mercoledì 11 agosto 2010

Lacrime e commozione all'arrivo della 100 km delle Alpi


All'arrivo d'una gara di endurance (e, nel nostro caso di un'ultramaratona) si possono sempre cogliere degli stati d'animo diversi.
A volte è la gioia straripante a dominare, a volte invece si coglie un'espressione di stizza e dispiacere, a volte può capitare di intravedere la commozione e il pianto incontenibile.
Sono modi diversi di dare una via di sfogo alla tensione mentale che si è accumulata nel corso della gara, chilometro dopo chilometro, quella tensione interiore che rappresenta l'asse portante della ressitenza mentale, assieme - paradossalmente - alla capacità di mettere da parte (sospendoli temporaneamente) memoria e desiderio.
Una strana combinazione che spinge molti a continuare anche se il risultato non sarà quello atteso (al momento della partenza) quello pianificato (sulla base delgi allenamenti compiuti) oppure quello desiderato.
E non è vero che il risultato che si consegue in un'ultramaratona è matematicamente determinato dal lavoro che si è fatto in allenamento nelle fasi precedenti la gara, perchè le variabili in gioco sono molteplici (e non sempre predicibili a tavolino) e per quanto sia stato scrupolosa sia stata la preparazione il crono finale può essere pur sempre influenzato da altre variabili, tra le quali ha un ruolo di primo piano la cifra specifica del singolo atleta.
Gnôthi seautón (Γνῶθι σεαυτόν) era scritto sul frontone del Tempio dell'oracolo di Delfi: è il "Conosci te stesso" che - più di altre frasi lapidarie e apodittiche - riassume l'insegnamento socratico, in quanto esortazione a trovare la verità dentro di sé anziché nel mondo delle apparenze.
Niente è più vero di questo piccolo aforisma applicato nell'approccio mentale all'ultramaratona.
Sara Valdo ha concluso la 100 km delle Alpi, lottando contro una serie di crisi subentranti che hanno influenzato il risultato finale che è stato al disotto delle aspettative. Eppure, Sara ha tenuto duro e ha voluto proseguire caparbiamente sino alla fine. Nel modo di combattere contro le crisi che incrinavano la sua volontà di andare avanti ha sicuramente conosciuto se stessa nel senso socratico del termine, proprio perchè anziché dare rilievo al mondo delle apparenze (un buon piazzamento, un crono all'altezza delle aspettative), ha guardato dentro di sé concentrandosi sulla necessità di arrivare sino alla fine, vincendo la sua debolezza e una sensazione di fragilità.
Tagliando il traguardo, Sara ha pianto: il suo è stato un pianto liberatorio, un pianto di scioglimento della tensione vibrante che aveva sentito dentro di sé nella seconda metà della gara e che le ha consentito di lottare contro un'insidiosa sensazione di svuotamento interno e di perdita delle forze, ma - credo - è stato anche una manifestazione di gioia per essere arrivata sino al traguardo finale.
In questo modo, lottando sino alla fine per arrivare al suo traguardo, ha aggiiunto un ulteriore tassello per una migliore conoscenza di se stessa (sia sotto il profilo personale e umano, sia sotto quello pù specificatamente sportivo e agonistico) e, sicuramente, ha attivato nella sua mente dei circuiti neurologici virtuosi (volendo vedere della sua esperienza anche il versante neurofisiologico).
Ha trasformato le sue crisi in "esperienza" e tutto questo si tradurrà sicuramente in una migliore resilienza in gare future.
Il suo pianto, credo, è stata la sintesi di questo complicato percorso mentale ed emozionale.
Ed è anche un insegnamento per tutti, vorrei aggiungenre, quello che ci ha dato la piccola ultrarunner veronese: arrivare sino in fondo e piangere al traguardo è un'esperienza ben più intensa e "fondante" di chi si ritira quando comprende che non riuscirà a realizzare il risultato sperato e non è capace di stare a lottare sportivamente con se stesso sino alla fine (quella del ritiro - a meno che non ve siano validi e fondati motivi, come un infortunio fisico grave - è infatti, piuttosto, una "mancata" esperienza e un minus decostruttivo della propria resistenza mentale).

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