martedì 28 dicembre 2010

In "Il 36° Giusto" ritornano gli ammazzavampiri modenesi di Claudio Vergnani


Claudio Vergnani continua a stupirci.
Con "Il 36° Giusto", di recente edito da Gargoyle (2010), ritornano gli ammazzavampiri modenesi con una nuova serie di avventure che si riallacciano immediatamente a quelle narrate in "Il 18° vampiro", anche se i due romanzi si possono leggere autonomamente con piena godibilità della trama.
La struttura del romanzo è semplice. Dopo l’attacco alla roccaforte vampiresca di Corsano, dopo il "caos vampirico" e la susseguente "mattanza" che concludono con uno scenario da apocalisse la storia precedente, i nostri anti-eroi sono momentaneamente "disoccupati" e sull'orlo del tracollo esistenziale, disgustati da ciò che hanno fatto e visto e, nello stesso tempo, psicologicamente svuotati, nel pieno di una sorta di spleen postraumatico.
Uno di loro, Gabriele, si ricicla come romanziere (e che sia la cifra dello stesso autore?), traducendo in romanzo le avventure di cui è stato protagonista.
Rossana, l'"amica", generosa finanziatrice delle imprese precedenti, ha deciso di tirarsi fuori da una partita sostanzialmente perdente per entrare in un ritmo di vita più normale e “borghese”.
Rimangono Vergy, roboante, spassoso e patetico assieme, e Claudio (il narratore, che qui per la prima volta esce dall'anonimato), a muoversi tra il senso di svuotamento, la depressione da mancanza di motivazioni e le nebbie di alcool e tranquillanti.
Poiché ci sono sempre vampiri-zombie da fare fuori e molti luoghi infestati da bonificare, per fortuite circostante, i due - dovendo sbarcare il lunario - riescono a rimettersi in pista al servizio di un ammazzavampiri di seconda generazione rampante, arrivista e atteggiato, tal Paride, che li prende al suo servizio per i lavori “sporchi”, che Vergy e Claudio svolgeranno sempre nel loro modo scassato e, in definitiva, da antieroi che, occasionalmente, si perdono - soprattutto il narratore Claudio, in pensose divagazione di stampo esistenzialista, in cui mostrano la loro natura di individui smarriti che cercano di dare un senso ad una vita latrimenti vuota.
"Non era generosità la nostra. Né altruismo. Cercavamo semplicemente di dare un senso a ciò che facevamo. Non che il senso in sé potesse bastare a giustificare tutta quella merda, ma non avevamo altro" (p. 296)
Le loro imprese (tra cui la lenta e perigliosa traversata d'un cimitero fatiscente, il sopraluogo al vecchio motel infestato, la sorveglianza prestata - a tipo di sgangheratissimo servizio body-guard - come contractor d'una ricca famiglia modenese che si reca in villa montana a trascorrere le feste di Natale, sino alla trasferta parigina, assoldati per libero un fatiscente e labirintico edificio - che tanto rievoca le atmosfere de "I misteri di Parigi" di Sue - per eliminare un vampiro solitario denominato "Il becchino") sono a dire il vero dei poemi grotteschi e tragicomici che servono all’autore per rappresentare lo sfascio delle metropoli, lo stato di abbandono di periferie urbane sempre più degradate, crepuscolari e decadenti, che tanto rimandano alle "Carceri" di Piranesi, dimostrando nell'autore una grande capacità evocativo-visionaria.


