giovedì 19 marzo 2009

L'uomo-scatola


Palermo.
Mattino.
All'angolo tra via Brigata Verona e via Sciuti, dove si conclude il fronte del mercatino rionale del mercoledì, si scorgono le ultime propaggini della consueta corte dei miracoli colorita e frenetica, fatta di ambulanti abusivi, di questuanti e di perditempo.
Proprio là all'angolo, c'è, in statuaria immobilità, un uomo-scatola.
Se ne sta tutto infilato sino alla vita dentro una grande scatola di cartone da imballo, con espressione contrita e addolorata.
Allunga la mano e con voce cantilenante ripete "Ho fame, ho fame".
Molti si fermano ad allungargli una monetina.
Escludendo che si sia infilato dentro la scatola per non patire il freddo (non è una giornata troppo fredda, via!) e considerando che la scatola è abbastanza bassa, tanto da non consentire di starci dentro in piedi, facendo arrivare la vita al bordo rimangono poche altre alternative: o al poveretto mancano le gambe causa amputazione, oppure le ha deformi e contorte, o ancora ha una coda da tritone che tiene tutta arrotolata al riparo di sguardi troppo penetranti.
L'ultima alternativa - la più plausibile - è che semplicemente egli tenga le gambe raccolte sotto il corpo in una scomoda posizione.
Ma allora perchè se ne sta dentro la scatola?
Secondo me, una genialata!
In un'epoca di corpi virtuali, questo personaggio ha inventato in modo rozzo la deformità "virtuale".
Occultando alla vista la metà inferiore del suo corpo, lascia che il passante proietti su quel vuoto d'immagine le sue fantasie e le sue personali rappresentazioni, lasciandosi prendere da esse e depositando più facilmente e più motivato psicologicamente - magari mosso a commozione - il suo obolo.
Dopo aver fatto il suo "turno" in quel punto, il tipo s'è spostato all'estremità opposta della strada, ricollocandosi nuovamente dentro la scatola.
Comunque sia, questo insolito personaggio mi ha spinto a ricordarmi di un romanzo che lessi tanti anni fa: il kafkiano "L'uomo scatola" del giapponese Kobo Abe: la storia un po' metafisica di uno che vive nel mondo costantentemente chiuso dentro una grande scatola di cartone che lo occulta del tutto alla vista degli altri, sino ai piedi, mentre lui guarda scorrere la vita attorno a sé - senza mai essere visto da alcuno e senza esporsi - attraverso piccole feritoie aperte nel cartone.
Mi piacque molto quel romanzo: ricordo che lessi con molto vigore, trovandolo una geniale metafora dell'assurdo nella condizione umana, anche se prospettava una situazione esistenziale di grande isolamento e solitudine.

Quella che segue è una recensione al libro che lessi a suo tempo e che ho ritrovato nel web.

Si ritrovano, in questo romanzo di Abe Kobo, scritto agli inizi degli anni settanta, quelle ossessioni tipiche dell'autore che gettarono non poco scompiglio nel panorama letterario giapponese del decennio precedente. Attraverso la paradossale vicenda di un uomo che decide di trascorrere dentro una scatola il resto della propria esistenza, Abe prosegue infatti il suo discorso sulla perdita d'identità dell'individuo nella società contemporanea, sulla rappresentazione di un mondo vissuto come trappola, labirinto, spazio claustrofobico. Prigioniero di questa realtà, l'uomo di Abe non può fare altro che reagire portando alle estreme conseguenze il processo di reificazione di cui è involontariamente parte, divenendo egli stesso una cosa, un uomo-scatola. Delle opere del decennio precedente Abe riprende anche quell'affascinante mescolarsi di elementi fantastici e quotidiani, che conferisce ai suoi romanzi un andamento onirico e dà vita a uno stile assai personale, sebbene non privo di influenze occidentali, prime fra tutte quelle di Kafka e Robbe-Grillet. Si può forse rimproverare ad Abe di comportarsi come uno dei suoi personaggi, di essere egli stesso prigioniero di ossessioni da cui non è riuscito a liberarsi, tuttavia queste stesse osservazioni testimoniano anche di un'autenticità e un coinvolgimento dell'autore nella propria opera che se non significano automaticamente buona letteratura ne sono certamente una premessa.

Ma, per associazione d'idee, mi è venuto in mente anche un brano di Lou Reed/john Cale, The gift (Il dono) che, a suo tempo mi era piaciuto straordinariamente.
Una canzone lunga contenuta nell'album White light/ White Heat, e con un finale - se vogliamo - terribile e disperante, ma sin dalla prima volta che ho ascoltato questo pezzo con la sua musica ipnotica e quella voce recitante come una nenia, m'è venuta la pelle d’oca.
In fondo si tratta di una grande storia d’amore che parla anche di tristezza e di solitudine. E il finale non importa. Non è reale, del resto.
Non vuole essere una canzone splatter, ma una bellissima e sconvolgente metafora della vita e dei suoi incontri mancati e delle intenzioni fraintesi e degli equivoci che, senza averlo previsto, ingenerano pesanti conseguenze e scavano abissi tra le persone.

1 commento:

  1. Ho questa paginetta salvata fra i miei preferiti da parecchi mesi.. ed ogni tanto torno sempre a leggerla :) Un pochino per l'affetto che mi lega al romanzo di cui hai voluto parlare, un po' perché è così facile rispecchiarsi in quel signore che dalla sua scatola chiede una monetina ed un sorriso..

    un saluto Mauro.

    RispondiElimina

Creative Commons License
Frammenti by Maurizio Crispi is licensed under a Creative Commons Attribuzione-Non commerciale-Non opere derivate 2.5 Italia License.
Based on a work at maurcrispi.blogspot.com.