Ho trascorso una notte intera ai piedi del quasi bimillenario acquedotto romano di Segovia.
Cosa è stato attendere l'alba quasi schiacciato dall'incombere delle sue gigantesche arcate e dei suoi potenti piloni di pietra!
Mi mancano le parole più adatte per descrivere appieno le sensazioni e le emozioni che ho sperimentato...
L'ho visto emergere a poco a poco dall'oscurità e acquistare via via definizione e pregnanza.
Alla sua presenza, mi sentivo piccolo, minuscolo e anche effimero: guardando quei piloni fatti di enormi conci di pietra tufacea, perfettamente aderenti l'uno all'altro e senza tracce di malta per tenerli assieme.
Mentre minuscoli runner arrivavano correndo, dopo aver percorso chi al passo chi correndo più di 100 chilometri, mentre si alternavano nella piazza antistante miserabili vicende umane, alimentate dai frequentatori avvinazzati di una discoteca che alla spicciolata si riversavano all'esterno, da schiamazzi, clamori e grida volgari, da una compagnia - altrettanto ebbra - reduce dal festino di uno sposalizio, e ancora quando con il raffreddarsi ulteriore dell'aria, nelle ultime strettoie della notte, sono arrivate ad ondate successive le squadre di pulitori con i loro strumenti meccanizzati ad asportare via la sozzura del passaggio umano, mi sono ritrovato a meditare sulla mia piccolezza, sull'impermanenza, sul fatto che, malgrado la loro meschinità, alcuni uomini - grazie ad uno sforzo collettivo - riescono a creare qualcosa che dura - nel tempo - le vite di tanti uomini: opere anch'esse impermanenti, tutttavia, se commisurate con l'eternità.
Eppure gli uomini che costruirono quell'acquedotto sono morti da secoli (anzi da quasi due millenni) e la loro opera è ancora là, a possente, a marcare con la sua presenza imperscrutabile lo scorrere del tempo...
L'arrivo dei podisti ai piedi dell'acquedotto sotto un gonfiabile ad arco, di quelli utilizzati in simili circostanze (che nel raffronto sembra un bruscoletto insignificante) è anche un omaggio alla potenza intrinseca di questa struttura immensa e magica.
Noi passeremo e le arcate dell'acquedotto di Segovia saranno ancora là per molto, molto tempo.
Forse saranno là, imperturbabili, quando noi non ci saremo più.
Chi o cosa raccoglierà quest'eredità?
Lo avevo visto da bambino, accompagnato da mia madre.
Ci sono tornato adesso dopo quasi 50 anni: solo adesso ho potuto vedere la sua grandezza.
Io sono un uomo maturo, forse alle soglie della vecchiaia.
L'acquedotto di Segovia, ancora giovane e possente, si erge intatto proprio dove i Romani lo vollero, a perenne testimonianza dell'ingegno dell'Uomo.
Cosa è stato attendere l'alba quasi schiacciato dall'incombere delle sue gigantesche arcate e dei suoi potenti piloni di pietra!
Mi mancano le parole più adatte per descrivere appieno le sensazioni e le emozioni che ho sperimentato...
L'ho visto emergere a poco a poco dall'oscurità e acquistare via via definizione e pregnanza.
Alla sua presenza, mi sentivo piccolo, minuscolo e anche effimero: guardando quei piloni fatti di enormi conci di pietra tufacea, perfettamente aderenti l'uno all'altro e senza tracce di malta per tenerli assieme.
Mentre minuscoli runner arrivavano correndo, dopo aver percorso chi al passo chi correndo più di 100 chilometri, mentre si alternavano nella piazza antistante miserabili vicende umane, alimentate dai frequentatori avvinazzati di una discoteca che alla spicciolata si riversavano all'esterno, da schiamazzi, clamori e grida volgari, da una compagnia - altrettanto ebbra - reduce dal festino di uno sposalizio, e ancora quando con il raffreddarsi ulteriore dell'aria, nelle ultime strettoie della notte, sono arrivate ad ondate successive le squadre di pulitori con i loro strumenti meccanizzati ad asportare via la sozzura del passaggio umano, mi sono ritrovato a meditare sulla mia piccolezza, sull'impermanenza, sul fatto che, malgrado la loro meschinità, alcuni uomini - grazie ad uno sforzo collettivo - riescono a creare qualcosa che dura - nel tempo - le vite di tanti uomini: opere anch'esse impermanenti, tutttavia, se commisurate con l'eternità.
