domenica 8 agosto 2010

Il solista: un virtuoso del violoncello tra gli homeless di Los Angeles

Il solista (The soloist di Joe Wright, 2009), fondato su di una storia vera, è la riduzione cinematografica del libro/documento scritto dal giornalista Steve Lopez, muovendosi su almeno due diversi livelli narrativi.
Il primo è la storia umana di Nathaniel Ayers, giovane musicista nero talentuoso che, frequentando l’Accademia musicale di New York va incontro ad un breakdown psicotico, non reggendo alla competizione e al confronto crudele in un mondo in cui ancora non c’è molto spazio per gli Afro-americani. Questo piano narrativo viene costruito partendo dal presente, in cui Ayers vive alla deriva come homeless estroso e farneticante, al passato con una serie di flashback della sua infanzia e della sua adolescenza che sono l’equivalente per immagini della storia che Steve Lopez, giornalista quotato di Los Angeles, cerca di costruire per ridare quota, con un caso toccante, alla sua rubrica.
L’altro livello che fa da sfondo, pur costituendo gran parte del film, è dato da una rappresentazione-denuncia della vita dura e allo sbando degli homeless d’America: una rappresentazione ben più cruda di quella più edulcorata nel film di Muccino “Alla ricerca della felicità”, in cui la vita dell’homeless è intesa solo come un regresso temporaneo, prima del rilancio verso l’affermazione di una nuova fortuna: nel personaggio di Muccino (Chris Gardner, interpretato da Will Smith) vi è una costante tensione positiva e il persistere di una forte integrazione e coesione del Sé del protagonista, mentre invece, qui, il mondo degli homeless, interpretato senza finzioni ed edulcorazioni da “veri” senzatetto, è dato in tutta la sua tragica realtà.
Gli homeless di Los Angeles sono 90.000, annuncia una didascalia che compare nei titoli di coda, quasi a sottolineare la volontà del regista di dare con il suo film anche un contributo alla loro causa, ma senza cadere nel tranello di rappresentarli pietisticamente come vittime di un destino avverso (d’un tracollo economico, per esempio, o della perdita del lavoro).
Diventare homeless, ci dice, può anche essere una scelta ricostruttiva del Sé (come mostra bene la storia di Nathaniel): in momenti di passaggio esistenziale in cui il mondo interno sembra andare in pezzi, la vita dell’homeless aiuta a ricompattare un guscio esterno utile a “tenere assieme i pezzi” della rottura psicotica nel rapporto con la realtà, forse proprio in funzione dell’estrema semplificazione delle incombenze di vita ma anche per l’attivarsi di rituali ossessivi e rigidi, funzionali alla sopravvivenza, ma anche alla “tenuta dell’Io.
Ma, nel bell’apologo costruito da Wright (e, a monte, nella storia di Steve Lopez) si legge un terzo crinale narrativo che è quello della forza e del potere “terapeutico” della relazione tra esseri umani, anche quando questa relazione non nasce inizialmente da motivi esattamente altruistici.
Nel suo approccio iniziale Steve Lopez (Robert Downwey Jr) è alla ricerca della “sua” storia e, quindi, l’approccio con Nathaniel (Jamie Foxx) è puramente strumentale, anche se velato di apparenti buone intenzioni.
Tuttavia, a partire da questo movente, grazie al potere cementante (alla magia) della musica che si sprigiona dallo scassato violino di Nathaniel, con sole due corde residue, e poi dal violoncello che gli viene donato da una lettrice, ex-musicista, commossa dalla lettura del “caso” lanciato da Lopez nella sua rubrica, si approfondisce e diventa bilaterale: un rapporto difficile, tormentato, conflittuale e che implica la consapevolezza e il peso della “responsabilità” derivante dalla fiducia che Nathaniel – pur nel suo modo malato e fragile – comincia a provare nei confronti del giornalista e dall’abbassamento delle sue difese schizoidi.
Ed è una relazione che, malgrado tutto, riesce ad andare avanti e ad evolversi, rafforzandosi. Una volta attivato un simile processo, non è più possibile voltare le spalle al “caso” che intanto è divenuto “persona” e individuo nei cui confronti s’è attivato un legame di affettività profonda implicante, tra le altre cose, il “rispetto” e l’accettazione della diversità, una “diversità” inemendabile, perché negli anni è divenuta cifra dell’individuo.
