Shutter Island, l'ultima fatica di Martin Scorsese si presenta come un bel "psycho-thriller. Potrà piacere o non piacere, ma è sicuramente interessante perchè consente di gettare uno sguardo su di una realtà poco frequentata dai cineasti. Forse in passato, solo Frances ci aveva offerto una cruda rappresentazione della psichiatria manicomiale americani degli anni del maccartismo. Il prezzo da pagare, per chi si accosterà alla visione di questo film, denso di citazioni e di omaggi ad altri cineasti, è quello di un'atmosfera claustrofobica senza requie.
Shutter Island si presenta sin dalle prime battute, come un film allucinante e di delirio.
L'incurisone nell'isola in cui ha sede una struttura manicomiale giudiziaria, ha dei toni fortemente drammmatici, grazie anche ai cromatismi musicali orchestrati da Robbie Robertson, ex-componente di The band, il mitico gruppo rock che fece parte delle passioni giovanili di Martin Scorsese (e che ad esso dedicò anche un film: The last waltz).
Allucinazioni, incubi, deliri: questa la cifra che accompagna lo spettatore per tutta la durata del film.
Ma è l'isola in sé e tutto ciò che vi accade a indurre nello spettatore e nell'agente del FBI in ispezione questo umore delirante?
O c'è dell'altro?
Non è possibile dare una risposta a tale quesito senza rovinare allo spettatore il piacere della visione e della scoperta.
Occorre vivere sino in fondo l'avventura del film, con tutto il suo carico di angoscia e claustrofobia.
Anche se occorre fare attenzione ai piccoli indizi, agli incastri, alle coincidenze, perchè alla fine tutto va a posto come in un gigantesco puzzle.
Numerose ovviamente le citazione: tra cui l'omaggio a Hitchkoch con la scala a chiocciola del faro misterioso, che è anche l'ultima spiaggia della verità (compresa l'immersione nelle acque gelide dell'oceano per raggiungerlo), per non parlare di altri film in cui il protagonista vive la vicenda, ignorando un pezzo fondamentale di verità che lo riguarda (basti pensare a film come The others oppure a Il sesto senso).
La ricostruzione torva dell'ambiente manicomiale che funziona da luogo di cura ma che, nello stesso tempo, è una prigione (che tanto rimanda alle atmosfere dei campi di sterminio nazisti) è perfetta, ma va anche detto che i cromatismi, le atmosfere e, conseguentemente, la percezione che se ne ha variano molto in funzione dello stato d'animo dei personaggi e in particolar modo di Teddy Daniels (Leonardo Di Caprio), l'agente dell'FBI inviato ad indagare sulla scomparsa di una paziente.
Lo sguardo di Teddy si fa, nel corso dell'indagine, sempre più allucinato e smarrito, sino al disvelamento finale.
Shutter Island come struttura manicomiale giudiziaria è un'istituzione totale (assimilabile, dunque, a buon diritto ai citati campi di sterminio), ma risente anche di altri influssi. Come fa notare Oliver Sacks nella prefazione ad uno splendido volume fotografico "Asylums. Inside the closed world of state mental hospitals" (con le fotografie di Christopher Payne, 2009), i grandi istituti psichiatrici statali, negli USA nacquero con intenti filantropici (grazie all'incanalamento di donazioni generose da parte di privati) proprio per garantire a chi era in una condizione di difficile recupero (in assenza di terapie adeguate come sono quelle moderne prevalentemente psico-farmacologiche, sia pure integrate con altri approcci) una vita in un ambiente protetto, ma fornita di tutto quello che si poteva avere nel mondo esterno.
In ciò, Oliver Sacks va in controtendenza rispetto all'elaborazione storiografica di Michel Foucault (che vede le istituzioni manicomiali sin dai primoridi come luoghi di emarginazione e controllo del diverso) e alla lettura sociologica sulle istituzioni totali che annullano l'individuo data da Erving Goffman (Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza, Milano, Edizioni di Comunità, 2001, originariamente edito da Einaudi, nella collana "Nuovo politecnico", ai tempi delle grandi battaglie di Basaglia).
