martedì 29 dicembre 2009

Facebook, il Moloch che inghiotte le nostre vite


Mi capita di leggere in Facebook queste riflessioni che riferisco anonimamente:

La morte su Facebook e' qualcosa di agghiacciante. Capita che la notizia della propria morte venga data nello stesso profilo di chi è appena deceduto, a mano di altri, e seguono i commenti e i commiati. Doloroso, straziante e commovente, ma assurdo. La morte, la vita, tutto e' spettacolo, Facebook ci riduce ad attori di un palcoscenico, quanto mai finto, e a poco a poco ci toglie la nostra stessa vita Ho il timore che Facebook non sia solo una vetrina, ma una sorta di "true life" che ogni giorno di più ci sta inghiottendo e ci rende incapaci di avere rapporti veri. Passiamo ore davanti ad un PC a “comunicare”, non comunicando per niente e facendo test idioti, perché qualcuno li legga; ci scopriamo e ci nascondiamo, spiamo e condividiamo... tutto questo perché? Fondamentalmente, perché siamo soli! C'è qualcosa di assolutamente perverso in tutto ciò. La condivisione della propria solitudine, di quella di tutti, dietro un apparente stato di interazione, è una virtual life senza bisogno di avatar! (Anonimo)

Evidentemente, l’anonimo commentatore si riferisce al fatto che qualcuno è morto e amici e conoscenti hanno dato l’annuncio della sua morte nel suo stesso profilo, così da trasformare quel profilo come luogo del dialogo con un defunto, ma anche come luogo della perpetuazione (puramente virtuale) di chi non è più.
A questa possibile applicazione di Facebook ancora non ci si era pensato. Se nessuno estingue quel profilo, il profilo rimarrà attivo e potrà essere di continuo alimentato con nuovi contenuti. Facebook è una vetrina e, in una vetrina, tutto può diventare oggetto d'esposizione: sta a noi decidere quale linea seguire se farne una vetrina scintillante per tutto ciò che (ci) accade oppure farne un luogo di riflessione ed osservazione del mondo che ci circonda e del nostro mondo interiore, ma anche di condivisione con qualcuno che sia realmente interessato a quello che sei e a come vedi le cose...
Tutto il resto è destinato ad una vita effimera: come c'è, altrettanto rapidamente è destinato a scomparire inghiottito dal vettore lineare in cui si organizzano i contenuti di FB, specie quelli istantanei…
E il flusso temporale è velocissimo, così come l’inabissamento dei contenuti.
A stento c’è il tempo di condividere ed è già passato, inghiottito appunto…
Non a caso, la parola inglese per “nuovi contenuti” è “new feeds” (cioè nuovo cibo, nuovi alimenti).
Nuovo cibo per chi?
Ma di Facebook, ovviamente, che diventa una sorta di Moloch che tutto inghiotte delle nostre vite, lasciandoci con la sensazione che senza la pagina del profilo da alimentare continuamente noi moriamo in qualche modo, ci spegniamo!
Non a caso, in alcune realtà, si sono cominciati ad attivare degli interventi per coloro (soprattutto adolescenti) che sono diventati dipendenti da Facebook e che passano compulsivamente ore davanti ad uno schermo di PC a navigarvi.
Una dipendenza particolarmente insidiosa, perché riguarda l'ossessione di costruire e alimentare la propria identità e, del pari, di osservare cosa fanno gli “altri” in una realtà finta, fatta di specchi e rimandi, in un gioco di scatole cinesi, in cui il proprio sé finisce con lo smarrirsi…

Personalmente, di alcuni in FB sono divenuto virtualmente amico (e nulla esclude che un giorno ci possa anche incontrare), di altri ero già amico prima e con questi, attraverso FB, semplicemente ci comunico molto sobriamente, ma poi basta!
Tutti gli altri sono solo rapporti vuoti.
Gli “altri” dedicano alle mie cose solo uno sguardo distratto che spesso si esaurisce nel "mi piace", senza una volontà di autentica interazione e, se tu entri nel merito di un rapporto personale, chiedendo solidarietà, comprensione, dialogo autentico, il più delle volte incontri soltanto un muro di silenzio e indifferenza.
Sarebbe bello se la “piazza” virtuale potesse diventare un vero luogo d’incontro, un'agorà dove si incrociano destini e da dove si organizzano relazioni vere, nella realtà di fuori.
Il rischio è che ci si chiuda sempre di più in questo mondo finto ed effimero, in cui l’unica maniera per “sentirsi vivo” e partecipe è quello di alimentare di continuo il Moloch/FB…

