venerdì 7 marzo 2008

Hair - The american love rock musical in tournée italiana: tra luci ed ombre



Dopo l’anteprima nazionale messa in scena al Teatro Colosseo di Torino, Hair (“The american Tribal Love Rock Musical”) il celebre musical ha iniziato la sua tournée italiana. Una delle sue prime destinazioni è stata Palermo, dove è stato rappresentato in due serate consecutive presso il cinema-teatro Metropolitan.

HAIR che, alla fine degli anni Sessanta, fu creato da James Rado e messo in scena a Broadway dal 1968 (dove ha tenuto banco per vari decenni), viene tuttora considerato il primo ed unico “Love-rock musical” che, grazie anche al successivo adattamento cinematografico, ha divulgato in tutto il mondo il messaggio di amore e di pace, nato nell’America di quegli anni ad opera di numerosi movimenti di contestazione giovanile da quelli più politicizzati a quelli “disimpegnati”, ma non per questo meno attivi nel loro pacifismo.
Di questi movimenti, il più appariscente anche per le sue scelte rispetto all’establishment – non programmatiche, ma “vissute”con forte e provocatoria determinazione assieme ad un pizzico di teatralità – fu quello che si coagulò attorno alla filosofia “hippy”, fondata sul triplice principio della rivoluzione psichedelica (di cui uno dei personaggi più carismatici fu Timothy Leary) che sinteticamente era espresso dallo slogan: “Turn on, tune in, drop out”.

Lo spettacolo, cantato e suonato dal vivo, è recitato in italiano da un cast di venti giovani talenti selezionati in Italia e negli Stati Uniti, mentre le canzoni indimenticabili - ormai entrate nella storia della musica - come Aquarious, Sodomy, Ain't Got No, I Got Life, Hair, Let The Sunshine In e riadattate da Elisa alla direzione musicale, sono rigorosamente in lingua originale. Le coreografie sono di David Parsons, geniale coreografo americano, mentre la regia è firmata da Giampiero Solari.
Elisa, che ha lavorato duramente a questo compito e che, per i giovani attori selezionati, ha ricantato personalmente tutto il repertorio di Hair, parlando del suo incarico, ha commentato: "E’ una sfida molto bella, ogni anno mi propongono di fare un musical con le mie canzoni, ma mi sembra un’idea senza senso. Questo lavoro, invece, è come una vacanza. Alcuni brani hanno un’anima così potente - ha continuato - con il mescolarsi del rock bianco e del soul che non potevano essere toccate. Noi però siamo i ragazzi dei rave, dei Daft Punk e, allo stesso tempo, siamo riusciti a farci ispirare ancora una volta dai Doors, dai
Beatles. Ma la scoperta vera sono le tante voci belle, giovani, che abbiamo incontrato, un patrimonio inesplorato".
Sono passati esattamente 40 anni dal debutto di HAIR a Broadway e ancora oggi, in questo adattamento, lo spettacolo - soprattutto nelle coreografie e nei brani cantati - mantiene intatta la travolgente forza musicale e la freschezza originaria del suo esordio, grazie anche alla soluzione di “allargare” la rappresentazione a tutta la platea, con momenti in cui giovani attori si ritrovano a cantare, danzare, piroettare tra il pubblico.
Nella messa in scena, nei testi delle canzoni e nelle battute della sceneggiatura originale si rinvengono temi di straordinaria attualità; la protesta contro la guerra, contro l’intolleranza, la brutalità e la disumanizzazione della società. L’amore, la felicità, la libertà come una possibile alternativa.
Il messaggio di HAIR trascende ogni barriera generazionale o culturale per diventare messaggio universale: nel musical e poi nel film di Milos Forman, comparso un decennio più tardi della prima rappresentazione a Broadway
quando già il movimento hippy aveva cominciato a sfaldarsi, convergono tanti elementi diversi. C’è la rappresentazione di un rituale, di una celebrazione estatica, della protesta civile, di un complesso e colorato happening, d’una commedia e perfino di qualche elemento di una tragedia, assieme alla celebrazione dei valori della solidarietà tra gli uomini, del pacifismo, della non-violenza.

