martedì 17 agosto 2010

In Splice, il dilemma morale dello scienziato che vuole farsi demiurgo


Tanto, troppo, si legge oggi di clonazioni, manipolazioni genetiche, creazioni di ibridi e chimere, di tutto ciò che riguarda le applicazioni dell'ingegneria genetica sia quelle possibili, sia quelle avveniristiche e futuribili.
Si tratta d'un campo controverso in cui le attività di ricerca scientifica non sempre sono animate da intenti chiari e soprattutto da motivazioni limpide.
In alcuni casi, a muovere le cose sono interessi economici di grandi holding farmaceutiche alla ricerca di possibili campi d'applicazione di nuove scoperte, in altri casi è un desiderio epistomofilico nei confronti della realtà portato alle estreme conseguenze, senza alcun rispetto del più elementare principio di precauzione, che impone di evitare di importare modelli semplici a realtà complesse dotate di un numero enorme di variabili, poichè i risultati possono essere diversamente orientati verso imprevedibili esiti e soprattutto andare fuori controllo (il ben conosciuto Jurassic Park è un esempio calzante di questo tipo di riflessione, sul tema della clonazione di specie estinte).
Gli scienziati e i ricercatori si trovano in un punto di snodo nevralgico tra le proprie motivazioni personale a fare ricerca, la "pura" curiosità epistemofilica e l'industria che invece insegue il progetto del profitto, nel senso che la conoscenza non è fine a se stessa ma funzione delle applicazioni e dei guadagni che potranno scaturirne.
In ogni caso, attrono a tutto ciò che che si agita dietro le manipolazioni del genoma, vi è la fantasia onnipotente di poter essere come demiurghi sostituendosi alla natura o - per chi crede - ad un'Entità superiore.
Questo è il motivo di base per cui la Chiesa cattolica è tanto contraria alle manipolazioni genetiche e alle relative applicazioni.
Tanti film sono stati realizzati su queste tematiche, alcuni stressando l'attenzione sul "mostro" che attraverso le manipolazioni veniva prodotto, altri ponendosi degli interrogativi sulla liceità di simili pratiche e sui rischi connessi.
Splice (del regista canadese Vincenzo Natali, 2009) si innesta per l'appunto su questa riflessione.
La storia è semplice Clive (Adrien Brody che abbiamo visto recentemente in Predators) ed Elsa (Sarah Polley), entrambi biochimici, lavorano in un Laboratorio di genetica e, oltre ad essere colleghi di lavoro, sono anche compagni nella vita, formando una coppia (senza figli). Non contenti dei successi già ottenuti (successi, peraltro, discutibili), vorrebbero andare oltre, esplorando ulteriori applicazioni di quanto hanno giò scoperto e, soprattutto, mescolando il materiale genetico di specie animali diverse con il DNA umano e producendo, senza avere assolutamente idea di quale potrà essere il risultato finale, una chimera.
Il loro tentativo va in porto, ma il prodotto del loro esperimento - una creatura apparentemente di sesso femminile che dai due viene battezzata Dren (che è l'acronimo di NERD, sigla del laboratorio presso cui lavorana) esce rapidamente fuori controllo (nell'interpretazione da adulta di Delphine Chanéac).
La possibilità di controllo in simili esperimenti, sembra volerci dire il regista, è una pura illusione, perchè non si sa nulla di quello che può venir fuori quando si combinano assieme geni appartenenti a specie diverse e soprattutto quali saranno gli esiti "evolutivi" della nuova creatura sia dal punto di vista ontogenetico sia da quello filogenetico.
L'interesse del film sta anche nel fatto che il regista si sofferma a guardare con occhio attento la psicologia dei due personaggi coinvolti, lasciando emergere una preoccupante delle motivazioni che li spingono ad andare avanti caparbiamente in questa strada, sicuramente condizionate da fantasmi che albergano in oscuri recessi della loro mente, ma - sino ad un certo punto - sembra volere osservare la psicologia del "terzo", cioè di Dren che sembra quasi crescere all'interno di una triangolazione edipica (anche se con esiti - anche in questo caso -imprevedibili).
In questa dinamica complessa, è soprattutto Elsa che vuole andare avanti spinta da un inconfessato desiderio di maternità e di prole, sulla quale - in seguito - proprio in quanto frutto di esperimento - ella potrà esercitare, se lo vuole, il totale controllo ed anche potere di vita e morte.
Le cose - come vedrà lo spettatore in una sequenza di colpi di scena - non sono così semplici, perchè la neo-creatura - a tutti gli effetti una chimera nel senso biologico del termine - riserverà ai due genitori-scienziati ben più di una sorpresa.
Vincenzo Natali, con maestria, riesce a muovere di continuo il suo sguardo dalla creatura in crescita alle dinamiche della coppia e alle motivazioni individuali di ciascuno dei due, con tutto il corteo di perplessità, indecisioni, ma anche di caparbia voglia di andare avanti, non trascurando anche l'interrogativo della responsabilità morale connessa ad esperimenti in cui si dia vita ad una essere vivente e senziente ("Cosa fare dopo aver dato la vita?", "E' poi così semplice dispensare la morte, qualora l'esperimento debba essere terminato?").
La parola "splice" che dà il titolo al film, mutuato dal gergo della genetica, significa in modo assolutamente generico "aggiungere, innestare" ("splicing": saldatura di materiale genetico), mentre il significato esatto del termine è il riferimento ad un passaggio fondamentale nel passaggio dal DNA cromosomico all'RNA attivo, cioè pronto per determinare la sintesi proteica, prevedente l'eliminazione di intere stringhe di materiale genetico, tenendo conto che l’intero patrimonio cromosomico umano è solo per il 27% composto da geni e che questi sono codificanti per solo il 10% (ovvero il 2,7% dell'intero genoma umano è attivo nel determinare attività di sintesi proteica). All’interno d'un medesimo gene sono presenti sequenze chiamate esoni, che verranno conservati nell’mRNA maturo, ed introni che verranno eliminati prima della traduzione, con un processo denominato appunto di "splicing".
L'efficacia del film sta nel fatto che per tutta la sua durata provoca nello spettatore un certo malessere, innanzitutto perchè lo mette brutalmente di fronte alla nascita di quella che è, a tutti gli effetti, una specie aliena - diversa ma, nello stesso tempo, affine - e, in secondo luogo, perchè si sofferma a lungo sul dramma della responsabilità morale e sui dilemmi che la creazione di ibridi genetici pongono.
Da vedere, perchè va al di là del semplice genere.
Per alcuni aspetti, il film potrebbe considerarsi come una grande metafora del Male che afflige la modernità, in cui l'ansia demiurgica di conoscere e di fare diventa causa di un Male che poi si propaga e finisce con il crescere autonomamente: fatte le debite differenze, lo si può considerare come una declinazione scientista (e terribilmente crudele) di un film "demonico" come fu Rosemary's baby di Roman Polansky, autentico e perturbante antesignano d'un intero genere cinematografico.

2 commenti:

  1. nella maturazione dell'RNA messaggero dopo la trascrizione del DNA cromosomico, la duplicazione non c'entra

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  2. Se mi spieghi meglio, posso sistemare meglio quello che ho scritto: te ne sarei grato.

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