Mi sembra quasi che ognuno degli iscritti a Facebook, per alcuni aspetti, chi più chi meno, sia come un recluso in una cella in totale isolamento e che, per sentirsi vivo, batta dei colpi di continuo dei colpi su una tubazione dell'acqua allo scoperto oppure sul muro di pietra gelido. Ogni tanto, qualcuno risponde con altri colpi. E così si va avanti, mondi totalmente isolati, solitudini che di rado, se non mai, entrano in rotta di collisione.

sabato 26 dicembre 2009

L'aggressione al Papa e la violenza dei media

Basilica di San Pietro - La donna in rossa nell'atto di scavalcare la transenna
(dalla ripresa di un videoamatore)

Questa la notizia che ha fatto il giro del mondo, sia nei commenti parlati sia con video amatoriali di supporto diffusi dalle maggiori emittenti come un vero e proprio scoop.


Momenti di tensione alla messa di Natale in San Pietro. Il pontefice è stato aggredito durante la processione di ingresso nella basilica. Una donna ha scavalcato le transenne ed è corsa verso il papa afferrandolo e trascinandolo per terra. Benedetto XVI è caduto, ma si è subito rialzato aiutato dai cerimonieri. La celebrazione liturgica, iniziata due ore prima rispetto alla mezzanotte, è proseguita regolarmente. La responsabile del gesto è stata trattenuta nella Gendarmeria vaticana. Si sospetta che possa essere la stessa donna che la notte di Natale dell’anno scorso aveva tentato di raggiungere il papa mentre si avviava verso l’uscita, l’episodio, non aveva avuto conseguenze. Nel trambusto è rimasto coinvolto anche il cardinale francese Etchegaray che si è accasciato. Trasportato al Policlinico Gemelli gli è stata diagnosticata la frattura del femore. L’autrice dell’aggressione è apparsa confusa e agitata. Potrebbe essere affetta da disturbi psichici. Non era armata e ha dichiarato che la sua intenzione fosse solo di abbracciare il pontefice.
Ciò che sorprende di questo episodio sono alcuni elementi che sicuramente meritano attenzione.
  1. La donna che ha dato vita all'aggressione era una recidiva: già l'anno prima aveva tentato un simile gesto, ma era stata placcata prima dagli uomini del servizio di sicurezza.

  2. L'attenzione morbosa dei media non tanto per l'azione in sé ma per il suo effetto: nentre venivano letto nei diversi notiziari i commenti parlati, veniva replicata a ritmo continua la scena della caduta del Papa che, se è indistinta, ad una prima visione - in considerazione anche della rapidità della sequenza - con la ripetizione diventa sempre più nitida e distinguibile, sino a trasformarsi con l'iterazione in una sequenza da comica finale oppure da "paperissima". Per rendere completo un simile effetto, è mancato solo che l'abbiano trasmessa in playback...

  3. Una simile attenzione mediatica all'effetto del gesto è oltremodo dannosa perchè fomenta in altri il desiderio di emulare, visto che l'azione - pur con i rischi che vi sono connessi - viene premiata da una massima visibilità e che, successivamente, attraverso la distorsione del linguaggio, tipica dei media, le caratteristiche del personaggio destinatario dell'attentato vengono sminuite o ridicolizzate (il che in alcuni casi può essere proprio l'obiettivo prioritario dell'"attentatore", cioé il voler ledere il carsima, l'autorevolezza, l'autorità etc; più che la persona in sé.
Ancora una volta, i media - nel gestire un episodio in sé grave - hanno dimostrato di possedere un'intrinseca violenza che può essere solo ispiratrice di ulteriore gesti.
E' importante e deticamente corretto dare le notizie, quali esse siano, ma potrebbe essere altrettanto importante calibrare il modo in cui le si passano, evitando di utilizzare modalità che, allontanando lo spettatore dalla fruizione ( e dalla comprensione) della notizia in sè, possano metterlo nella condizione di essere il fruitore di uno spettacolo/intrattenimento.

Detto per inciso, l'aggressione al papa (che sembra essere genuina), ha rovinato l'effetto di attivazione buonistica che sembra aver avuto la pregressa aggressione a Berlusconi, vera o presunta tale che sia, visto che ombre e dubbi numerosi si sono addensati sull'apparente chiarezza del gesto di un folle, ingenerando il sospetto che si sia trattato di una messinscena, di un evento-spettacolo realizzato ad arte...

I fari della ribalta si sono così spostati sul Papa, al quale bisogna dare atto di una grande fermezza e dignità, consone al suo ruolo ieratico e, in qualche misura, al di là dell'umano: la fermezza di proseguire nella cerimonia, come se nulla fosse accaduto.

