sabato 22 maggio 2010

Nel Dracula di Bram Stoker il fascino del Nord


Nella mia costante ricerca di testi sul tema della vampiro mi sono imbattuto in un piccolo e denso saggio della Lorinczi. Dracula & Co: Il richiamo del Nord nei romanzi di Bram Stoker (CUEC, Cagliari, 1998) è una vera chicca per chi è appasionato di letteratura e saggistica sul tema del vampiro.
Qui, l'autrice, docente di Linguistica romanza presso l'Università di Cagliari e autrice di molti saggi (tra i quali, sempre sul tema del vampiro, Nel dedalo del drago. Introduzione a Dracula (Bulzoni, 1992) e Paesaggio marino con dame vittoriane. Tre saggi su Dracula (CUEC, 1995) , con un'acuta analisi disquisisce sul profondo radicamento "nordico" e vichingo del corpus di miti e leggende sul sanguinario Conte transilvano, ponendoli in relazione con le tradizioni mitologiche tramandate da alcuni poemi epici (tra i quali spicca il Beowulf) e con la figura eroica dei "Berserker".
Inoltre, analizzando alcuni dettagli contenuti ne La dama del sudario e in un altro romanzo meno noto di Bram Stoker, Il gioiello delle sette stelle (1903), l'autrice, con un approfondito lavoro ermeneutico (come, ad esempio, sul ricorrere del numero sette, a partire dalle sette stelle della costellazione del Grande Carro) e con lo svelamento di alcune insospettabili comuni radici linguistiche, mostra come il vampiro di Bram Stoker e tuttio il corteo dei vampiri letterari che si sono succeduti lungo questo stesso clinamen siano permeati dalla forza attrattiva del grand Nord, non solo un semplice punto cardinale, ma anche concetto culturale nell'immaginario britannico agli albori del XX secolo.
Nelle implicazioni del nome Dracula molta materia, anche fonetica, confluisce non soltanto da draka, ma pure da draugr, spettro del morto nella cosmologia dei popoli nordici. Draugr - spesse volte spettro di un uomo malvagio - vive nel tumulo, nella tomba da dove può liberarsi con grave danno per i vivi. Per prevenire tale evenienza, il cadavere sospetto viene decapitato o lo si fissa al suolo per mezzo di un palo conficcato nel corpo. Diversamente, egli esce dalla tomba, sempre al tramonto, in quanto la luce del sole - il fuoco per eccellenza - lo ucciderebbe bruciandolo. Tutto questo ricorda da vicino le caratteristiche del vampiro letterario, mentre i mezzi per annientare il vampito Dracula e il draugr sono, come si è appena visto, addirittura identici" (p. 34).
Tra l'altro ci viene ricordato dall'autrice che le credenze sui vampiri riposano su ancestrali idee legate alle rappresentazioni escatologiche e alle ansie del dopo-morte, oltre a quelle scaturenti dall'inquietudine nel rapporto con i defunti che, per malvagità o invidia, possono fare ritorno per insidiare in qualche modo i vivi.

mercoledì 5 maggio 2010

The way I was - Giochi di sabbia, da piccolo e da grande

Estate 1952. Io e i miei legni

Questa foto ha una sua storia ed apre uno scenario sui miei giochi da spiaggia quando ero piccino.
Ovviamente, secchiello, paletta ed innaffiatoio erano immancabili.
Ma io volevo di più...
Non mi bastavano questi semplici strumenti...

Volevo costruire con la sabbia e dare forma alle mie fantasie.
E, dunque, assecondato da mia madre, tenevo con me un'intera scorta di legni (tutti raccolti in spiaggia) che servivano da materiali da costruzione, per fare ponti rampe, ponti levatoi, palizzate, perfino pavimenti sospesi in modo da poter realizzare nelle costruzioni di sabbia (castelli ed altro) concamerazioni su più livelli.
Di questi pezzi di legno di varia foggia io ero assolutamente geloso: erano un mio patrimonio personale e viaggiavano sempre con me, contenuti in una vecchia borsa di stoffa verde con manici di legno che mia madre mi aveva dato, proprio per questo scopo.

