima che potessi distinguerle come persone - mi erano apparse come semplici puntini neri. Del resto, il riverbero strano e surreale della luce a causa del sottilissimo pulviscolo di salsedine e sabbia fine che riempie l'aria rendono la percezione estremamente confuso. Intanto che sto ad osservare il progredire della marcia dei due nerovestiti ai piedi della falesia bianca, assolata, ricevo stoicamente le folate di vento che lanciano addosso sottili granuli di sabbia con effetto abrasivo sulla mia pelle.Si avvicinano i due e, nell'immensità dello spazio disponibile, vengono a mettersi proprio a poca distanza da me, massimo a venti passi.
La mia irritazione sale alle stelle...
Sono due tipi, uno più grassoccio, l'altro magrolino.
Entrambi vestiti di nero.
Subito distendono le loro cose: impresa ardua perchè il vento dissesta subito qualsiasi cosa e la ricopre rapidamente di sabbia. Si spogliano, denudandosi del tutto. nulla di strano! Siamo, del resto, nel tratto di spiaggia naturista.
Poi, compiono rapide e ripetute perlustrazioni nella mia direzione.
Guardano, osservano, mi ronzano attorno, prima uno e poi l'altro.
Senza nessun pregiudizio: si capisce al volo che sono una coppia gay.
Già, avevo letto da qualche parte, che questo tratto di spiaggia tra Capo Bianco e la foce del Platani, oltre ad essere un sito prediletto dai naturisti, è anche frequentato dai gay.
Nulla di che.
C'è posto per tutti.
Dopo un po' non resisto più, ho dormicchiato, sono tutto impastato di sabbia e pronto per la frittura, come una triglia impanata.
La sabbia sottile, con l'olio solare di cui mi ero asperso, mi si è incollata al corpo, penetrandomi anche dentro le orecchie, nel naso, negli occhi.
Appena mi alzo per raccattare le mie cose, uno dei due - quello più grassottello - mi si avvicina: quasi dispiaciuto che io stia andando via.
E, per un po', parliamo.

Da dove vieni?
Sei un turista?

No.

Da dove vieni?
(iterazione di fronte alla mia reticenza)

Da qua (generico, con un cenno della testa).

E voi da dove venite?
Siamo di qui
(con un gesto altrettanto generico della testa dalla direzione da cui lui e il suo amico sono arrivati arrancando).

Ah, allora non sei un turista!

(E se lo fossi stato, cosa cambiava?)

Non è proprio giornata oggi!
Già!
Infatti, me ne sto andando.
Non c'è quasi nessuno oggi.

Certo, con questa giornata e con questo vento!
Però, domenica qui c'era un sacco di bella gente.

Sì, lo so.

Proprio, un sacco di gente, bella gente.
Sì, lo so! C'era un raduno nazionale promosso da un'Associazione naturista.

No, io dicevo per la domenica che c'era un sacco di bella gente.
Era un raduno di tre giorni e c'era anche un convegno sul naturismo e sull'ambiente.
Ah! Di questo non sapevo nulla.
Era finalizzato a presentare la filosofia naturista ma anche a portare avanti la battaglia per ottenere che questo tratto di spiaggia venga riconosciuto “ufficialmente” come spiaggia riservata ai naturisti. Ciao, allora
Ciao!

Mi gira le spalle e se ne torna dal suo amico che era rimasto in attesa.
Io mi rivesto e riprendo la scalata del Capo per tornare indietro.

Anche i due si rivestono e si incamminano per fare ritorno al luogo da dove erano venuti.
In pochi minuti la spiaggia torna ad essere vuota e solitaria, solo percorsa dal quel fruscio del vento che sembra eterno.

venerdì 4 giugno 2010

I'm back: variazioni sul tema


Una volta tanto tempo fa ebbi per le mani un libricino scritto dall'architetto Bruno Munari, un personaggio geniale che nel suo campo (ed oltre) ha sviluppato una ricerca fortemente creativa e fuori dagli stereotipi e dai luoghi comuni.
Il libro era corredato di immagini: tra queste una sequenza di foto, intitolata "Ricerca di una comodità in una poltrona" che mostrava come un oggetto, apparentemente fisso ed immutabile, per così dire "a senso unico" possa essere utilizzato in modo duttile e creativo, piegato alle esigenze dell'utente.