I vampiri-zombie, morti viventi che, pur corrotti e quasi cadenti a pezzi, continuano a rimanere attaccati ad una loro non-vita sono forse una metafora dell'inconcludenza che fa da pendant all'inettitudine esistenziale degli ammazzavampiri: entrambi condannati ad un ruolo di marginalità sociale e alla condizione di reietti della società produttiva.
Le avventure dei nostri eroi sono intercalate a periodi di riposo e di stanca, autentici momenti di “ozi di Capua”, in cui a farla da padroni sono ottenebramento alcoolico, mancanza cronica di donne e sesso, di soldi, di conforto domestico.
Le eroiche imprese servono ai due a ravvivarsi (ed è per questo che la ricerca di vampiri da quattro soldi da fuori diventa per loro un'urgenza, quasi una dipendenza non farmacologica), con il supporto di occasionali compagni di gesta: Alicia (l’avvenente segretaria di Paride), il nano ivoriano Matthew (che ricava di che vivere come macabro fotografo cimiteriale), la compiacente Elisabetta (che li riconduce al vigore di una sessualità sanguigna e promiscua), Gabriele (ex-compagno di "caccia" e neo-scrittore, che si aggrega a loro per un nuova impresa, avendo bisogno - dopo il suo primo exploit letterario - di materiale di prima mano per un nuovo romanzo).
L’essere eroi (o antieroi) per Vergy e Claudio (il narratore) è soltanto il prodotto secondario della loro tracotanza ed inconcludenza, al tempo stesso.
Alla fine, i due - malgrado tutto - riescono ad uscire indenni dalle loro imprese, sempre in condizioni pietose, ricoperti di sangue, brandelli di tessuti umani, deiezioni, vomito, fango putrido, e chi più ne ha più ne metta: disillusi, soprattutto. Perchè - uscendo sani e salvi per il rotto della cuffia da ogni impresa intrapresa - la loro vita non ha acquistato un briciolo di senso in più e, forse, è ancora più vuota di prima, perchè gli affetti "normali" e le possibilità evolutive di incontri se li lasciano alle loro spalle, bruciati dall'urgenza di sopprimere il vampiro di turno.
In un bilancio finale, tuttavia, nelle loro imprese non c’è un senso anche perché il loro uscirne per il rotto della cuffia, non cambia d'un millimetro le sorti del mondo e le sue derive inarrestabili: le loro vittorie sono del tutto ininfluenti nel modificare alcuni equilibri.
In un mondo così, fatto di rovine, di rifiuti, di cimiteri degradati, di periferie urbane disabitate e cadenti, non sorprende affatto trovare una residua popolazione di vampiri che agiscono dall’interno di corpi corrotti.
I veri vampiri – i cosiddetti “Maestri” – se ne stanno in disparte e le loro attività vanno avanti, malgrado e a dispetto degli ammazzavampiri che, per un paradosso di cui è piena la vita, vengono considerati proprio dai maestri come alleati nel tenere sotto controllo i vampiri-zombie che, imbarazzanti ed invadenti, rappresentano soltanto un sottoprodotto scomodo della loro attività che rimane il più delle volte occulta e poco evidente.
E' lecito chiedersi se nei romanzi di Vergnani non ci sia – nella contrapposizione tra “Maestri” e vampiri-zombie – una rappresentazione metaforica, appena velata, dell'agonismo/antagonismo tra capitalisti rampanti e onnipresenti e neo-proletari ridotti dai primi ad essere degli zombie, condannati a vivere una mezza vita (non caso il film-documentario di Sabina Guzzanti, sui fatti e misfatti successivi al terremoto aquilano è, evocativamente intitolato - con un abile neologismo - "Draquila", ovvero Dracula+Aquila).
Non è che, dunque, gli ammazzavampiri, esclusivamente polarizzandosi sui secondi, non stiano prendendo – in realtà – un granchio colossale, in quanto operano per il rafforzamento dei poteri occulti che governano la società?
Credo che in questa seconda opera narrativa di Vergnani, in maniera ancora più chiara rispetto a "Il 18° vampiro”, sia contenuta una grande metafora della società contemporanea.
Il linguaggio dei due amici, durante il compimento delle loro imprese, è istrionesco e picaresco, infarcito di frasi da caserma, puntualmente scandito da peti e scorregge. E ciononostante i personaggi (anche quelli minori) hanno tenuta ed esprimono una loro coerenza.
Ai loro discorsi, spesso scurrili e densi di termini scatologici, fanno da contraltare delle descrizioni paesaggistiche e di contesti urbani nelle quali Claudio Vergnani dimostra di essere un vero maestro, con un sapiente utilizzo del linguaggio per rappresentare vividamente luoghi ed ambienti, con intensa ed abile forza evocativa, con la sopresa di constatare che, prima o poi, ad impreziosire il testo arriva anche una citazione colta, che conferisce ulteriore profondità allo sguardo di Vergnani.

Dal risguardo di copertina
Pensavamo di aver smesso di uccidere i vampiri, invece abbiamo ricominciato a farlo. Ora che è accaduto quel che è accaduto, è diventato quasi un mestiere. Non devi più nasconderti per cacciarli. Sono reietti, emarginati, abbandonati dai loro stessi Maestri. Le retrovie di un esercito allo sbando. Non c'è posto per loro. Ma nemmeno per noi. E la loro presenza giustifica in qualche modo la nostra. La loro mancanza di futuro si intreccia con la nostra voglia di speranza. Loro e noi. I vampiri e i cacciatori. Una battaglia senza onore né gloria tra disperati, dove in mezzo stanno le prede innocenti. E forse c'è più colpa in noi, che possiamo scegliere, che in loro, schiavi di una sete che non possono spegnere. Loro sono nati assassini, mentre noi siamo l'estrema difesa, sempre sull'orlo dello sfascio. In qualche modo ambiguo e discorde, però, nell'inconsapevolezza innocente dei semplici, non cessiamo di confidare in un brevissimo e insperato momento di giustizia.

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