In una fase successiva, crescendo la mia capacità di movimentazione di carichi più ingenti e avendo ricevuto in dono dai miei una bella pala di metallo, scavavo profonde ed articolate trincee. Oppure fossi profondi con l'obiettivo di raggiungere il livello del mare e creare, al fondo della buca, una polla di acqua salmastra.
Raggiungere l'umido era una meta ambita, ma anche la fine del gioco perchè l'acqua corrodeva le pareti del fosso che cominciavano a franare, compromettendo tutto il lavoro fatto.

Poi, sono passato alla fase delle grandi buche che venivano mascherate con una copertura distecchi leggeri e di sabbia: delle vere e proprie trappole...
E fu una fortuna che nessuno si sia mai fatto male.
..

Con mio padre - ma questa è stata una cosa che facemmo soltanto due o tre volte - costruivamo sulla spiaggia il "vulcano".
Si faceva così: formavamo una grande montagna di sabbia, prediligendo all'inizio quella umida, ma non bagnata, perchè si compattava meglio per creare la camera di combustione e il camino.
Quando la montagna era sufficientemente alta - e in genere veniva di foma conica, come l'Etna - mio padre scavava un cunicolo orizzontale nella sua base, sino al centro. Quindi, partendo dalla sommità faceva un secondo cunicolo sino a congiungerlo con la cavità centrale: e così il vulcano era pronto. A questo punto, bisognava soltanto riempire il punto di congiunzione di materiale combustibile e dargli fuoco.
Di tutti questi aspetti "tecnici" si occupava mio padre...

Se il tiraggio era buono e se si aveva l'accortezza di aggiungere anche molta carta, dal cratere del vulcano cominciava a venire fuori un bel fumo bianco, con grande delizia di tutti i bagnanti presenti.
Era questo il motivo per cui il "vulcano" non si poteva fare ogi volta che avrei voluto: ma io, a mio padre, glielo ricordavo sempre perchè il divertimento era davvero troppo grande...

La nostalgia dei giochi di sabbia è rimasta dentro di me molto forte.
Sino a quando mio figlio ha avuto voglia di farlo costruivo con lui - per lui, perchè dopo un po' lui si stancava di lavorare a spostare e a compattare sabbia - grandi castelli che poi venivano ammirati da tutti gli altri bambini, che chiamavano il proprio padre per mostrarglieli e dire loro:
"Papà, costruiscine uno così anche per me!".
Anche adesso che mio figlio è cresciuto e si vergognerebbe a indulgere in questi giochi, se mi ritrovo su di una spiaggia si manifesta quasi sempre irrefrenabile l'impulso a scavare e ad ammucchiare la sabbia che viene fuori dallo scavo e finisce con l'assumere forme diverse; in genere fortificazioni, castelli, città, dighe...
Potrei passarci ore a occuparmi così...

lunedì 3 maggio 2010

In Devozione, la storia di Pablo e della guerriera Nikita, robbomani del XXI secolo


La droga non è un modo di vivere, è un modo di mancare (Devozione, p. 182)

Con l’eroina non litigo mai. L’eroina è più dell’amore (ib., p. 225)

Il 1978 è l’anno di Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino, il racconto autobiografico di Christiane Vera Felscherinow meglio nota con lo pseudonimo di Christiane F. e divenuto per la generazione successiva un vero e proprio romanzo culto, dotato più che di una carica dissuasiva da certe esperienze di un potere attrattivo carismatico verso di esse.
Nel 1981 dal romanzo fu tratto il film Christiane F. - Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino (Christiane F. - Wir Kinder vom Bahnhof Zoo) per la regia di Uli Edel e con la colonna sonora di David Bowie: anche questo assurto a film culto, malgrado la crudezza e la tragicità della storia che vi è raccontata.
Il 1983 è l’anno in cui esce Amore tossico, il film di Claudio Caligari che racconta anche in questo caso con crudo realismo la storia di un gruppo di tossicodipendenti romani (tra i quali Cesare, Enzo, Roberto detto Ciopper, Michela e Loredana) che trascorrono la propria drammatica routine tra la spiaggia di Ostia e la capitale attraverso il consumo degli stupefacenti, i piccoli litigi, i furtarelli e i sotterfuggi per sbarcare il lunario, i guai con i poliziotti e la fioca speranza di poter cambiare vita e disintossicarsi. Fu un film che, nel filone del realismo pasoliniano e dal taglio quasi documentaristico, raccontava di vite che proseguivano ripetitive, senza un futuro certo, una meta su cui costruire o un evento che potesse porre termine - nel bene o nel male – alla dipendenza dall’eroina e a tutte le sue inevitabili derive.