Non esiste un unico modo di sedersi in una poltrona, né esiste un unico modo di posizionare la poltrona nelle coordinate spaziali, ma tutto è in funzione d'una relazione mutevole e creativa tra la poltrona e il suo utente che interagiscono tra loro sino a trovare la combinazione opportuna per quella coppia che, in sé, rappresenta un unicum.
A volte noi soffriamo della tendenza di attribuire alle cose una rigidità di uso che non compete loro e, così facendo, incartiamo la nostra vita in camicie rigide che finiscono con il soffocarci.

La sequenza di foto che presento qui nasce, in parte da questo filone di pensiero, ma nello stesso tempo ha un'altra radice che affonda invece nel fertile humus della rimembranza e della rivisitazione.

Un altro modo comune e, purtroppo, condiviso dai più di affrontare le cose è fondato sul principio, epistemologicamente restrittivo, che le cose, una volta conosciute, lo sono per sempre e che non sono date più possibili mutazioni dell'esperire.
Finiamo con l'osservare le cose in cui ci imbattiamo e che torniamo a visitare non con vivacità percettiva sempre rinnovabile, ma con l'occhio della mente: quindi, ci troviamo ad applicare al percetto una griglia mentale pre-costituita e rigida che ci fa vedere ciò che pensiamo o vogliamo vedere.

Viceversa, un modo "creativo di vedere le cose - "alla munari", per intenderci - è quello di cogliere infinite variazioni sullo stesso tema, in modo tale che uno stesso oggetto, uno stesso scorcio possano apparire con molteplici volti da un mese all'altro, da un giorno all'altro, oppure persino in un arco di tempo di pochi minuti.

Il semplice "vedere" (inteso come mera stimolazione sensoriale, si traduce in un "guardare" che deve scaturire da una combinazione tra l'occhio della mente e le qualità uniche dell'oggetto percepito, tale da produrre meraviglia e stupore.


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mercoledì 2 giugno 2010

La 100 km del Passatore: un percorso mistico, senza volerlo


Come tutti sanno proprio al Passatore è intitolata la 100 km più celebre d’Italia e forse anche del mondo, sicuramente una delle più partecipate e che, per molti neofiti che vogliono cimentarsi per la prima volta in una 100 km, si pone un po’ come faro di riferimento mitico, un po’ come è la maratona di New York per chi vuole affrontare per la prima volta i classici 42,195 km.
Come sanno tutti gli appassionati, la testa della corsa, durante l’intero percorso che si snoda da Firenze a Faenza è aperta da un auto che trasporta una statua di dimensioni superiori al naturale raffigurante, appunto, il Passatore con le fattezze che sono ormai state consegnate all’iconografia, anche se non corrispondenti al reale.
La presenza della statua che, come l’immagine iconica di un santo, viene portata in processione conferisce alla gara una dimensione imprevedibilmente mistica, trasformandola in una processione che, nelle ore centrali della gara, si allunga per decine di chilometri, con più di mille fedeli-penitenti al seguito del suo "Santo" protettore ed ispiratore; ma conferisce alla corsa anche un forte valore rituale che – pur essendo connotata in senso fortemente laico – finisce con il tracimare in una dimensione quasi spirituale.

L'effigge del Passatore trasportata sulla testa della corsa

La cosa singolare - e altamente simbolica - è che questa statua (ed è irrilevante che sia fatta di dozzinale plastica e dipinta con colori approssimativi) – è double-face: una faccia è rivolta all’indietro, in direzione di Firenze dunque, mentre l’altra scruta verso la direzione di Faenza. Questo aspetto "bifronte" conferisce al Passatore della corsa un ulteriore aspetto mitologico: l'effigge del brigante romagnolo diventa assimilabile al dio pagano che sovrintende ai transiti, alle trasformazioni e ai viaggi, come era appunto il dio Giano nel politeismo degli antichi romani: Giano bifronte, appunto, collocato tra l’altro sulle archiotravi di tutte le porte (in latino, la parola "ianua", porta, rimandava direttamente al dio che la proteggeva), dal momento che il passaggio attraverso una porta - nella concezione degli antichi - comportava dei rischi e doveva essere guardato da un dio, poiché ogni porta è una soglia che da una dimensione porta ad un’altra, adiacente, e il transito, mai asettico, comporta delle trasformazioni.

