lunedì 12 gennaio 2009

La fondamentale "incertezza" della medicina contemporanea riflessa nell'esperienza di un paziente/scrittore


Di questi tempi, fioccano saggi e opere letterarie che, in forma diaristica o romanzata, trattano di esperienze di malattie e guarigione, e - per quanto riguarda noi - di rapporti con il Sistema sanitario nazionale. Alcune sono eccessivamente polemiche, mentre altre riescono a puntare il dito, non tanto sul "marcio" che, a
chiazza di leopardo, indubbiamente c'è nel nostro sistema sanitario, quanto piuttosto sulle sue "disfunzioni". Appartiene alla tipologia della saggistica "diaristica" il piccolo volume del giornalista Roberto Levi, preceduto dall'accattivante presentazione di Umberto Veronesi, "Lo sapevo, non dovevo ammalarmi. Un uomo alla ricerca della sua diagnosi" (Feltrinelli, 2008). L'autore (che ha inizato la sua carriera giornalistica nel quotidiano "La Notte" come cronista di nera, notista di costume ed inviato sportivo e che, dal 1996 cura su "Il Giornale" una rubrica quotidiana di critica televisiva) racconta in prima persona d'una propria esperienza di malattia (così sembrerebbe, salvo ad avanzare il dubbio che possa trattarsi d'una finzione letteraria), dal riconoscimento dei primi sintomi all'avvio d'un itinerario tortuoso e complicato per identificare una possibile diagnosi, un vero e proprio "calvario", che,descritto in modo ironico e disincatato,con toni talvolta dissacranti, lo porta ad entrare in contatto con diversi aspetti - pubblici e privati - del mondo della terapia e della cura (perfino con le medicine alternativa e con la dietologia).
L'autore è, appunto, un "uomo alla ricerca della sua diagnosi" e il suo percorso, affine a quello rappresentato da Nanni Moretti nell'ultimo episodio ("Medici") in "Caro diario..." presenta delle vicende quasi paradossali e grottesche.
Ricordiamo qui che "Medici" è la cronistoria, con una ripresa iniziale autentica, della lunga malattia che Moretti aveva contratto. Diagnosi e medicine sbagliate, medici poco disposti ad ascoltare. Poi il paradosso finale: quella che sembrava una malattia della pelle era un tumore benigno e i sintomi erano riportati da una semplice enciclopedia medica.

Ma, tornando al nostro libro, dietro l'ironia graffiante s'intravedono alcune disfunzioni del sistema sanitario (grandi e piccole), che tuttavia sembrano dipendere in massima parte da un'umanizzazione ancora alquanto precaria nella relazione intercorrente tra i "sacerdoti" della diagnosi, della terapia e della cura e i "pazienti", secondo una geometria che non è mai armonica e paritaria, ma sempre segnata da una forte asimmetria e da un fondamentale squilbrio nel gioco di forze in campo. Il paziente viene rappresentato come una "vittima" del sistema, anche se alcuni dei suoi patimenti derivano dall'incertezza che tuttora domina l'approccio alle malattie, dall'impossibilità per i medici - in una grande percentuale di casi - di formulare diagnosi sicure, dal collidere di scuole di pensiero diverse, dall'incidenza pesante - infine - di interessi personali.
Il vero problema, spesso ignorato o preso sotto gamba, è che lo scientismo dominante e la necessità di trasformare la pratica medica in commercio di farmaci e di pratiche strumentali costose hanno oscurato fin troppo l'empirismo della Medicina, la sua natura di scienza "debole", le sue incertezze, benchè interessi commerciali predichino il contrario nei media e attaverso i loro "portavoce" ufficiali, creando false speranze e l'aspettativa non realistica che, per qualsiasi sintomo, ci sia una diagnosi ed una "cura" risolutiva, laddove invece la filosofia ippocratica ci ricorda che, a volte, "Il meno è il meglio" e che, di fronte a tante situazioni morbose incerte e poco chiare, occorrerebbe imparare a "convivere" e ad accettare, ponendosi da medici in una posizione di umiltà e di disponibilità all'ascolto della singolarità di "quel" paziente.