Vedi i video:
http://www.youtube.com/watch?v=lC4xsA9BT4Y&NR=1
oppure:
http://www.youtube.com/watch?v=ZxumMmgQ_hY&feature=related
oppure:
http://www.youtube.com/watch?v=5DWrrN3AxI8

giovedì 24 dicembre 2009

Amelia Earheart, "eroe" americano di stampo hemingwayano


L'aviatrice americana Amelia Earheart, fu un personaggio che - con le sue imprese - entrò di forza nell'immaginario collettivo del popolo americano, proprio perchè il suo atteggiamento nei confronti della vita e delle imprese cui si dedicava collimava perfettamente con la filosofia di un'esistenza attiva ed eroica enunciata (e praticata) dal presidente Theodore Roosevelt, di cui Hemingway fu la controparte letteraria e che tanto influenzò un'intera generazione di americani.
Amelia ebbe l'ardire e la determinazione di solcare i cieli in modo "estremo": nel senso che non le era sufficiente levarsi in volo, soddisfacendo così la sua passione, ma era anche bruciata dalla volontà di voler compiere imprese mirabolanti e e mai prima portate a termine, sfidando ogni volta il limite.
Come ad esempio fu per la transvolata atlantica (e fu la prima donna a compierla, con successo, in solitaria) e, per finire, il giro del mondo (e qui sopravvenne la sua scomparsa) animata dalla volontà di essere la prima donna in assoluto a compiere una simile impresa.
Amelia divenne "eroe" nell'immaginario di un'intera nazione e questo accadde non solo per la sua determinazione, ma anche perchè le sue imprese che, allora, ai primordi dell'aviazione erano sottoposte all'influenza negativa di un'infinità di variabili, ebbero successo. Tanti, prima e dopo di lei, tentarono e fallirono. Alcuni perirono, scomparendo per sempre. Di tutti costoro nessuno si ricorda più: furono dei perdenti.
Proprio perchè Amelia divenne "eroe" americano (al quale va tributato l'onore della parata tra due ali di folla, con quel fasto che solo gli Americani sanno realizzare), con la sua scomparsa (il 2 luglio del 1937) si attivò la più imponente operazione di ricerca di in mare di un uomo disperso (che tuttavia non portò alcun esito).
Proprio perchè "eroe" americano, si attivarono le ipotesi più fantasiose sulla sua scomparsa, tra le quali quelle che fosse una superspia sotto copertura o che fosse stata catturata dai Giapponesi e poi rientrata negli USA sotto mentite spoglie per vivere negli anni successivi nell'anonimato di una falsa identità.
Proprio perchè "eroe" americano, presente con forza nell'immaginario dell'intera nazione, è citata in innumerevoli film e romanzi.

Il film (Amelia. La leggenda. L'amore. Il mistero della cineasta Mira Nair, già autrice di Monsoon wedding) fa onore al personaggio, pur fallendo in alcuni suoi obiettivi.
E' certamente bella ed interessante la parte "letteraria": quella, cioè, in cui la voce di Amelia, fuori campo, legge frasi e passaggi diaristici che circostanziano la sua passione per il volo; viceversa fallisce la rappresentazione "a terra" della sua vita. Una vita sostanzialmente "normale" di cui non c'è molto da raccontare, se non implementando quel poco con un pizzico di retorica stucchevole e aggiungendo al personaggio un tocco di anticonformismo ed un certo qual piglio di suffraggetta, di donna che - in un'epoca ancora dominata dagli uomini - vuole fare di tutto per autodeterminarsi.
Dei suoi voli mirabolanti, peraltro, c'è ben poco da raccontare cinematograficamente, se non i decolli e gli arrivi (tra quelli più entusiamanti l'arrivo sulla costa d'Irlanda, dopo la prima transvolata atlantica riuscita).
Poi, immagini di nubi, di cieli tempestosi, di albe rosseggianti, mentre l'aereo vola verso Est e si avvicina al Vecchio continente, il volto di Amelia in volo ripreso in primo piano, con i commenti della sua voce in sonoro...
Poi, ancora, immagini di quei piccolissimi aerei ad elica su cui si imbarcavano quei "temerari sulle macchine volanti", alla ricerca del loro limite, pronti a sacrificare la loro vita per un idea.
E poi, anchel'intercalare di quelle foto e filmati d'epoca, sgranatissimi, in bianco/nero che mostrano - tra l'altro - la stupefacente somiglianza tra la "vera" Amelia e Hilary Swank che la interpreta.
Il film in sé ha un certo interesse perchè pone un'attenzione storiograficamente corretta su questo personaggio, per noi Europei (ed Italiani) sicuramente meno noto, ma - nel complesso - risulta noioso e troppo lungo.