Se lo spettatore rapito dai virtuosismi musicali di Ayers pensa di ritrovarsi davanti ad un caso simile a quello raccontato in Shine del 1996 (che espone la storia vera di David Helfgott, diretta con brio e profondità dal regista Hicks, con l’abile interpretazione di Geoffrey Rush ) si sbaglia. Mentre in Shine, grazie al potere dell’amore, un pianista di grande talento riesce a riprendere la sua strada ripartendo dal punto in cui si era interrotta a causa di una grave crisi psicotica – che ha alle sue spalle le vessazioni di un padre-padrone ossessivo e assillante - per giungere a calcare le scene come pianista di primordine, qui la storia è minimalista.
Non ci sono grandi successi che aspettano Nathaniel, ma semplicemente una vita più integrata, supportata dal piacere di suonare con talento uno strumento musicale, traendo conforto dalla musica (fatta, ma anche ascoltata) e, soprattutto, da una forte e salda amicizia.
La lezione morale che se ne trae è che la salvezza per qualcuno che è “caduto” non deriva dal fargli fare ciò che, mettendosi nella posizione elevata e presuntuosa del “salvatore”, si ritiene sia giusto, ma dal consentirgli di usufruire di un contesto di relazioni rasserenanti che non metta alla prova il livello di adattamento raggiunto con prove che siano troppo al di là delle forze di un Io che – malgrado tutto – rimane fragile e segnato.
Splendida la colonna sonora che alterna pezzi di Beethoven con brani di musica moderna del repertorio folk-pop che danno i giusti cromatismi all’inferno in terra degli homeless di Los Angeles (nel quartiere di Skid Row, uno dei più degradati della città degli Angeli).
Il film è tratto dall’omonimo libro (Ted Lopez, Il solista, Rizzoli, 2010). Eccone la scheda.
Non si separa mai dal suo carrello, indossa quello che gli capita e dorme per strada a Skid Row, il quartiere più degradato di Los Angeles (90.000 homeless), dove bazzicano solo prostitute, tossici e diseredati dimenticati da Dio. Però quando suona il violino di fronte alla statua di Beethoven, Nathaniel Ayers diventa un altro: non più il farneticante senzatetto di colore, ma un virtuoso capace di esprimere con quello strumento scordato tutta l'armonia e il sentimento della musica. Il giornalista Steve Lopez lo sente e ne resta affascinato. Giorno per giorno, ne raccoglie le parole sconnesse, i ricordi, le sfuriate e i deliri, fino a ricostruire la storia di una promessa della musica che, nero in un mondo di bianchi, era riuscito a entrare nella più celebre accademia musicale americana, la Juilliard School. Dove, la competitività esasperata e l'ansia di raggiungere un'inarrivabile perfezione avevano scatenato la sua schizofrenia e l'avevano confinato in un mondo di paranoie e ossessioni, estraniandolo gradualmente dalla scuola e dalla famiglia. Non dalla musica, però, unico legame rimasto fra lui e il mondo. Questa è la storia vera di un'amicizia inattesa, complessa e a tratti straziante tra un giornalista affermato e un barbone, che insegna a entrambi il senso più profondo di se stessi, ma è anche una riflessione sui limiti e sulle potenzialità del genio.

1 commento:

  1. E con le stelle cadenti, i sogni, i desideri, nella continua ricerca della felicità, le nostre inespresse parole che continuamente ruotano nella nostra mente ed evaporano nel nulla nei momenti in cui cerchiamo di comunicare.
    E’ assai difficile condividere ma soprattutto impossibile conciliare i nostri bisogni d’affetto.
    L’incontro con “l’altro” in una stazione, tanto tempo fa, ore e ore su una panchina, le luci soffuse della notte. La sua scelta di vita senza una vera casa, trascinandosi da una stazione all’altra. Gli anni trascorsi lontano da tutto e da tutti. Poche cose con sé, le sue matite, i suoi fogli bianchi, la sua fantasia, una foto e il tempo.
    Il tempo di sorridere, il tempo di vedere, il tempo di ascoltare.
    Non comprendi immediatamente ma ti lasci andare e per ore e ore ascolti la tua voce.
    Un legame unico, profondo, indimenticabile che in certi momenti riemerge quando hai le lacrime negli occhi.

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