Il fabbricante di panieri.
Un pezzo di sapienza contadina che sopravvive nel cuore di Palermo...
(Foto di Maurizio Crispi)
Un pezzo di sapienza contadina che sopravvive nel cuore di Palermo...
(Foto di Maurizio Crispi)
Nei pressi d'una delle uscite della "Villa dell'atleta" (ex-Villa Case Rocca) accanto allo stadio di atletica "Vito Schifani" di Palermo, di mattina presto avrete la ventura di incontrare una persona antica e singolare.
E' un anziano contadino, ottant'anni suonati, una faccia intagliata nel legno, pelle come cuoio vecchio, solcata da un fitto reticolo di rughe, sordo come una campana.
Si chiama Giuseppe.
Se ne sta seduto tranquillo, d'inverno un passamontagna ficcato sulla testa e sopra un berretto a visiera di finta pelle, d'estate capelli bianchi e sottili come stoppie esposti all'aria, sempre mattiniero (alle prime luci dell'alba è già sul posto) e lavora con gesti lenti e sicuri ai suoi magnifici canestri, dall'aspetto solido e duraturo.
Ogni giorno ne fabbrica uno, partendo da materiale di costruzione liberamente disponibile: frasche di olivo selvatico opure di olmo ("ulmo") molto adatte per via della loro elasticità e canne tagliate per il lungo.
E' davvero speciale la sua abilità nell'intrecciare le frasche che, mentre le lavora, non ha ancora del tutto liberato dal fogliame, cosicchè sembra che il cesto vada prendendo forma direttamente da una pianta, per uno strano incantesimo.
Un giorno mi sono avvicinato e gli ho chiesto se potevo acquistare uno dei suoi canestri.
Dialogo con un sordo...
Non comprende.
Ripeto la mia domanda.
Identica sequenza.
Giuseppe mi mostra un apprecchio acustico inserito nell'orecchio.
Allora è poprio sordo!
Con un tono di voce più alto per vincere la sua sordia, ripeto ancora la mia domanda.
Niente!
Aiutandomi con i gesti, cerco di fargli capire di quale oggetto gli sto parlando.
Una scintilla gli si accende negli occhi... "Ah! u' panaro!!! Dicisse le cose giuste!
U' panaro! Allora, d'ora in avanti, ci possiamo capire, penso con un sospiro di sollievo.
Il classico "panaru", quello che - per intenderci - si adoperava in antico, quando non c'era nelle abitazioni l'ascensore, per ritirare la spesa dai fornitori. "Signora, calasse u' panaro!", gridava il garzone dalla tromba delle scale oppure dalla strada, arrivando con involti, coppi e coppini .
U' panaru che diventava un autentico ascensorino-montacarichi per calare i soldi per pagare la spesa e ritirare il resto.
Ma anche, lasciato lì a pencolare legato alla sua corda, era un eloquente segnale per indicare a chi si trovava sotto di raccattare da terra qualcosa che era caduto dabbasso ("Mi è caduto questo o quello. Me lo prendi per favore?").
Una volta, dalle parti della Cala - il vecchio porto di Palermo - proprio sul marciapiedi antistante La libreria del Mare, mi soffermavo guardare una giacca a vento di piumino tutta fradicia, ma in ottimo stato d'uso, buttata lì per terra. Nel mentre che guardavo, ecco scendere- quasi per magia - un panaro teso sulla sua corda sino alla mia altezza, accompagnato da una voce. Levando gli occhi, vidi una signora affacciata ald un balconcino a circa dieci metri di altezza che, a gesti, mi esortava a riporre nel provvido cesto la giacca appena caduta.
Tornando all'incontro con Giuseppe, avendo appurato che l'incomprensione non è dovuta alla sordia, ma ad improprietà linguistica, a questo punto glielo chiedo nel modo giusto, se abbia due "panari" da vendere.
Sì, ce li ha: uno è già pronto accanto a lui.
E l'altro?
"Ora vaiu e cciù pigghiu".
E s'incammina a passo lento, antico, con l'andatura di chi vive in una dimensione arcaica del tempo, in cui la frenesia dell'oggi è pura follia.
Si infratta nella boscaglia e, dopo un po', ritorna con l'altro panaro.
Ammiro entrambi i manufatti e gli dico che è veramente bravo!
C'è qualcuno che sta imparando con lui questo lavoro? - gli chiedo - Lo sta insegnando a qualcuno?
Questa volta mi comprende.
No, nessuno.
A nuddu ci piaci!
E' un arte che andrà a perdersi, penso io.
Gli chiedo quale compenso voglia per i due panari.