HAIR, ai tempi della sua prima uscita, ruppe ogni regola teatrale, come del resto i suoi protagonisti - gli hippy – decidendo di vivere da “drop-out” ruppero ogni norma sociale stabilita. Se è stata lodevole l’intenzione di riesumare e riproporre al pubblico italiano, questo “classico” del pacifismo, la ciambella non è riuscita perfettamente. Ciò è dipeso per un verso anche per il fondamentale anacronismo dell’operazione (gli hippy sono belli morti e sepolti, considerando che, già nel 1967, alcuni desiderosi di sbarazzarsi dell’ingombrante etichetta avviata a diventare “commerciale”, avevano provocatoriamente celebrato un “funerale all’hippy”), per altri dall’impossibilità di adattarne i contenuti agli scenari contemporanei in cui le grandi idealità d’un tempo (di cui il movimento hippy fu un rigurgito) si sono p
erse per strada e tutti i governi s’impegnano in azioni di guerra il più delle volte ciniche ed interessate a condizione che la definizione di ciò che si sta facendo sia altra (le guerre non-guerre dei nostri giorni: Afghanistan ed Iraq insegnano).
La conseguenza è che, ai più giovani, mancano i presupposti culturali ed emozionale per capire a pieno la storia di Claude e dei suoi amici hippy. Quindi, davanti a questo spettacolo, soprattutto chi ha avuto modo di conoscere (ed amare) quello originario e il film di Milos Forman è andato incontro a qualche cocente delusione, pur avendo deciso di fargli onore e di non disertarlo sulla base di un pregiudizio.
Nel musical e nel film, erano molto strutturate sia la trama sia la parte “recitata” che faceva da ossatura ai più famosi brani musicali. C’era una storia ben riconoscibile, con parti e ruoli che assumevano spessore e profondità. Si capiva bene tutta la vicenda del giovane “contadinotto” Claude, appena arrivato a New York dall’Oklahoma rurale perché ha ricevuto la
cartolina-precetto per il Vietnam, i cui valori, dopo l’incontro con un gruppo di giovani hippy a Central Park, va in crisi. Claude, attraverso l’amore per una delle ragazze e l’affetto disinteressato da parte di tutti gli altri (che, nelle estreme conseguenze, giunge al “sacrificio” di Berger), riusciva ad intravedere un mondo nuovo e a farsene plasmare. La “storia” (c’è sempre bisogno di storie) faceva trepidare il pubblico, lo faceva indignare, commuovere: non era affatto banale, ma anzi portatrice di forti valori morali. Nell’adattamento attuale, tutto questo è venuto a mancare: le parti recitate sono deboli e confuse, i singoli personaggi non riescono a staccarsi dallo sfondo di un gruppo “fusionale” ed indifferenziato. Ciò è in parte dovuto ad una scelta di regia molto precisa, ma anche – probabilmente – ad una scarsa esperienza recitativa dei singoli personaggi che, più che attori, sono ballerini e canterini di gruppo, non possedendo, singolarmente presi, né una grande presenza scenica né abilità canore tali da consentirgli di avventurarsi in performance soliste, come è nella partitura originaria.
Gli adattamenti musicali sono in massima parte buoni e supportati da scelte coreografiche valide, anche se a livelli minimali: sono veramente pochi quelli che raggiungono una grandissima potenza espressiva e che si librano alti. E, in ogni caso, rispetto allo spettacolo originario, sono state privilegiate le parti corali, mentre sono state escluse i canti solisti che, secondo la migliore tradizione del soul e del gospel, a tratti, si distaccano dal coro. Il proporre Hair al pubblico giovanile nostrano (anche se nella platea molto affollata non mancavano i nostalgici, nel ’68 appena ventenni, come i ventenni del ’79 che, senza aver conosciuto il musical, s’appassionarono con il film di Forman) rischia seriamente di non veicolare più alcun messaggio: se i nostalgici si sono indignati per la mancata aderenza dell’attuale adattamento al testo originario, sono ben lontani oggi i presupposti per comprendere il senso della protesta pacifista di quel tempo.
Vero è che la regia, in fase di apertura, proprio nel tentativo di contestualizzare il musical, ha scelto di proiettare su un maxi-schermo alle spalle degli attori immagini della guerra in Vietnam e della protesta civile contro di essa, ma questo stimolo è rimasto, secondo alcuni, troppo debole e poco incisivo. Forse, per riattualizzare e rendere così il messaggio di pace veramente universale sarebbe stato il caso di elaborare un video che, pur sempre partendo dal Vietnam fosse corredato con un patchwork di immagini a partire dall’11 settembre sino a nostri giorni, mettendoci denro - se possibile - anche alcune rappresentazioni di ciò che è avvenuto - avviene - in Afghanista
n, in Iraq e sulla recente - attualissima - aggressione dei Palestinesi della Striscia di Gaza da parte degli Israeliani. Questo sì che sarebbe stato parlare! Ma per far ciò ci sarebbe voluta una dose di coraggio mediatico non indifferente.
Scollata dall’attualità di quel tempo, peraltro, l’operazione non è riuscita molto bene e s’è risolta in una banalizzazione: se nelle scene individuali la capacità discorsiva dei singoli personaggi sembra essere azzerata e priva di ogni dialettica, in quelle corali i giovani hippy - con il loro discorrere spezzato, con le loro risatine idiote, con i gemiti e i sussurri che simulano i momenti dell’amore, con le loro battute di stupido adattamento a linguaggi e culture regionali, producono soltanto un “balbettamento” comunicativo, finendo con il dare l’impressione di essere – in pieno accordo con gli stereotipi giornalistici dell’epoca e, purtroppo, anche attuali - un branco di rincoglioniti, annebbiati dalla droga, che poco hanno da dire se non un coacervo di parole stereotipate e fasulle.

"HAIR- The Tribal Love Rock Musical"

Direzione musicale: Elisa

Coreografie: David Parsons

Regia: Giampiero Solari

Image consulting e regista collaboratore: Luca Tomassini

Regista collaboratore: Nicoletta Robello

Produttore musicale esecutivo: Ali Soleimani Noori

Costumista: Francesca Schiavon

Luci: Marcello Mazzetti


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