Anche Amore tossico ha raggiunto lo statuto di cult per le generazioni successive prese nella deriva della droga, anche per il fatto che i suoi attori – essendo semi-professionisti - di fatto impersonavano se stessi (persino con identità dei nomi), rappresentando con realismo la propria dipendenza dell’eroina, senza nessun distanziamento di tipo narrativo e senza edulcorazioni e che, di loro, alcuni sono morti precocemente chi per overdose, chi per complicazioni legate all’AIDS.

Non si può parlare del recente romanzo – prima opera narrativa di ampio respiro di Antonella Lattanzi – dal titolo non casuale di “Devozione”, senza avere questi riferimenti importanti.

Non a caso sia Christiane F. sia Amore tossico vi sono più volte citati, spesso menzionati non in maniera "neutra", ma come “mito” che ha avuto un intrinseco potere di trascinamento verso le prime esperienze con la droga dei due protagonisti.

Devozione è la storia di Pablo e Nikita (Vera), due giovani del nostro tempo, entrambi ventiseienni e squinternati studenti fuori sede, l’uno di origini calabrese e la seconda invece pugliese. Il primo è studente universitario di sociologia che, preso dagli ingranaggi della droga, continua a sostenere il minimo previsto di esami annuali per non perdere il diritto all’alloggio nel pensionato, mentre Nikita ha la passione della scrittura che continua a coltivare, perseguendo il sogno di diventare un giorno scrittrice, anche se deve combattere una battaglia ardua perché nel momento in cui entra in scena la tossicomania (sempre più spesso) “la scrittura … è stupidi segnacci uno sull’altro, senza senso, senza accento, senza ritmo, risucchiati perché siano ghigliottinati dallo schermo” (ib., p. 182).

Diverse anche le storie di avvicinamento all’eroina da parte dei due: percorsi di vita diversi, punto di arrivo eguale.

E per Nikita, la storia del coinvolgimento nelle droghe (tutte le droghe) è stata guidata proprio dal carisma degli eroi negativi di cui si diceva all’inizio, sino all'eroina che, del suo percorso di sperimentazione, ha rappresentato il suggello definitivo e - sembrerebbe - inemendabile.

La storia ha due diversi piani temporali. Quello della vicenda reale che – nell’arco di alcuni giorni - si sviluppa nel 2006, inla coetanea Clara, sull’avvio delle esperienze con le droghe, intensamente volute e ossessivamente ricercate con assoluta determinazione (in parte proprio assieme all’amica Clara, come accade per il battesimo con l'eroina nel Parco della Montagnola di Bologna), sulle varie derive esistenziali sino all’incontro con Pablo e oltre. corrispondenza dei Mondiali di calcio, con una coda conclusiva (ed anche – si spera – di apertura verso un futuro più vivibile) nei mesi estivi immediatamente successivi, e l’altro più fantasmatico - quello dei ricordi - in cui si innesta la narrazione della storia passata di Nikita, con flashback sulla sua infanzia, sull’intensa amicizia con

Nell’apparente vuoto di eventi e nella desolante ripetitività, la storia di Pablo e Nikita si riempie, malgrado tutto, di cose e fatti (un po' all'insegna del ("vivere pericolosamente"): il piacere dell'eroina è un Moloch divorante che richiede un continuo tributo di energie. L’incontro con l’apparentemente giovanissima Annette, dai due iniziata al buco, ha un ruolo cruciale nell'attivare un imprevisto dinamismo nella loro esistenza e nel determinare in Nikita, quanto meno, la contemplazione di un modo diverso di affrontare le cose, come pure il dover apprendere della morte inattesa di Clara forse per overdose che più di tante altre morti di cui è stata testimone lascia un segno.