Poi, a causa del venir meno dei finanziamenti, a poco a poco quello slancio filantropico ispiratore andò affievolendosi e questi luoghi, concepiti come ambiti protetti per il riposo e per una vita tranquilla, presero lentamente a trasformarsi in universi concentrazionari, spesso dominati dalla volontà sadica di medici che sperimentavano terapie utili ad abbreviare i tempi di permanenza attraverso la conquista di una "falsa normalità", ovvero con la "guarigione" ottenuta attraverso interventi pesanti e devastanti (come l'elettro-shock terapia oppure la lobotomia transorbitaria).
Peraltro, l'ambientazione del film (e del romanzo) nel 1954 dà forza all'idea di una psichiatria al servizio del controllo panottico e della normalizzazione dei suoi cittadini più "estremi" e della sperimentazione di psico-tecniche per ottenere la docilità degli individui o per plagiarli.
Esemplari i due vertici "curanti" del manicomio di Shutter Island, impersonati da un Ben Kingsley, ipocritamente filantropico e all'avanguardia nelle tecniche di cura (siamo agli albori dell'era psico-farmacologica) a da un inquietante Max von Sydow, consulente esterno della struttura federale e forse ex-nazista aduso ai metodi dei campi di sterminio.
La psichiatria in questi ambiti opera, infatti, sempre a doppio scambio o meglio sul doppio registro del volto buono e di quello perverso (che il più delle volte rimane celato): questo è un dato di fatto che agisce nelle menti più labili, perchè severamente colpite da gravi traumi, ingenerando in esse rappresentazioni distorte e attivando paranoie.
Il film di Martin Scorsese, felice trasposizione del romanzo di Dennis Lehane, L'isola della paura (con titolo omonimo a quello dell film, in lingua originale) fornisce un'egregia rappresentazione di tutto questo: la combinazione sfacciata tra gli aspetti benevoli e filantropici e quelli sadici e violenti dei metodi di cura più hard pur di ottenere una "guarigione": a quale prezzo non importa, anche se nel frattempo, la personalità originaria dell'individuo dovesse scomparire.
La filantropia appare soltanto una facciata che può nascondere una feroce volontà di dominio e di potenza, mascherata con i paramenti della cura.
Ciò lo si osserva nell'ipocrisia di voler chiamare i residenti dell'isola "pazienti" e mai "detenuti" e di pretendere di trattarli con umanità, quando invece sono assicurati con pesanti catene o chiusi in celle degradate ed inospitali quasi fossero belve feroci che devono essere ammansite, ma è anche vero che è quel margine di percezione soggettiva, proprio dello sguardo di Teddy Daniels, a promuovere di continuo uno slittamento da un aspetto all'altro.
Shutter Island, come il romanzo del resto, si proopone anche come una storia sulla negazione del trauma e sul costante tentativo di annullarlo per non dovercisi confrontare e sul percorso sofferto, soffertissimo, di recupero della memoria di ciò che è stato fatto.
Ma per che cosa poi?
A cosa servono il recupero della memoria e la fine delle negazioni?
Forse è meglio vivere con la mente disintegrata che con il costante assillo del proprio passato traumatico...
Per vedere il trailer, clicca qui.
Scheda film
Regia: Martin Scorsese
Interpeti principali: Leonardo DiCaprio, Mark Ruffalo, Ben Kingsley, Michelle Williams, Patricia Clarkson,Max von Sydow, Jackie Earle Haley, Emily Mortimer, Elias Koteas, Ted Levine, John Carroll Lynch, Christopher Denham, Nellie Sciutto, Tom Kemp, Curtiss Cook, Joseph McKenna, Ken Cheeseman, Joseph Sikora, Drew Beasley, Ruby Jerins, Damian Zuk, Gary Galone, Dennis Lynch
Genere: drammatico
Durata: 138 min
Origine: USA 2010
Distribuzione: Medusa
Rating: VM 14
Uscita nelle sale italiane: venerdì 5 marzo 2010.
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