Me lo dice: una cifra davvero irrisoria che, in questa nostra epoca in cui tutto viene regolato con le tariffe orarie.
E' davvero niente.
Stupefacente! Incredibile! E' come se un pezzo di civiltà contadina fosse sopravvissuto, proprio qui nel cuore di una metropoli.
E' l'espressione perfetta d'una forma di economia sostenibile: materiali da costruzione a costo zero (si tratta di arbusti selvatici liberamente disponibili), mano d'opera a costo pressocchè nullo, perchè per Giuseppe l'accoppiata tempo/denaro funziona in maniera diversa.
In ogni caso il piccolo guadagno che egli ricava dalla vendita di ogni panaro (piccolo per i nostri parametri) per Giuseppe è solo un valore aggiunto: lui non lavora per far soldi con i panari, ma per passare il tempo secondo ritmi scanditi dalla sapienza contadina d'un tempo.
Giuseppe ci mostra che un mondo diverso sarebbe possibile: se ognuno sapesse fare delle cose e le facesse per passare il suo tempo, utilizzandole poi come merce di scambio per ottenere piccole somme di denaro oppure altre merci che, a sua volta, non è in grado di produrre, torneremmo probabilmente ad un punto di svolta epocale: sarebbero aboliti o fortemente limitati i padroni, perchè la logica del profitto non avrebbe più senso.
Ci muoveremmo verso una società più equa in cui ciascuno è in grado materialmente di far qualcosa che possa essere utile agli altri, una società in cui non ci sono solo servizi da vendere ma in cui si torna versoola dimensione più vera e genuina dell'uomo, come costruttore di manufatti.
E' un anziano contadino, ottant'anni suonati, una faccia intagliata nel legno, pelle come cuoio vecchio, solcata da un fitto reticolo di rughe, sordo come una campana.
Si chiama Giuseppe.
Se ne sta seduto tranquillo, d'inverno un passamontagna ficcato sulla testa e sopra un berretto a visiera di finta pelle, d'estate capelli bianchi e sottili come stoppie esposti all'aria, sempre mattiniero (alle prime luci dell'alba è già sul posto) e lavora con gesti lenti e sicuri ai suoi magnifici canestri, dall'aspetto solido e duraturo.
Ogni giorno ne fabbrica uno, partendo da materiale di costruzione liberamente disponibile: frasche di olivo selvatico opure di olmo ("ulmo") molto adatte per via della loro elasticità e canne tagliate per il lungo.
E' davvero speciale la sua abilità nell'intrecciare le frasche che, mentre le lavora, non ha ancora del tutto liberato dal fogliame, cosicchè sembra che il cesto vada prendendo forma direttamente da una pianta, per uno strano incantesimo.
Un giorno mi sono avvicinato e gli ho chiesto se potevo acquistare uno dei suoi canestri.
Dialogo con un sordo...
Non comprende.
Ripeto la mia domanda.
Identica sequenza.
Giuseppe mi mostra un apprecchio acustico inserito nell'orecchio.
Allora è poprio sordo!
Con un tono di voce più alto per vincere la sua sordia, ripeto ancora la mia domanda.
Niente!
Aiutandomi con i gesti, cerco di fargli capire di quale oggetto gli sto parlando.
Una scintilla gli si accende negli occhi... "Ah! u' panaro!!! Dicisse le cose giuste!
U' panaro! Allora, d'ora in avanti, ci possiamo capire, penso con un sospiro di sollievo.
Il classico "panaru", quello che - per intenderci - si adoperava in antico, quando non c'era nelle abitazioni l'ascensore, per ritirare la spesa dai fornitori. "Signora, calasse u' panaro!", gridava il garzone dalla tromba delle scale oppure dalla strada, arrivando con involti, coppi e coppini .
U' panaru che diventava un autentico ascensorino-montacarichi per calare i soldi per pagare la spesa e ritirare il resto.
Ma anche, lasciato lì a pencolare legato alla sua corda, era un eloquente segnale per indicare a chi si trovava sotto di raccattare da terra qualcosa che era caduto dabbasso ("Mi è caduto questo o quello. Me lo prendi per favore?").
Una volta, dalle parti della Cala - il vecchio porto di Palermo - proprio sul marciapiedi antistante La libreria del Mare, mi soffermavo guardare una giacca a vento di piumino tutta fradicia, ma in ottimo stato d'uso, buttata lì per terra. Nel mentre che guardavo, ecco scendere- quasi per magia - un panaro teso sulla sua corda sino alla mia altezza, accompagnato da una voce. Levando gli occhi, vidi una signora affacciata ald un balconcino a circa dieci metri di altezza che, a gesti, mi esortava a riporre nel provvido cesto la giacca appena caduta.