Laddove, invece, un paziente con sintomi oscuri e poco chiari viene spesso catagolato come un ipocondriaco o licenziato con superficialità con frasi del tipo ("E' una banale gastrite!", oppure "Non è niente", oppure "Una bella notte di sonno e passa tutto...", per non dire le famose frasi latine di conforto, quali "In amaritudine salus!" o ancora "Sursum corda!").
Niente di peggio, poi, quando le paura e i timori d'un paziente, candidato ad una diagnosi, o la sua franca ipocondria s'incontrano con la prosopopea e la superbia di alcuni specialisti e dei grandi luminari, com'è raffigurato con acume e con gustosa ironia da Daniel Pennac in "La lunga notte del dottor Galvan" (Feltrinelli, 2005).
Forse, soltanto quando si crea un'attitudine interiore di "accettazione" si possono realizzare le premesse per il ristabilirsi d'un equilibrio psicosomatico che apre la strada alla guarigione con la percezione di una qualità di vita sicuramente migliorata (percezione sempre soggettiva, si badi bene, non necessariamente oggettiva e legata alla consapevlezza di una "restitutio ad integrum").
Resta comunque certo che, in Italia, vi è ancora moltissimo da fare per una umanizzazione delle pratiche mediche e della relazione tra "paziente" e "curanti", a qualsiasi livello i secondi si trovino nella "catena" della cura.
Molte delle sofferenze, descritte da Levi nel suo piccolo libro, e degli sballottamenti da un'esperto all'altro, dall'ospedale pubblico alla clinica privata, dall'ambulatorio alla corsia d'ospedale (tutti motivati dalla necessità spamodica di trovare risposte a quesiti, dubbi, incertezze), come tappe della sua personale odissea, derivano soprattutto da un'insensibilità del mondo dei curanti nei confronti di chi è portatore d'una malattia o d'una sindrome o d'una costellazione di sintomi per la quale non si trova ancora un'etichetta. E' la qualità della relazione ad essere spesso scadente e questa percezione, vissuta dai pazienti sulla propria pelle con un forte senso di inferiorità (per via di quella asimmetria di rapporti di cui s'è detto) suscita disagi (che con un po' di accortezza e di sensibilità in più sarebbero evitabili) che nulla hanno a che vedere con la malattia in senso stretto.
E' ciò che sottolinea Umberto Veronesi nella sua breve ed incisiva presentazione al volumetto.

Queste le parole di presentazione al volume di Roberto Levi, riportate nel retro di copertina:

Provate a immaginare: un giorno vi comunicano che i vostri valori sono fuori norma e gli esiti incomprensibili degli esami stabiliscono che avete qualcosa che non va. Che cosa non va? Il problema è proprio questo: che cosa? Qual è la diagnosi? Dopo il ricovero "precauzionale", il paziente subisce ogni tipo di esame invasivo e i medici si affastellano attorno al suo letto per toccarlo, palparlo, auscultarlo, diagnosticarlo. Le ipotesi si accavallano, la medicina brancola nel buio e i dottori non sanno far altro che riempirlo di cortisone e assicurare che la causa del suo male sarà presto scoperta. Il paziente è ottimista, ma i vicini di letto !o mettono in guardia:"Senza diagnosi non sei nessuno". Il paziente si trasforma in un "cercatore di diagnosi". Consulta specialisti, dal luminare all'omeopata, e decide di tornare in ospedale, per un'altra "ricerca". Ed ecco i vecchi amici, e ancora esami, dottori, ipotesi azzardate. Niente da fare. Il paziente viene dimesso. E adesso? Le cure? Cosa dirà ad amici e parenti? In ospedale non sanno rispondere neppure a questa domanda. Forse al prossimo ricovero potranno dirgli qualcosa di utile. Un libro divertente e arguto, paradossale e vero, da tenere in tasca o in borsa ogni volta che facciamo la fila per un ticket, a ogni ritiro di esami clinici, a ogni sguardo melanconico che ci dice quanto sembriamo stanchi, pallidi, fuori forma, a ogni check-up parziale o totale. A ogni visita specialistica, in sala d'attesa, spiando gli altri pazienti.

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