Una rappresentazione scultorea di Giano bifronte

D’altra parte, l’essenza del Giano bifronte è contenuta nel nome stesso de “Il Passatore”: cosa significa, infatti, “passatore” se non “traghettatore”?
La 100 km del Passatore come sanno tutti coloro che vi hanno partecipato è una gara sportiva, ma è anche una prova intensa sotto il profilo mentale, un vero e proprio viaggio condensato nell’arco del tempo massimo regolamentare di 20 ore, un viaggio che diventa anche della mente e dello spirito e, in quanto tale, dotato di forti potenzialità trasformative, se si è in condizione di cogliere questo particolare aspetto, o anche un pellegrinaggio al termine del quale non si è più gli stessi di come si era alla partenza, perché il cammino e il confronto con le sue asperità hanno operato delle metamorfosi nel nostro animo.
Questa dimensione è evidente e palapabile nell'intensa solidarietà che fa medium che collega ciascuno dei podisti con un sentire di profonda empatia: se la gara, in quanto impresa sportiva, è una prova individuale in cui ciascuno si cimenta con se stesso in una dimensione di fatica solitaria ed introversa, nello stesso tempo, è sforzo e prova corale di una comunità itinerante.
Non è raro che il feeling profondo di chi è impegnato nella 100 km del Passatore possa essere quello d'una sensazione estatica, appartenente alla categoria delle cosiddette "estasi selvaggie" e che vi si possa generare l'impressione che il percorrere tutti questi chilometri rappresenti un modo per elevare delle preghiere verso il cielo e verso il divino immanente: la fatica, lo sgocciolìo del sudore e il rumore cadenzato dei passi, rappresentando il mezzo in cui le preghiere del corpo e della mente possanoelevarsi verso l'alto ed attirare su di noi l'attenzione di un'entità trascendente, esaudendo i nostri desideri.
Correre il Passatore, proprio per questa attivazione metafisica, ci porta ad essere "vagabondi delle stelle", ad avvicinarsi alla realizzazione dei nostri desideri (de sidera) e a sentirci "assiderati" (a sidera), cioè stranamente mancanti di qualcosa, se non lo portiamo a termine oppure se non torniamo a correrlo l'anno successivo.
Ha perfettamente interpretato questa velenza mistica della gara del Passatore, Marco D'Innocenti che, quarto arrivato in quest'ultima edizione (2010), ha "consacrato" al traguardo la sua bimba nata da pochi mesi appena, in un gesto intenso e commovente.

Marco D'innocenti al traguardo di Faenza (2010)

Per questo motivo, assume un forte significato simbolico il fatto che il primo uomo e la prima donna ad arrivare al traguardo di Piazza del Popolo a Faenza ricevano l’investitura del Passatore, con l’imposizione del suo “cappellaccio” (quello della tradizionale iconografia rivisitato in qualche modo dalla modernità, ma pur sempre simile a quello della statua).
Il “cappellaccio” del Passatore è il riconoscimento “materiale” che tocca ai primi due della processione laica che si snoda da Firenze a Faenza, ma in modo simbolico spetta di diritto a tutti quelli che raggiungono il traguardo di Faenza, perché tutti hanno compiuto il cammino di 100 km, assolvendo alla propria promessa.
Bene ha compreso, secondo me, il valore mistico della 100 km del Passatore don Luca Ravaglia, l’intraprendente sacerdote, che nel 2009 ha "camminato" i 100 km da Firenze a Faenza, facendo frequenti soste di preghiera e meditazione, e che quest’anno lo ha ripercorso, arrivando a Faenza poco prima dello scadere della 20^ ora, seguendo il cammino compiuto da Suor Umiltà, che esattamente 700 anni prima, aveva camminato sino a Faenza per fondarvi il Monastero dell’Umiltà.