Il film sembra trovare una sua fisionomia solo nel primissimo piano di Hilary Swank nella cabina di pilotaggio: il suo volto che si fa paesaggio e muta, s'incanta, trema e si commuove alla vista di ciò che non vediamo e non ci viene detto né trasmesso, è il miglior emblema di una storia e di un film che in realtà non ci sono, si sono inabissati a livello di promessa e, anche a cercare e sperare, non emergono mai (Marianna Cappi, da www.mymovies.it).

Il trailer del film (clicca qui)
La voce di Wikipedia su Amelia Earheart


sabato 19 dicembre 2009

Da oggi, fare le le linguaccie è reato!

Fare la linguaccia è un'ingiuria non verbale, incide sull'onore ed è reato: lo ha deciso la Cassazione confermando la condanna a un contadino marchigiano che, durante una lite, aveva fatto una smorfia al vicino che lo ha fotografato e che ora sarà risarcito per l'offesa subita.

ROMA (18 dicembre 2009) - Fare sberleffi, smorfie e linguacce è reato e può costare una condanna per ingiuria. Lo afferma la Cassazione che ha confermato la condanna al risarcimento dei danni nei confronti d'un agricoltore marchigiano che era entrato nel campo del vicino, con il quale aveva frequenti litigi, e gli aveva fatto la linguaccia. L'altro lo aveva fotografato in "fragranza" di linguaccia e, con l'immagine dello sberleffo in mano, era andato a denunciarlo al giudice di pace di Fabriano (Ancona).

Carlo O., 41 anni, pur assolto dal reato di "ingresso abusivo nell'altrui fondo", è stato condannato invece per ingiuria, "...commessa non verbalmente ma mediante una smorfia del volto, e fotografata dalla persona offesa". L'imputato, quindi, si era rivolto alla Suprema Corte sostenendo che il suo gesto era solo una smorfia che non aveva alcun valore offensivo. Ma la Cassazione - con la sentenza 48306 - gli ha dato torto e ha convalidato la decisione emessa, il 13 febbraio 2008, dal giudice di pace.

Adesso Carlo O. dovrà risarcire il vicino per avergli mostrato la lingua. Secondo piazza Cavour infatti la semplice smorfia è "idonea a incidere sul decoro e sull'onore della vittima" e dunque si ha diritto anche al risarcimento dei danni, la cui entità sarà decisa nel corso di una causa civile. Intanto l'imputato si tiene la condanna per il reato di ingiuria e dovrà inoltre sborsare 1.300 euro per le spese processuali sostenute dall'avversario.

E' una notizia davvero buffa!
Il signore in questione non è stato perseguito per essere entrato nella proprietà agricola altrui (il reato vero semmmai: perchè vengono infranti specifici articoli del Codice penale), ma per aver fatto la "linguaccia".
Un gesto che, peraltro, può avere molti significati diversi e non necessariamente quello del dileggio o dell'ingiuria "non verbale".
Personaggi celebri e meno celebri hanno fatto le linguaccie da che mondo è mondo e continueranno a farle.
Può anche essere una cosa divertente fare le linguaccie, anche perchè la linguaccia (il tirar fuori la lingua) in sè non significa nulla: sono la mimica e, eventualmente, anche la gestualità che l'accompagnano a darle una connotazione in un senso o nell'altro.
Può essere un'azione ironica, divertente, maliziosa, di stanchezza estrema, di dileggio mai aggressivo, di molestia sessuale: ma è il comportamento globale dell'individuo a determinare la sottolineatura su questo o quel significato.
Comunque, d'ora in avanti, con il precedente posto dalla Corte di Cassazione, almeno in pubblico occorrerà fare attenzione: mai più abbandonarsi ad un'irriflessiva linguaccia!!!
Oggi, per effetto di questa sentenza, anche il grande Albert Einstein sarebbe stato perseguibile!!!
E cosa dire delle folle di adulatori e di lecchini che tirano costantemente fuori due metri di lingua pur di far carriera?
A stretto rigore, anche loro dovrebbero essere perseguibili perchè è appunto la spudoratezza del lecchinaggio a rappresentare un ingiuria per tutti quelli che se ne stanno da parte e cercano di andare avanti solo con le proprie forze....
Per fortuna, ci rimangono le pernacchie!

