sabato 18 luglio 2009

"Il consumismo ti consuma", ovvero come siamo indotti a vivere di corsa, scartando e sostituendo


"Il consumismo ti consuma" è uno slogan noto che contiene una profonda verità, come mostra il saggio di Zygmunt Bauman "Vite di corsa. Come salvarsi dalla tirannia dell'effimero" (Il Mulino 2009), in realtà la fedele trascrizione della lectio magistralis tenuta dalla studioso all'apertura dell'anno accademico 2008-2009 dell'Ateneo bolognese.
Afferma Bauman:
La società dei consumi rimane florida fintanto che riesce a rendere permanente la non soddisfazione (e così, per sua stessa definizione, l'infelicità). Un modo di ottenere un simile effetto consiste nel denigrare e nello svalutare iprodotti di consumo subito dopo che sono stati lanciati nell'universo dei desideri dei consumatori" (op. cit. p. 52).
La follia del consumismo è, in effetti, la nostra rovina, non certamente un'ancora di salvezza.
La proposta politica nostrana che, per risolvere la crisi in cui ci troviamo occorre "consumare" di più è folle ed insensata.
Un tempo si dava rilevanza alla conservazione degli oggetti, al tramandarli da una generazione all'altra, all'utilizzarli come lascito per futura memoria (e, ogni tanto, con parsimonia, il rinnovamento), adesso lo pseudo-valore che ci è stato inculcato dall'industria dei consumi è quello che ruota attorno ad attività come "scartare", "svalutare" e "sostituire".
A casa, mi capita di guardare degli oggetti prodotti dalla nascente industria petrolchimica negli anni '60: tipo cestelli di plastica per la frutta, ciotole, stoviglie.
Quelli che a casa e che mia madre ha comprato quando ero bambino sono ancora intatti, perfetti, in ottimo stato d'uso.
Soltanto in seguito sono state introdotte delle varianti nella tecnica di produzione degli oggetti di plastica per renderli deteriorabili: altrimenti, il rischio sarebbe stato quello di saturare il mercato e non avere più acquirenti.
Anche le calze di nylon di prima generazione erano pressocchè indistruttibili e, anche in quel caso, la formula di produzione venne variata in modo tale da rendere il filo fragile e di breve durata.

Alcuni rappresentanti di mobili svedesi degli anni Sessanta hanno smesso di venderli proprio perchè erano di ottima qualità e duravano a lungo. E chi li comprava per arredare la propria casa, poi per molti - troppi - anni non aveva bisogno di un ricambio.
Ogni oggetto tecnologico attuale viene prodotto con una sorta di meccanismo ad orologeria regolato a tempo, per cui non ha più di una certa durata e, quando giunge l'ora, qualcosa inesorabilmente si rompe: dopodichè non vi è più alcuna convenienza a farlo riparare, stante anche l'elevato costo della manutenzione e dei pezzi di ricambio, ma è consigliabile acquistarne uno nuovo, possibilmente tecnologicamente più evoluto.
E se non è la tecnologia ad indurre a consumare, ci si mette la "moda": una serie di oggetti vengono dichiarati obsoleti dopo una stagione soltanto e, per stare al passo, occorre sostiturili con altri nuovi e aggiornati, costruiti secondo rinnovati dettami stilistici.
Oggi il leonardesco Uomo di Vitruvio dovrebbe essere più plausibilmente rappresentato, mentre spinge davanti a sé un carrello della spesa.