Don Luca Ravaglia, al suo arrivo a Faenza, con pettorale n° 700.
Ma chi era il Passatore?
Stefano Pelloni detto il Passatore (o, secondo la definizione di Pascoli, il Passator cortese), nato a Boncellino di Bagnacavallo, il 4 agosto 1824 e ucciso a Russi, IL 23 marzo 1851) è stato un brigante italiano, attivo nella Romagna di metà Ottocento.
Il soprannome gli viene dal mestiere di traghettatore (o "passatore") sul fiume Lamone esercitato dal padre; viene chiamato anche Malandri, dal cognome della donna che sposò un suo bisavolo. Dagli amici e dai conoscenti più diretti veniva anche chiamato Stuvané.
Le sue imprese ispirarono la musa popolare della rievocazione orale (che enfatizzò la sua generosità, divenuta leggendaria) e quella colta, da Arnaldo Fusinato a Giovanni Pascoli (che nella poesia “Romagna” idealizzò la sua figura evocandolo, appunto, come il Passator Cortese, re della strada, re della foresta).
Romagna solatia, dolce paese,
cui regnarono Guidi e Malatesta;
cui tenne pure il Passator cortese,
re della strada, re della foresta.
(da Romagna)
Malgrado tale appellativo di "cortese", gli storici sono quasi tutti concordi che, la leggenda così come ha fatto con Robin Hood, abbia esagerato anche con il Passatore. E' risaputo che le leggende esagerano sempre, altrimenti diventerebbero pura cronaca.
Non era poi tanto cortese, sicuramente non con le otto persone che uccise durante i suoi anni di brigantinaggio e latitanza. Pascoli da buon socialista, lo chiamò così perché rubava ai ricchi per dare ai poveri, ma la storia non è esattamente questa.
E' vero che elargiva somme di denaro (rubato) alla povera gente delle campagne tra Lugo, Bagnacavallo e dintorni, ma per avere ospitalità e trovar rifugio lontano da occhi indiscreti nella campagna piu' isolata del tempo.
Il Passatore agli occhi del popolino era l'unico in grado di ribellarsi all'ordine costituito del Governo Pontificio, che sempre più spesso inviava squadre di cavalleggeri, l'unico in grado di mettere sotto scacco l'esercito dei dominatori e dare l'illusione di un riscatto dalla miseria e dalla fame, che allora imperava sovrana in tutta l'Emilia-Romagna, e non solo!
Lo stesso Garibaldi in una lettera datata 10-12-1850 e inviata dal suo esilio negli Stati Uniti, così ne scriveva :

"Le notizie del Passatore sono stupende…….pare fare prodigi. Noi baceremmo il piede di questo bravo italiano che non paventa, in questi tempi di generale paura, di sfidare i dominatori".


I veri connotati de "il Passatore" differiscono notevolmente dall’iconografia che lo ha reso famoso, diffusasi nel dopoguerra a seguito del lancio del marchio dell'"Ente Tutela Vini Romagnoli", che lo raffigurava somigliante a un brigante-pastore lucano (probabilmente Carmine Crocco) e armato di arcaico "trombone", poiché - in realtà - egli utilizzava le migliori armi disponibili all'epoca.
Stefano Pelloni era molto diverso anche in volto, e nel vestire: alto intorno al metro e settanta, una statura giusta per la metà del secolo XIX in Romagna, aveva i capelli neri, gli occhi castani e la fronte spaziosa. In particolare il viso, di forma oblunga e di colorito pallido, non presentava alcuna barba.
All'epoca, alla voce "segni particolari" del Passatore, veniva indicato "sguardo truce": ciò è possibile poiché Stefano Pelloni presentava una bruciatura da zolfo sotto l'occhio sinistro.

La processione "laica" al seguito del Passator cortese, del resto, è una reinterpretazione di ciò che accadde dopo la sua morte. I rappresentanti dello Stato pontificio, infatti, decisero che sarebbe stato opportuno esporre la salma di Stefano Pelloni, portandolo in giro per tutte le città romagnole, a mo' di monito per tutti coloro che avessero accarezzato l'idea di ripercorrere le sue orme, dandosi al brigantaggio per fare ressitenza a governanti non accettati e considerati iniqui.
Ma l'iniziativa si ritorse contro di loro: infatti, se c'erano delle persone che avevano motivo di gioire per la sua scomparsa, furono moltissimi quelli che si accalcarono attorno alla sua salma, portata in giro per le vie della Romagna su di carro trainato da buoi, per salutarlo come una sorta di eroe popolare.

Ad ogni tappa del corteo funebre, che attraversò Russi, Cotignola,Forlì e Faenza, per poi fermarsi a Bologna, centinaia di persone si accalcarono attorno al carro.
Certo, non mancavanomercanti, possidenti,e banchieri plaudenti sollevati dall'uccisione del mostro.Ma la stragrande maggioranza del pubblico che asssiteva a quella parata era composta da braccianti commossi e donne in lacrim, che non esitevano a prendersi qualche manganellata dai gendarmi, pur di riuscirea gettare un fiore sul corpo di quello che, ai loro occhi, era semplicemente un eroe. (da Marco Valsecchi, Il Passatore. Re della strada, re della foresta, Bevivino editore, 2005, p.102).

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