martedì 15 dicembre 2009

Il tatuaggio, oggi: tra pratica sociale ed esigenza interiore


Sempre piú oggi il tatuaggio sta diventando una diffusa pratica sociale, svincolandosi da quelle connotazioni negative e disvaloriali che, soprattutto nel nostro contesto, lo avevano legato alla cultura carceraria, facendone un segno patognomonico di una costituzione delinquente dell'individuo.
Oggi, superati in larga misura i cascami lombrosiani, il tatuaggio si colloca a pieno titolo nel filone della body art e in quello - altrettanto rigoglioso - della modificazione plastica del proprio corpo a fini estetici.
Sono molti e diversi i motivi per cui si decide di farsi fare un tatuaggio.
Scarterei subito le motivazioni piú banali, quali l'emulazione, l'iniziazione al gruppo dei pari che , del tatuaggio, fanno lo strumento di una sorta di rito di passaggio. Si tratta di aspetti che meriterebbero un approfondimento a parte...
Per il momento, mi interessano maggiormente alcune motivazioni complesse che trasformano il tatuaggio in un'autentica manifestazione del proprio modo di essere, dei propri gusti, oltre che "manifesto" dei propri personali eventi di vita e segno - indelebile come una cicatrice - del proprio sentire (nel campo degli affetti, delle credenze e delle convizioni più profonde).
Ogni singolo tatuaggio, così, rappresenta un pezzo più o meno significativo della vita del suo portatore, diventandone memoria e ricordo.
A volte, accade che il tatuaggio é giá ricordo nel momento stesso in cui viene inciso nella pelle e colui che viene tatuato ancora non lo sa.
In questo senso, il tatuaggio é assolutamente irreversibile (anche se oggi sono disponibili - ad alto prezzo - le tecnologie laser per rimuoverlo, se indesiderato) e si deve essere consapevoli di ciò, quando lo si affronta.
Quando il tatuatore predispone i suoi strumenti, si é ancora in tempo per fermarsi; ma, quando gli aghi della macchinetta cominciano a mordere la pelle, é giá troppo tardi: s'é varcato un punto di non ritorno.
E questo statuisce la differenza tra tatuaggio e piercing: il piercing, per quanto complesso e hard quanto ad allocazione, é sempre un orpello che si può decidere di non portare più, mentre il tatuaggio diventa parte integrante dell'apparato cutaneo.
Quali sono gli accorgimenti da adottare, allora, per evitare poi di doversi rammaricare della propria scelta?
Eccoli.
  • Rifuggire dal tatuaggio come espressione di un guizzo volitivo, fugace e irriflessivo.
  • Coltivare a lungo il progetto di un proprio tatuaggio prima di passare alla sua attuazione concreta.
  • Rifuggire da modelli standard precostituiti, evitando quindi il tatuaggio "di serie" o "a stampino".
  • Prediligere disegni fatti ad hoc che esprimano esattamente il nostro pensiero e le nostre intenzioni (i significati che attribuiamo al nostro tatuaggio).
  • Al tatuaggio piccolo e minuto (scelta che indica sovente un compromesso tra il desiderio di averlo e le inibizioni e remore sociali) preferire un tatuaggio "importante" (sicuramente più apprezzabile sotto il profilo estetico).
  • Evitare, viceversa, di farsi tatuare nomi o iniziali di persone che ci sono care, perchè poi potrebbe succedere che quel sentimento si estingua e che ci si ritrovi a portare sulla propria pelle un nome che è divenuto estraneo, anche se nel bagaglio dei nostri ricordi personali.
  • Evitare, per lo stesso motivo, di farsi tatuare frasi di vario genere.
  • Andare alla ricerca di un tatuatore che abbia ottime competenze grafiche, che abbia grande maestria nell'uso della macchinetta, dal momento che il tatuaggio é, assieme arte (arte minore, ma pur sempre arte) e abilitá artigiana.
  • Assicurarsi che il tatuatore scelto sia in regola con tutte le necessarie autorizzazioni e che, avendo seguito una specifica formazione, applichi tutte le norme relative all'igiene e profilassi del tatuaggio.
Afferma un tatuatore di grande valore, perchè prima di intraprendere questo mestiere, faceva il grafico e il cartoonist: "Ci sono tanti oggi che si fanno fare un tatuaggio e che decidono, dopo essere stati iniziati ad esso, di fare essi stessi i tatuatori. E prendono la macchinetta in mano. Ma non è semplice come sembra. La macchinetta bisogna saperla usare: non è sufficiente conoscere le norme igienico-sanitarie. Non hai idea di quante persone poi vengono da me per chiedermi di sistemare dei tatuaggi malfatti. Ma non sempre le cose si possono rimettere a posto".

