domenica 23 marzo 2008

Jovanotti e la capacità d'esser da soli

Assieme a mio figlio, qualche settimana fa, abbiamo cominciato ad ascoltare l'ultimo Cd di Jovanotti (Safari). Ascoltando e riascoltando, alcuni brani presto ci sono divenuti familiari: mentre per l'ennesima volta sentivamo "Fango" - una delle nostre preferite, ma anche quella che, con un bel videoclip, ha fatto da traino mediatico all'intero Cd - mio figlio mi ha chiesto in modo impellente: "Ma cosa significano queste parole? Io non riesco a comprenderne il senso!" [riferendosi al refrain della canzone]

io lo so che non sono solo
anche quando sono solo
io lo so che non sono solo
e rido e piango e mi fondo con il cielo e con il fango
io lo so che non sono solo
anche quando sono solo
io lo so che non sono solo
e rido e piango e mi fondo con il cielo e con il fango

Ho cercato di rispondergli, anche se non è stata una cosa semplice.
In effetti, di primo acchito, per chi non ha dimestichezza con la letteratura psicoanalitica, le parole di Jovanotti sembrebbero alquanto enigmatiche e contradditorie. Infatti, ha aggiunto mio figlio:
"Come è possibile che uno dica che non è solo se è da solo?"
Il testo della canzone di Jovanotti, a ben guardare, è denso di ricordi emozionali che sembrano far riferimento alla rielaborazione d'un passato affettivo, in un caleidoscopio di immagini trasfigurate e fatte rivivere nel presente con una forte pregnanza emotiva. Come, ad esempio, illustra questo passaggio,

un uomo guarda la sua mano
sembra quella di suo padre
quando da bambino
lo prendeva come niente e lo
sollevava su
era bello il panorama visto dall'alto
si gettava sulle cose prima del pensiero
la sua mano era piccina ma
afferrava il mondo intero

rinviante alla dimensione infantile dell'esperienza, quella filtrata attaverso lo schermo protettivo degli adulti che, pur essendo silenti oppure discretamente in disparte, sono comunque presenti, poichè costituiscono l'ambiente "primario" dell'infante (e del bambino, successivamente) che inizia ad esplorare il mondo. I genitori ci sono sempre, seppure in modo non invadente (non sempre è necessario fare o dire), rappresentando quella "base sicura" dalla quale, un bimbo può intraprendere con sicurezza le sue escursioni nel mondo con un raggio di autonomia ed indipendenza via via più ampio.
Winnicott, in un suo saggio (
La capacità di essere solo, in Sviluppo affettivo ed ambiente, Armando editore, Roma, 1974), parla proprio di questo: cioè, della "capacità di essere solo" come di uno dei requisiti fondamentali della autonomia e dell'indipendenza.
Ma come si costruisce questa capacità?
Paradossalmente attraverso l'aver sperimentato la condizione (indubbiamente fortificante) dell'essere stati da soli "in compagnia". In particolare, è fondamentale, usando le parole dello stesso Winnicott,
"...l'esperienza di essere solo, da infante e da bambino piccolo, in presenza della madre. In tal modo la capacità di essere solo ha un fondamento paradossale, e cioè l'esperienza di essere solo in presenza di un'altra persona" (op. cit., p.31). Senza questa fondamentale esperienza non può costruirsi nell'individuo la capacità di essere da solo, nè può essere formulata - con una base di attendibilità psicologica - l'asserzione: "Io sono solo", come appunto dice Jovanotti nel suo refrain.
Sempre guardando al pensiero di Winnicott, nella frase
"io sono solo", innanzitutto, la formulazione del pronome "Io" implica il raggiungimento di uno sviluppo emozionale che consente di delimitare un proprio confine interno rispetto al mondo degli altri e alla realtà circostante. Nella combinazione "io sono" si esprime assertivamente la raggiunta consapevolezza del'esistenza d'un ambiente protettivo che consente all'individuo non solo di prendere forma ("Io"), ma anche vita ("sono"). L'enunciazione dell'intera formula "Io sono solo", infine, è espressione della "...consapevolezza che il bambino ha della continuità dell'esistenza di una madre attendibile, la cui attendibilità rende possibile al bambino di essere solo e di godere il proprio essere solo, per un tempo limitato." (ib., p. 35).
Alla luce di ciò, la solitudine non va necesariamente vista come un disvalore, qualcosa da evitare a tutti i costi (la "paura" della soitudine, gli "effetti negativi" della solitudine), ma anzi un elemento forgiante che può assumere, per l'individuo, un valore estremamente positivo.
In queto senso, la capacità d'esser solo è uno degli elementi basilari della "resilienza" cioè della capacità dell'individuo - insieme cognitiva, operazionale, emozionale - di affrontare situazioni stressanti emozionalmente e sotto il profilo esistenziale, oppure prove fisicamente impegnative e sfibranti.
La canzone di Jovanotti, pur con il suo impatto immediato d'una scarsa comprensibilità, ci consente una riflessione di più ampio respiro sul tema della solitudine e della capacità d'esser solo: una riflessione che, profondamente credibile - per come la formula Jovanotti, trae forza da una conoscenza fortemente intuitiva (che, in alternativa, potrebbe essere la conseguenza di un'esposizione personale ad un percorso di conoscenza e di esplorazione del proprio Sè più intimo).
E' comprensibile che i giovani di oggi che sono stati nutriti di televisione e videogiochi, non riescano a decodificare con immediatezza la profondità del testo di Jovanotti. Non possiedono quest'esperienza (quella della solitudine "in compagnia" di cui la scena prototipo è un bambino intento in un suo gioco, mentre la mamma in disparte svolge una sua attività e, ogni tanto, lo "tiene" con lo sguardo), poichè il più delle volte, quando sono stati da soli, da soli lo sono stati per davvero (i genitori fisicamente assenti oppure distratti totalmente da hobby e preoccupazioni) e lasciati davanti a uno schermo, a far loro da balia.
La possibilità "pura" dell'esplorazione e della scoperta, che non sia accompagnata da rumori, musiche, animazioni, effetti da "sballo", ingenera in loro, il più delle volte, noia e fastidio, perchè ad essi manca, appunto, la possibilità di rievocare un proprio patrimonio di situazioni in cui siano stati da soli "in compagnia": situazioni che avrebbero lasciata aperta la possibilità - il più delle volte differita - di sperimentare la condivisione e la relazione prima con i genitori reali e, successivamente, con le imago genitoriali introiettate.

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