Ma ogni volta che i due sembrano approssimarsi ad un inizio possibile, ecco che l’eroina annulla il movimento appena avviato, introducendo una stasi mortifera in un qualsiasi progetto di vita.

Devozione ha anche il pregio di riportare l'attenzione dei lettori su di un fenomeno relegato negli ultimi ad una condizione di invisibilità sociale e mediatica.

Dopo il dibattito parlamentare esitato con la promulgazione del decreto “Giovanardi” e la svolta fortemente repressiva nei confronti dei consumatori di sostanze psicoattive illegali sembra che le tematiche mediche e sociali legate alle tossicodipendenze giovanili si siano – apparentemente - inabissate.

Quasi nessuno ne parla più, se non sporadicamente quando dalla nera giunge l’ennesima notizia di una giovane vita stroncata dall’overdose.

Ma nessuno ci fa più caso. La tempesta mediatica dopo poco si esaurisce. Questo tipo di notizie non vende più.

Il morto per overdose da eroina non è un eroe per quanto negativo (non è più un Jim Morrison o un Jimi Hendrix, per intenderci) e nemmeno una vittima.

E' solo uno da compatire, perchè a differenza del consumatore di "paste" o di cocaina (rappresentanti di un'ipotetica smart generation di fighetti produttivi e sempre ben vestiti) non ha saputo tenere a bada la propria dipendenza: un povero pirlotto, insomma.

La mancanza di attenzione da parte dei media farebbe pensare che le dipendenze dall’eroina non ci siano più, soppiantate dalle “nuove” droghe più "pulite", più rispettibili e - in definitiva - più "normalizzate", oppure dalle dipendenze non farmacologiche (tra cui un posto preminente occupa il gioco d’azzardo patologico, tanto per fare un esempio).

Gli operatori dei Sert (i servizi pubblici per le tossicodipendenze) frustrati dalla ripetitività circolare dei dipendenti dall’eroina se ne vogliono occupare sempre di meno, per indirizzare la loro attenzione verso forme di addiction più “appaganti” - in termini di soddisfazione - derivante dall’intervento clinico.

La storia di Pablo e Nikita, tenendo conto dei punti di riferimento culturali proposti, ci mostra invece che nel XXI secolo non è cambiato nulla: le cose sono proprio eguali a come erano 30 anni fa, quando Christiane F. viveva la sua iniziazione alla droga, o quando i protagonisti di Amore tossico andavano ossessivamente alla ricerca di “sgami”.

I tossicodipendenti da eroina (e oggi da metadone) – i “robbomani” - ci sono egualmente: non è che non ci siano più, è solo che non se ne parla più e, a causa di ciò, sono scivolati in un limbo di invisibilità.

L'unica differenza rispetto agli "anni di ferro" delle eroinomanie dei ragazzi dello zoo di Berlino, o di Roma o di Palermo o di Bari, è che, allora, i servizi sanitari offrivano poco - in termini di intervento clinico - se non la proposta reiterata di tentativi di disassuefazione. Oggi, assodato che, nella clinica delle tossicodipendenze, il vero problema non è il fronteggiamento dell'astinenza e la risoluzione della dipendenza fisica, bensì quello della prevenzione della ricaduta (cosa che rende le tossicomanie - le addiction - un'insidiosa malattia della mente, con delle potenti fondazioni neurochimiche), i servizi offrono il metadone (eventualmente ad alti dosaggi, per realizzare il "bloccaggio" dei recettori post-sinaptici a cui si lega la molecola dell'eroina) oppure trattamenti con antagonisti/agonisti parziali (come la buprenorfina).

Quindi, oggi il mondo della droga non è fatto soltanto di consumi contenuti, come si vorrebbe credere (e far credere) a mo’ di rassicurazione e di usi più accentuati nei fine settimana (definiti, per non creare allarmi, come ricreativi) e nelle varie feste comandate. No!