Quindi, attenzione nella scelta del tatuaggio che si vuole avere disegnato "nella" propria pelle e attenzione nell'affidarsi ad un tatuatore!
Come fare ad non incorrere in errori, in questo caso?
Si può cercare nelle riviste specializzate, ma non sempre queste danno infomazioni utili sui tatuari presenti in un singolo contesto, poichè danno risonanza soltanto ai tatuatori di alto livello.
Si può partecipare a qualche convention di tatuatori, nelle quali è possibile osservare tatuatori di grido al lavoro e ammirare, anche in riproduzione fotografica, i loro lavori meglio riusciti.
Ma è anche necessario fidarsi anche del passaparola, chiedendo in giro e lasciandosi indirizzare: in generale, soggetti già tatuati possono essere dei veri e propri testimonial attendibili di specifici tatuatori.
Quindi, non esitare a chiedere informazioni (dove? come? quando) a chi possiede dei tatuaggi che riteniate ben fatti.
Poi, naturalmente, prima di decidersi, occorre verificare le effettive capacità grafiche del tatuatore ed essere certi - non in ultimo - che sia in regola con tutte le prescrizioni igienico-sanitarie.
Farsi fare un tatuaggio non è una decisione da poco.
Si tratta di un vero e proprio processo decisionale che ha dei suoi tempi: il percorso potrebbe essere molto più interessante e valido, se dalla prima idea di un tatuaggio alla sua concreta realizzazione trascorra un intervallo di tempo lungo tale da smorzare ogni dubbio ed alimentare la certezza che quel tatuaggio è proprio ciò che si desidera.

domenica 13 dicembre 2009

La sapienza antica di un costruttore di "panari"


Il fabbricante di panieri.
Un pezzo di sapienza contadina che sopravvive nel cuore di Palermo...

(Foto di Maurizio Crispi)