Tornando all'incontro con Giuseppe, avendo appurato che l'incomprensione non è dovuta alla sordia, ma ad improprietà linguistica, a questo punto glielo chiedo nel modo giusto, se abbia due "panari" da vendere.
Sì, ce li ha: uno è già pronto accanto a lui.
E l'altro?
"Ora vaiu e cciù pigghiu".
E s'incammina a passo lento, antico, con l'andatura di chi vive in una dimensione arcaica del tempo, in cui la frenesia dell'oggi è pura follia.
Si infratta nella boscaglia e, dopo un po', ritorna con l'altro panaro.
Ammiro entrambi i manufatti e gli dico che è veramente bravo!
C'è qualcuno che sta imparando con lui questo lavoro? - gli chiedo - Lo sta insegnando a qualcuno?
Questa volta mi comprende.
No, nessuno.
A nuddu ci piaci!
E' un arte che andrà a perdersi, penso io.
Gli chiedo quale compenso voglia per i due panari.
Me lo dice: una cifra davvero irrisoria che, in questa nostra epoca in cui tutto viene regolato con le tariffe orarie.
E' davvero niente.
Stupefacente! Incredibile! E' come se un pezzo di civiltà contadina fosse sopravvissuto, proprio qui nel cuore di una metropoli.
E' l'espressione perfetta d'una forma di economia sostenibile: materiali da costruzione a costo zero (si tratta di arbusti selvatici liberamente disponibili), mano d'opera a costo pressocchè nullo, perchè per Giuseppe l'accoppiata tempo/denaro funziona in maniera diversa.
In ogni caso il piccolo guadagno che egli ricava dalla vendita di ogni panaro (piccolo per i nostri parametri) per Giuseppe è solo un valore aggiunto: lui non lavora per far soldi con i panari, ma per passare il tempo secondo ritmi scanditi dalla sapienza contadina d'un tempo.
Giuseppe ci mostra che un mondo diverso sarebbe possibile: se ognuno sapesse fare delle cose e le facesse per passare il suo tempo, utilizzandole poi come merce di scambio per ottenere piccole somme di denaro oppure altre merci che, a sua volta, non è in grado di produrre, torneremmo probabilmente ad un punto di svolta epocale: sarebbero aboliti o fortemente limitati i padroni, perchè la logica del profitto non avrebbe più senso.
Ci muoveremmo verso una società più equa in cui ciascuno è in grado materialmente di far qualcosa che possa essere utile agli altri, una società in cui non ci sono solo servizi da vendere ma in cui si torna versoola dimensione più vera e genuina dell'uomo, come costruttore di manufatti.
A proposito di "panari", mi viene in mente un ricordo d'infanzia.
RispondiEliminaLa casa della mia infanzia si trovava al primo piano di una palazzina di inizio Novecento. Ogni giorno passava l'ortolano (addirittura ancora con il carrettello trainato dall'asino): ricordo che era un omaccione gigantesco, irsuto e arcigno. Si affacciava dalla tromba delle scale e l'anziana signora che stava da noi a tutto servizio si sporgeva dalla balaustra del pianerottolo per dargli la comanda. Quello annotava tutto su di un taccuino unto e bisunto. Quindi girava i tacchi e andava a prendere quanto ordinato.
Intanto la signora - Marietta come veniva chiamata da noi - zoppicando rientrava in casa, dopo aver calato il paniere - giustappunto - ed averne assicurato la corda al passamano della balaustra: rientrava per farsi dare dalla nonna i soldi per pagare. A questo punto, io schizzavo come un fulmine da un nascondiglio dal quale avevo seguito l'interazione, pronto a cogliere l'attimo, e slacciavo la corda, sicchè il paniere rovinava a terra seguito dalle spire della corda che si riavvolgeva mollemente su se stessa. Detto fatto, ritornavo a nascondermi, per seguire la seconda parte della scenetta.
Usciva Marietta e si accorgeva che la corda non era più dove l'aveva lasciata assicurata; arrivava l'ortolano con gli involti e si accorgeva che il paniere era cascato a terra.
Risultato: l'ortolano saliva metà delle scale e Marietta gli scendeva incontro.
Io, nascosto, me la ridevo...
Ad un certo punto, l'ortolano dovette avere qualche sentore che, dietro questa teatrino che si ripeteva puntuale ogni volta, ci potesse essere la mano d'un bimbo un po' birba.
E da allora, ogni volta che si trovava davanti al malfatto, gridava con voce stentorea "Tosto si'"!
Da quando fu così io me ne stavo immobile, più nascosto che mai, con il cuore in bocca.