Ancora oggi, è fatta di tanti che - pur di non stare a “rota” - sono disposti a fare qualsiasi cosa, a scendere a qualsiasi compromesso.

Queste storie si cerca di cancellarle dalla consapevolezza collettiva.

I Sert, come le carceri, sono divenuti come dei tappeti sotto i quali si caccia la spazzatura perché nessuno debba vederla e sentirsene turbato.

Come bene illustra il romanzo, i Sert che erogano il metadone rischiano di diventare il luogo della contrattazione e dell’ipocrisia di una finta “cura” in cui gli eroinomani inseriti in trattamento battagliano quotidianamente per ricevere l’affido delle dosi di metadone (il farmaco sostitutivo dell’eroina più comunemente usato) per poi utilizzarlo a modo proprio come alternativa all’eroina quando non ci sono soldi per farsi o non si trova lo spacciatore di turno.

Antonella Lattanzi ci ricorda tutto questo, senza alcuno sconto.

Chi non ha avuto dimestichezza con il mondo della droga, potrebbe pensare che alcune crude descrizioni che balzano fuori dalle pagine di Antonella Lattanzi e la lucida anatomia dei meccanismi mentali (sia emozionali, sia cognitivo-relazionali) siano il frutto di un eccesso di fantasia: invece, no!

Il filo rosso che serpeggia in tutto il romanzo è quello di realismo crudo nel quale sono incastonate, tuttavia, come gemme gli slanci della mente creativa di Nikita.

Devozione è un romanzo duro da leggere, che infligge a ripetizione pugni nello stomaco: sulle derive esistenziali nelle vite dei tossicodipendenti, sul loro invischiamento in un tempo circolare in cui l’unica ricorrenza importanza è il potersi garantire la somministrazione della prossima dose, sulla mancanza di progettualità lineari forti, sulla debolezza delle buone intenzioni che si infrangono non appena nella mente un pensiero relativo al “farsi” si apre la via, sulla perdita di desiderio e memoria, sul girare a vuoto e sulla sconclusionatezza dell’agire, salvo che non si tratti di procurarsi l’eroina o un sostituto (e solo allora si ritrova una lucidità focale), sulla mancanza di senso critico e sull’indebolimento della capacità di giudizio.

La storia si legge bene perché la costruzione dei due protagonisti è assolutamente credibili e realistica, anche nelle dinamiche di rinforzo che si attivano quando due “robbomani” vivono in coppia la loro dipendenza.

Antonella, soffermandosi sul desiderio di Nikita di diventare una scrittrice sembra volerci dire che la scrittura contiene la salvezza: in questo Nikita, che è stata chiamata così dall'amica Clara proprio per la sua tempra di "guerriera" (e qui è citato il film cult di Luc Besson), forse più di Pablo è papace di lottare per la sua salvezza. Colpita dalla vicenda di Annette, dalla notizia della morte di Clara, ma anche per l’arrivo di una inattesa gravidanza e il caparbio desiderio di tenere il bambino comunque, pur nell'incertezza di una positività per HVC, sembra propendere per la vita in un suo modo contorto e non diretto, anche se la strada da seguire sarà piena di insidie e ricadute.

Si apre - tenue - uno spiraglio alla speranza di poter trovare una possibile via di uscita dal mondo tirannico dell’eroina.

Forse, è questo il messaggio che scaturisce dalle pagine finali del libro.

Sinceri complimenti ad Antonella Lattanzi per la sua scrittura vera e profonda che, come in ogni romanzo realistico che si rispetti, contiene anche abilissimi dialoghi in calabrese e in pugliese stretti.


Domenico Starnone ha detto di Devozione: "Antonella Lattanzi sa raccontare come pochi il corpo degradato, il corpo innamorato. Ha scritto il romanzo struggente del desiderio di vita tradito dall'eroina".