Nei pressi d'una delle uscite della "Villa dell'atleta" (ex-Villa Case Rocca) accanto allo stadio di atletica "Vito Schifani" di Palermo, di mattina presto avrete la ventura di incontrare una persona antica e singolare.
E' un anziano contadino, ottant'anni suonati, una faccia intagliata nel legno, pelle come cuoio vecchio, solcata da un fitto reticolo di rughe, sordo come una campana.
Si chiama Giuseppe.
Se ne sta seduto tranquillo, d'inverno un passamontagna ficcato sulla testa e sopra un berretto a visiera di finta pelle, d'estate capelli bianchi e sottili come stoppie esposti all'aria, sempre mattiniero (alle prime luci dell'alba è già sul posto) e lavora con gesti lenti e sicuri ai suoi magnifici canestri, dall'aspetto solido e duraturo.
Ogni giorno ne fabbrica uno, partendo da materiale di costruzione liberamente disponibile: frasche di olivo selvatico opure di olmo ("ulmo") molto adatte per via della loro elasticità e canne tagliate per il lungo.
E' davvero speciale la sua abilità nell'intrecciare le frasche che, mentre le lavora, non ha ancora del tutto liberato dal fogliame, cosicchè sembra che il cesto vada prendendo forma direttamente da una pianta, per uno strano incantesimo.
Un giorno mi sono avvicinato e gli ho chiesto se potevo acquistare uno dei suoi canestri.
Dialogo con un sordo...
Non comprende.
Ripeto la mia domanda.
Identica sequenza.
Giuseppe mi mostra un apprecchio acustico inserito nell'orecchio.
Allora è poprio sordo!
Con un tono di voce più alto per vincere la sua sordia, ripeto ancora la mia domanda.
Niente!
Aiutandomi con i gesti, cerco di fargli capire di quale oggetto gli sto parlando.
Una scintilla gli si accende negli occhi... "Ah! u' panaro!!! Dicisse le cose giuste!
U' panaro! Allora, d'ora in avanti, ci possiamo capire, penso con un sospiro di sollievo.
Il classico "panaru", quello che - per intenderci - si adoperava in antico, quando non c'era nelle abitazioni l'ascensore, per ritirare la spesa dai fornitori. "Signora, calasse u' panaro!", gridava il garzone dalla tromba
delle scale oppure dalla strada, arrivando con involti, coppi e coppini .
U' panaru che diventava un autentico ascensorino-montacarichi per calare i soldi per pagare la spesa e ritirare il resto.
Ma anche, lasciato lì a pencolare legato alla sua corda, era un eloquente segnale per indicare a chi si trovava sotto di raccattare da terra qualcosa che era caduto dabbasso ("Mi è caduto questo o quello. Me lo prendi per favore?").
Una volta, dalle parti della Cala - il vecchio porto di Palermo - proprio sul marciapiedi antistante La libreria del Mare, mi soffermavo guardare una giacca a vento di piumino tutta fradicia, ma in ottimo stato d'uso, buttata lì per terra. Nel mentre che guardavo, ecco scendere- quasi per magia - un panaro teso sulla sua corda sino alla mia altezza, accompagnato da una voce. Levando gli occhi, vidi una signora affacciata ald un balconcino a circa dieci metri di altezza che, a gesti, mi esortava a riporre nel provvido cesto la giacca appena caduta.
Tornando all'incontro con Giuseppe, avendo appurato che l'incomprensione non è dovuta alla sordia, ma ad improprietà linguistica, a questo punto glielo chiedo nel modo giusto, se abbia due "panari" da vendere.
Sì, ce li ha: uno è già pronto accanto a lui.
E l'altro?
"Ora vaiu e cciù pigghiu".
E s'incammina a passo lento, antico, con l'andatura di chi vive in una dimensione arcaica del tempo, in cui la frenesia dell'oggi è pura follia.
Si infratta nella boscaglia e, dopo un po', ritorna con l'altro panaro.
Ammiro entrambi i manufatti e gli dico che è veramente bravo!
C'è qualcuno che sta imparando con lui questo lavoro? - gli chiedo - Lo sta insegnando a qualcuno?
Questa volta mi comprende.
No, nessuno.
A nuddu ci piaci!
E' un arte che andrà a perdersi, penso io.
Gli chiedo quale compenso voglia per i due panari.
Me lo dice: una cifra davvero irrisoria che, in questa nostra epoca in cui tutto viene regolato con le tariffe orarie.
E' davvero niente.
Stupefacente! Incredibile! E' come se un pezzo di civiltà contadina fosse sopravvissuto, proprio qui nel cuore di una metropoli.
E' l'espressione perfetta d'una forma di economia sostenibile: materiali da costruzione a costo zero (si tratta di arbusti selvatici liberamente disponibili), mano d'opera a costo pressocchè nullo, perchè per Giuseppe l'accoppiata tempo/denaro funziona in maniera diversa.
In ogni caso il piccolo guadagno che egli ricava dalla vendita di ogni panaro (piccolo per i nostri parametri) per Giuseppe è solo un valore aggiunto: lui non lavora per far soldi con i panari, ma per passare il tempo secondo ritmi scanditi dalla sapienza contadina d'un tempo.
Giuseppe ci mostra che un mondo diverso sarebbe possibile: se ognuno sapesse fare delle cose e le facesse per passare il suo tempo, utilizzandole poi come merce di scambio per ottenere piccole somme di denaro oppure altre merci che, a sua volta, non è in grado di produrre, torneremmo probabilmente ad un punto di svolta epocale: sarebbero aboliti o fortemente limitati i padroni, perchè la logica del profitto non avrebbe più senso.
Ci muoveremmo verso una società più equa in cui ciascuno è in grado materialmente di far qualcosa che possa essere utile agli altri, una società in cui non ci sono solo servizi da vendere ma in cui si torna versoola dimensione più vera e genuina dell'uomo, come costruttore di manufatti.

martedì 8 dicembre 2009

E io ci vado per leggere il giornale! Una meditazione sui nullafacenti...

E, si ci vaiu, ci vaiu pi liggirimi u' giurnali...
(una domenica mattina, Giardino Inglese, Palermo)

