giovedì 14 ottobre 2010

The way we were: il gioco del Giro d'Italia


Da piccoli (e si parla, grosso modo, della generazione degli anni del dopo guerra, quella che sostanzialmente - con un'ampia approssimazione - fece il Sessantotto) uno dei giochi preferiti per riempire le lunghe giornate estive trascorse in spiaggia a Mondello, era "Il giro d'Italia" che noi chiamavamo anche "La pista".
Per poterci giocare erano essenziali due componenti: una statica e l'altra dinamica.
Quella statica era costituita da una lunga pista a circuito, realizzata sulla sabbia molle in modo uniforme mediante il trascinamento per le gambe del più pesante dei candidati al gioco, in modo tale che con il suo deretano si scavasse un lungo solco regolare con le sponde rialzate e le curve sopraelevate lungo il margine esterno. Secondo la fantasia del "trascinatore" nella "pista" così realizzata potevano dominare i rettilinei, le curve, le doppie curve e persino le serpentine. Oppure potevano esservi tutti gli elementi assieme per realizzare un percorso irto di difficoltà: se si voleva, si poteva aggiungere - con un po' di lavoro manuale in più - anche una chicane.
Quella dinamica era data da grosse biglie di plastica colorata (in giallo, azzurro, rosso, viola, nero) per metà, e trasparente per l'altra metà. All'interno, sul piano sagittale della piccola sfera era allocata la foto di un ciclista (uno dei grandi campioni di quegli anni), raffigurato nel volto soltanto oppure a figura intera in piena azione. Qualche volta, nel tondino centrale c'era l'effige di calciatori, oppure di piloti di Formula Uno.
Le regole erano semplici: ciascun giocatore si attribuiva una o più biglie e con queste si partiva. Si decideva chi dovesse fare il primo lancio con uno spareggio a chi mandava più distante la propria biglia.
Era previsto un lancio a turno, che consisteva nello spingere a velocità la biglia in questione con uno zicchettone delle dita (l'indice fatto scattare come un grilleto dal pollice), il più velocemente possibile nei rettilei, con accortezza nelle curve. Chi, alla fine del primo giro di lanci, era in testa rilanciava per primo. Chi usciva di pista, passava un turno e riprendeva alla serie successiva di lanci.
Presto c'erano i doppiati e i bi-doppiati. Altri ragazzini - non giocatori -si raccoglievano attorno alla pista e facevano il tifo per i diversi ciclisti in lizza.
In presenza di tiri che richiedovano una traiettoria difficoltosa, il giocatore - come nel bigliardo - studiava a lungo la strategia di lancio migliore.
Per tutti noi - giocatori e spettatori - quelle biglie colorate erano veramente i ciclisti o i piloti di formula uno.
E ciascun giocatore s'identificava pienamente con il ciclista o pilota di cui era presente soltanto l'icona.
Il ciclista era lì sul circuito di gara e noi, al tempo stesso, eravamo lui.
Erano questi i nostri gioci virtuali...
Si potrebbe dire - con linguaggio moderno - che ciascuna biglia con l'icona del ciclista preferito fosse l'avatar di ciascun giocatore.
Si stabiliva in anticipo quanti dovessero essere i giri da compiere per ultimare la gara.
Potevamo passare ore e ore intenti in questo gioco che ebbe un notevole impulso quando (io avevo un po' meno di dieci anni) un mio cugino più grande si trasferì con tutta la famiglia a Palermo. Lui, già più maturo, si interessava molto di ciclismo e automobilismo e, quindi, con l'aiuto di una fantasia fervida, divenne presto organizzatore e animatore assieme del gioco.
Mi sono ricordato di tutto questo, guardando al cinema Una sconfinata giovinezza di Pupi Avati: il protagonista è fortemente vincolato al ricordo d'infanzia di un gioco di questo tipo fatto tuttavia in povertà, essendo i "corridori" realizzati con tappi di bottiglia di metallo (del tipo da birra o da gassosa), sulla cui superficie concava venivano incollati i volti dei ciclisti ritagliati dall'album delle figurine o da riviste periodiche o da quotidiani.
Ma le modalità del gioco e l'infiammarsi di entusiasmo per i propri ciclisti con la rievocazione di gesta note - realmente accadute - del Tour de France o del Giro d'Italia erano identici.
Quelle "pedine", chiuse in un sacchettino di stoffa, il protagonista della storia le porta sempre con sé da un decennio all'altro e rimangono con lui come aggancio ultimo ad alcuni ricordi del passato mentre la sua memoria si dissolve nelle nebbie dell'Alzheimer.

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