Un breve nota bio-bibliografica
Antonella Lattanzi (1979), barese di nascita e romana di adozione, dopo essersi diplomata in “Narrativa e sceneggiatura per il cinema e il fumetto”, ha pubblicato una raccolta di racconti,
Col culo scomodo – non tutti i piercing riescono col buco (Coniglio Editore), e un saggio gustosissimo sulla sua regione, la Puglia, dal titolo Leggende e racconti popolari della Puglia. Devozione è il suo primo romanzo.


domenica 2 maggio 2010

Vendicami: un gangster movie cinese con un tocco di noir in stile francese


Johnny To, prolifico regista di Hong Kong e amante dei film di arti marziali, ha iniziato la sua carriera una trentina di anni fa, costruendo una filmografia solida costituita prettamente da gangster movies che, negli Anni Ottanta, diventeranno i più grandi successi commerciali del cinema orientale. Dopo aver fondato una sua casa di produzione indipendente (la Milkyway Image, con il collega Wai Ka-Fai), ha cambiato il suo stile di regia fra pistole, geometrie visive, creatività, dinamismo e un’estetica ipnotica, con il tentativo (riuscito) di far compenetrare il noir francese nelle atmosfere cinesi, con furia, lirismo e polverosità.

Con Vendicami (2009) Johnny To introduce, appunto, un tocco di noir francese nel gangster movie in stile cinese.

Punto di giunzione tra questi due "generi" attigui è proprio la figura di Costello (Johnnie Halliday, l'Elvis Presley francese), che si presenta con il volto scavato e rugoso di un quasi settantenne che ha vissuto di tutto).
La figlia di Costello, francese ma sposata con un Cinese di Macao subisce un barbaro attentato per ordine di un potente mafioso della Triade e sopravvive per quanto in gravi condizioni, mentre il marito e i due bimbi muoiono, trucidati senza alcuna pietà. Il padre, arrivato dalla Francia per soccorrere la figlia, vuole vendetta e assolda un gruppo di killer (Kwai, Chow e Lok) che casualmente ha visto in azione proprio nell'albergo in cui alloggia.
Costello ha dei trascorsi criminali, probabilmente: è un duro e, per i suoi modi rudi e di poche parole, si fa apprezzare dai tre killer, suscitando in loro sentimenti di rispetto e di fedeltà. Ma vive con una spada di Damocle sul capo: quella di poter perdere all'improvviso la memoria, perché porta confitto nella materia cerebrale un proiettile che, a suo tempo, non è stato possibile estrarre e che spostandosi imprevedibilmente potrebbe arrecare degli improvvisi ed irreparabili danni.

L'intreccio va avanti con un montaggio estremamente vivace e con l'alternarsi di scene di quiete in cui, in maniera parca e più con gli sguardi e con i gesti, si costruiscono relazioni di lealtà, e sequenze di movimento fatte di sparatorie e inseguimenti.
In alcuni momenti, le scaramucce a fuoco assumono un sapore quasi epico e vengono narrate come autentiche battaglie, come quella nella discarica di Macao, in cui i "cattivi" al soldo del mafioso vengono avanti ad ondate successive, con la protezione di originali ed insoliti scudi individuali.
L'ambientazione, sulle traccie dei killer si sposta ad Hong Kong e quindi ritorna a Macao, sino al redde rationem finale.

Interessante l'interrogativo: Che senso ha vendicarsi se uno no ricorda più di cosa vuole vendicarsi?
E in effetti, il film è anche una riflessione sulla vendetta e sul senso che può avere.
Il regista fornisce implicitamente una risposta attraverso la rappresentazione d'una coerenza interiore dei personaggi principali (Costello e i tre killer che si legano a lui con un patto di fedeltà): sembra dirci che è giustificato volersi vendicare, perchè - a volte - i delitti commessi sono così atroci che la Legge, per quanto sapientemente amministrata, non potrà mai comminare l'adeguata punizione.
Poi - altra notazione interessante - Costello, sempre timoroso di perdere memoria di tutto da un momento all'altro, fa delle "annotazioni" fotografiche sulle persone che incontra: le fotografa con una polaroid e, sulle istantanee, trascrive con pennarello i nomi di ciascuno.
Un film da vedere.
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