mercoledì 18 giugno 2008

Cosa si fotografa quando si fotografa?

Un bel dì, camminando, la mia attenzione è stata attratta da un paio di meravigliose scarpe sportive di un bel rosso, abbandonate a terra. Asfalto nero, scarpe rosse: uno straordinario contrasto cromatico! Ma il bello era anche la "postura" delle due scarpe, come se qualcuno le avesse disposte in quel modo a bella posta per comunicare un messaggio o trasmettere un'emozione. Ragionando in termini estetici, avrebbe potuto trattarsi di un'installazione di arte "spontanea" o "istantanea": non sono un esperto in materia e, mancandomi i termini tecnici, tiro un po' ad indovinare.


Non erano soltanto l'oggetto in sé, il cromatismo, il gioco soggetto-sfondo ad incuriosirmi e ad attrarre la mia attenzione, ma anche il fatto che tutt'attorno, quasi a completare il quadro fossero disposte delle foglie secche e dei mozziconi di sigarette, ma anche un "santino" della campagna elettorale ancora in corso.
"Affascinante!", ho pensato.
E, visto che avevo con me la macchina fotografica, mi sono accinto a tirare qualche scatto.
Mio figlio, più che altro annoiato delle lungaggini, mi ha chiesto: "Ma cosa c'è da fotografare?"
Ho avuto molte cose da rispondergli. Alcune gliele ho dette subito, molto spontaneamente, altre sono state il frutto d'una riflessione successiva.
Innanzitutto, chi ha la macchina fotografica in mano e ha una consuetudine a dare una sbirciata al mondo attraverso l'obiettivo, tenderebbe a fotografare d'istinto tutto ciò che gli capita a tiro. E, tante volte, non avendo con sè il proprio apparecchio, davanti a qualche scena interessante ed unica, si trova a rammaricarsi "Mannaggia! Avessi avuto la macchina fotografica con me!". E’ l’occhio fotografico ad attivarsi, implicando quasi una sorta di meta-livello nella visione: un bel racconto di Calvino, di cui purtroppo non ricordo il titolo, parla proprio di questo. Un fotografo in preda ad una crisi esistenziale prende tutte le sue foto, frutto di una lunga attività, e comincia a distruggerle a colpi di forbici, riducendole in frammenti, strisce, coriandoli. Ogni frammento richiude in sé un pezzetto di immagine (di mondo): i frammenti giacciono ora sul pavimento, formando un disegno una strana combinazione sfaccettata di immagini. Viene il momento di rimuovere le macerie: il fotografo si sofferma ad osservare e, di getto, la sua attitudine fotografica prende il sopravvento. Febbrile come in uno stato di necessità assoluta, afferra la sua fotocamera e riprende a fotografare le infinite combinazioni di frammenti d’immagini che si stendono davanti ai suoi occhi.
La tendenza a fotografare molto è tanto più accentuata oggi, da quando si usano le fotocamere digitali, anche perchè è possibile esaminare subito la propria inquadratura, valutare il risultato e rettificare il tiro all'occorrenza, ma è anche possibile indugiare a fotografare singoli dettagli, laddove l'uso delle pellicole tradizionali spingeva ad essere più parsimoniosi negli scatti.
In secondo luogo, fotogrando, si legge la realtà, la si decodifica, la si interpreta (e ciò accade non soltanto ai grandi maestri della fotografia, ma anche ai fotografi della domenica). La scelta dell'inquadratura, la maggiore o minore centralità del soggetto, la scelta di una profondità di campo, l'inclusione o meno di un certo dettaglio sono al servizio non della traduzione della realtà osservata in una testimonianza "oggettiva", ma alla rappresentazione di un punto di vista fortemente soggettivo.
Del resto, la tendenza ad "interpretare" la realtà osservata è - da un punto di vista neurofisiologico - già una caratteristica dello sguardo, cioè è il frutto dell'elaborazione centrale (corticale) degli stimoli visivi periferici, che giungono alla corteccia ottica come dati (input) per trasformarsi in "percetto", attraversamento un processo di elaborazione dell'immagine molto complesso (che include anche il collegamento tra ciò che è percepito e certe emozioni: da qui - secondo alcuni - il peculiare fenomeno del déjà vu).
In terzo luogo, una foto racconta in sintesi una storia, come in quest'altro caso.


Ciascuno, davanti ad una certa immagine, può trovarsi stimolato a raccontare (raccontarsi) una storia.
Ciò è evidente in un certo uso che il giornalismo fa della cosiddetta "foto-notizia", in cui l'informazione viene data con l'ausilio di una foto che guida il lettore verso una decodifa particolare dell'evento di cui si vuole parlare. La foto può essere molto più efficace di molte parole e il trafiletto che segue può dare qualche delucidazione in più, senza aggiungere nulla tuttavia ad un primo impatto fortemente emozionale dell'immagine proposta che condiziona, a priori, la decodificazione cognitiva della parola scritta.
Ogni foto ci racconta una storia e stimola degli interrogativi.
Porsi degli interrogativi e ad essi dare una risposta di tipo congetturale è già un modo per costruire in embrione una narrazione.
Nel caso delle scarpe rosse, quindi, verrebbe naturale chiedersi come siano finite lì; perchè siano state abbandonate; o anche perchè siano state collocate in quella posa; qualcuno ha inteso forse trasmetterci un messaggio?
Guardando alla foto delle scarpe rosse, in più, potrebbe anche affacciarsi l'ipotesi della falsificazione: non è che, per caso, sia stato lo stesso autore della fotografia, a disporre le scarpe così? Si tratta di un'instantanea scattata fortunosamente oppure di una "posa" artificiale e studiata?
Se si è curiosi a sufficienza, si possono generare Infiniti interrogativi che, dunque, portano il fruitore della foto a costruire delle storie.
Ognuno costruirà la sua storia, collocandovi le sue emozioni.
Ecco che una foto, così, diventa il luogo delle proiezioni mentali di chi si trovi ad osservarla e, per estensione, una vera e propria "macchina per sognare", com'è in una scala infinitamente maggiore il cinema (che altro non è che, nell'invenzione iniziale, una serie di foto in sequenza, fatte scorrere velocemente davanti allo spettatore), in definitiva un dispositivo che apre la nostra mente ad una prospettiva di infinite storie.

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