Bisognerebbe ritornare ad un modo diverso di concepire l'economia, ridimensionando l'
Homo consumens, che - attraverso un mostruoso feeding di martellamento pubblicitario e di induzione di falsi bisogni (o neo-bisogni) - è stato fatto crescere a dismisura, e ritornando alla cultura e alle prassi dell'
Homo faber, che è in grado di soddisfare da sé la maggior parte dei suoi bisogni. Certo, non è facile, come afferma Bauman. E' come se i potenti imprimessero su queste attitudini l'imprimatur di uno stigma. Sempre seguendo Bauman:
Darsi obiettivi raggiungibili,garantire facile accesso ai beni che corrispondono a tali obiettivi,e credere in limiti oggettivi ai desideri 'autentici' e 'realistici' sono i principali avversari dell'economia orientata ai consumi e sono destinati all'estinzione. l'autentico volano dell'economia finalizzata ai consumi è la 'non' soddisfazione dei desideri, unita alla salda e perpetua convinzione che ogni atto finalizzato alla loro soddisfazione lascia molte cose da desiderare e può essere migliorato.(op. cit. p.51)
Le soluzioni sono lì a portata di mano.
Come ad esempio, ritornare al lavoro artigianale e a forme di produzione locale, su scala regionale o anche su scala più ridotta ancora.

Oppure incrementare le abilità manuali nell'ordinaria manutenzione degli oggetti e nella fabbricazione a basso costo di pezzi di ricambio.
L'obiettivo vero dovrebbe essere quello di consumare di meno e di amplificare le proprie risorse lavorative, investendo in piccole imprese sostenibili, riciclandosi in mestieri che richiedano l'acquisizione di nuove abilità e di know-how.
E questo obiettivo potrebbe essere raggiunto incrementando le forme di piccolo prestito, ma non come viene fatto ora (con un opportunismo che ha del delinquenziale: basti guardare al volantinaggio selvaggio che viene fatto per le vie delle città per la promozione di prestiti e finanziamenti "convenienti") solo allo scopo di incrementare i consumi, fondandosi su denaro che non c'è, ma per avviare piccole imprese e, da parte dello Stato, incrementando iniziative formative che consentano ai volenterosi di impegnarsi in attività sostenibili (che non siano esclusivamente i soliti apprendimenti sul lavoro del volontariato).
La storia dei "banchieri dei poveri" e lo sviluppo pratico del microcredito sono,
al riguardo, esemplari (dalla storia di Muhamad Yunus alle prassi di Maria Novak, raccontate nel volume "Non si presta solo ai ricchi. la rivoluzione del microcredito", Einaudi, Torino, 2005).
Il libro di Mario Calabresi,
"La fortuna non esiste. Storie di uomini e donne che hanno avuto il coraggio di rialzarsi" (Mondadori, 2009), è un monito, ma anche un'interessante antologia di esempi folgoranti tratti dall'America della crisi pre-Obama, sulle maniere per rialzarsi in piedi e riprendere ad andare, ma in modi del tutto nuovi e creativi, in un certo senso reinventandosi la vita e le possibilità lavorative.

Non crediamo dunque ai nostri politici quando dicono che per uscire dalla crisi bisogna consumare di più.
Non crediamo ai sostenitori della "finanza creativa".
Le loro sono ciniche menzogne.

Consumare di più ci porta inesorabilmente verso il baratro e ci impoverisce: di fatto, perchè promuove un depauperamento delle risorse disponibili (che sono sempre più esigue) e dello spirito, perchè ci induce a porre le ragioni della nostra sopravvivenza in qualcosa che è esterno a noi e che viene spostato sempre più in là, ad un pelo dalla nostra possibilità di raggiungerlo e di farlo nostro (ed in ogni caso. se ciò accade, rimane soltanto un evento effimero, presto travolto dall'insorgere di nuovi bisogni che ci spingono ad un'affannosa corsa in avanti).
E' questa la verità ineludibile.

Certo, siamo di fronte ad una battaglia difficile: ma è una battaglia che deve essere combattuta.
E' in gioco l'alternativa tra la libertà delle proprie scelte e l'asservimento sempre più totalizzante ad un sistema dittatoriale (che, soprattutto, rende sempre più schiave le nostre menti e ha un effetto paralizzante sullo sviluppo libero e fantasioso delle nostre attitudini).

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