Eppure gli uomini che costruirono quell'acquedotto sono morti da secoli (anzi da quasi due millenni) e la loro opera è ancora là, a possente, a marcare con la sua presenza imperscrutabile lo scorrere del tempo...
L'arrivo dei podisti ai piedi dell'acquedotto sotto un gonfiabile ad arco, di quelli utilizzati in simili circostanze (che nel raffronto sembra un bruscoletto insignificante) è anche un omaggio alla potenza intrinseca di questa struttura immensa e magica.
Noi passeremo e le arcate dell'acquedotto di Segovia saranno ancora là per molto, molto tempo.
Forse saranno là, imperturbabili, quando noi non ci saremo più.
Chi o cosa raccoglierà quest'eredità?
Lo avevo visto da bambino, accompagnato da mia madre.
Ci sono tornato adesso dopo quasi 50 anni: solo adesso ho potuto vedere la sua grandezza.
Io sono un uomo maturo, forse alle soglie della vecchiaia.
L'acquedotto di Segovia, ancora giovane e possente, si erge intatto proprio dove i Romani lo vollero, a perenne testimonianza dell'ingegno dell'Uomo.
Una nota wikipediana
L'Acquedotto di Segovia è uno dei monumenti più importanti e meglio conservati tra quelli lasciati dagli antichi Romani nella Penisola iberica. È uno dei simboli della città di Segovia, come evidenziato anche dalla sua presenza nello stemma cittadino.
Nel 1985 è stato inserito, insieme alla città vecchia, tra i Patrimoni dell'umanità dell'UNESCO.
Dal momento che mancano iscrizioni leggibili (una sembra trovarsi sopra alla porzione superiore dell'acquedotto), la data di costruzione non può essere determinata con precisione. Gli studiosi l'hanno identificata tra la seconda metà del primo secolo d.C. ed i primi anni del secondo secolo, durante il regno dell'imperatore Vespasiano o in quello di Nerva. Anche la data di fondazione della stessa Segovia è dubbia. Si sa che i Vaccaei popolarono l'area prima della conquista romana. Le truppe romane che presero il controllo della regione, che cadde sotto la giurisdizione romana (in latino conventus iuridici, in spagnolo convento jurídico) situata a Clunia, si stabilirono in questa zona.
L'acquedotto trasporta acqua dalla sorgente della Fuenfría, situata nelle montagne vicine, a 17 chilometri dalla città, in una regione nota come La Acebeda. Percorre oltre 15 chilometri prima di arrivare in città. L'acqua viene prima raccolta in una vasca chiamata El Caserón (la grande cisterna), e quindi incanalata verso una seconda torre nota come Casa de Aguas, che funge sia da dissabbiatore, che da torrino piezometrico. In questo luogo, infatti, l'acqua viene fatta decantare in modo che la sabbia si depositi prima di riprendere il viaggio e nello stesso tempo si assicura una quota certa alla linea piezometrica. Da qui viaggia per 728 metri con una pendenza di circa l'1% fino a raggiungere il Postigo, un affioramento roccioso al centro della città vecchia, dove sorge l'Alcazàr.
Una volta raggiunta Plaza de Díaz Sanz la condotta compie una brusca deviazione dirigendosi verso Plaza Azoguejo. È qui che l'opera si mostra in tutto il suo splendore. Nel punto più alto l'acquedotto raggiunge i 28,5 metri, inclusi circa 6 metri di fondamenta.
È composto sia da archi singoli sia da doppi archi supportati da pilastri perfettamente centrati gli uni sugli altri per assicurare la perfetta staticità a quest'opera che altrimenti difficilmente avrebbe superato tanto brillantemente quasi due millenni di storia.
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