Ogni volta che vedo uno che legge il giornale spaparanzato comodamente da qualche parte, non posso non pensare a questa frase che ha una sua storia, piccola ma edificante.
Ai tempi in cui ancora dirigevo un servizio per le tossicodipendenze cittadino, in applicazione delle norme vigenti, si era creata una turnazione pre-festiva e festiva dei Ser.T cittadini (in numero di cinque), in modo tale che, nei fine-settimana e nelle altre festività ci fosse sempre un'Unità operativa disponibile, sia per situazioni nuove o non ancora attenzionate (per una preliminare accoglienza oppure per fornire semplicemente informazioni), sia per gestire meglio utenti già in carico per la somministrazione di terapie con farmaci sostitutivi (degli oppiacei) le cui dosi giornaliere, sulla base della valutazione clinica del singolo soggetto non sarebbe stato prudente dare in affido.
Per alcuni soggetti si poneva così la necessità di mettere in atto il trasferimento temporaneo all'unità operativa della città che garantiva il turno festivo, allo scopo di limitare al massimo gli affidamenti metadonici soprattutto ai soggetti non motivati o, con un bisticcio di parole, non "affidabili".
Alla vigilia d'un fine settimana telefonai al collega che dirigeva il Ser.T che avrebbe garantito quel turno per segnalargli il trasferimento di una serie di utenti, un gruppo più numeroso del solito sulla base delle mie valutazioni.
Quel collega si risentì parecchio.
L'invio di utenti, infatti, comportava di norma un surplus di lavoro: identificazione dell'utente, trascrizione degli estremi del documento d'identità oltre che la somministrazione dei farmaci, a fronte d'una situazione che, probabilmente sarebbe stata di totale inazione.
Il collega, alquanto zotico e di poca cultura (mi rammarico nel dirlo), a sottolineare la sua scarsa disponibilità, pronunciò appunto questa frase lapidaria: "E, si ci vaiu, ci vaiu pi liggirimi u' giurnali...".
Come a dire: "Non rompere. Lasciami fare la vita comoda...".
Parole che, dando pienamente ragione agli stralli di Ichino contro i nullafacenti - ed anche (mi duole dirlo) ai pesanti apprezzamenti del ministro Brunetta - in quanto espressione d'una programmatica e premeditata volontà di non far nulla, pur essendo in servizio, mi sono rimaste indelebilmente scolpite nella mente.
Ed è per questo che ogni volta che vedo uno che se ne sta placidamente a leggere il giornale non posso fare a meno di pensare a questa storiella, anche se - di per sè - la lettura del giornale comondamente seduti su di una panchina al centro di un'area verdeggiante non è da condannare, anzi potrebbe essere un'attività decisamente piacevole e meritata, tipo il "riposo del giusto" dopo una faticosa settimana di lavoro...
Ma la paranoia alla maniera di frutta genera i suoi frutti...
E se il tipo nella foto fosse un'escapista dal posto di lavoro?

sabato 5 dicembre 2009

Storia d'un pasto improvvisato: e la cagnetta Frida sta a guardare...

Ecco la Frida! Osservate come mi guarda, mentre mangio la sua carne... La sua carne? E cos'è successo?

Questa è la piccola storia che posso raccontarvi, a partire da questo sguardo.
Sono andato a fare i soliti lavoretti settimanali in campagna.
Avevo comprato dei petti di pollo da cucinare ai ferri.
Ma invece, per distrazione, ho preso il pacchetto di tritato della canuzza (tipico!).
Quando mi sono accorto dell'errore, ho detto:
"Pazienza! Farò a meno della carne!", avendo anche delle verdure da mangiare.
Ma poi ci ho ripensato: ho condito il tritato con olio, sale, origano, abbondante pepe e peperoncino, pan grattato. E l'impasto ho lasciato a riposare.
Ho preso dei pomodorini, li ho sminuzzati e li ho passati in olio caldo, aggiungendo poi tutto il tritato condito per far soffriggere il tutto.
E, quindi ho preso a degustare la carne trita:
"Mmmmmmm! Com'è buona"!
La canuzza che, prima mi ha visto maneggiare il suo pacchetto di carne (ormai lo riconosce benissimo: mica stupida!), si sente vittima d'una palese ingiustizia.
Mi guarda vogliosa, comunicandomi, con il suo sguardo languido ed intenso insieme, di sentirsi vittima di un'ingiustizia.
Via! Gliene lascerò un poco!
Anche se la mia pietanza improvvisata é venuta su buonissima e sarà veramente duro metterne via una parte...
Ma le fedeli bestioline non bisogna mai tradirle!!!

La pietanza del contendere...

martedì 1 dicembre 2009

In un romanzo di Brun la dura formazione degli adolescenti dei paesi dell'Est destabilizzati o in guerra


"La città di sotto. Noir dell'est" è il titolo del terzo romanzo scritto da Riccardo Brun (edito da Stampa Alternativa - Nuovi equilibri nel 2006).
Il sottotitolo di questo breve romanzo-verità (, si potrebbe dire forse, reportàge romanzato) rivela una sua ipotetica ambientazione: un nowhere in qualche paese (balcanico, si potrebbe supporre) dell'Est dell'Europa, tormentato da guerre interne e fratricide.
Ma, in nessun punto del romanzo, viene citata una città o una regione geograficamente individuabile (anche se è ipotizzabile che debba trattarsi della Romania del dopo-Ceasescu, dove effettivamente - a Bucarest - bambini rimasti senza genitori si ritrovavano a vivere nei sottorranei della città, sottoposti ad un duro apprendistato): uno stratagemma che accresce l'impatto fantastico del romanzo, perchè lo svincola dalla realtà, lasciando l'autore libero di spaziare in una costruzione narrativa che, assumendo un valore universale, pone l'accento sui guasti che queste guerre "non-guerre" hanno creato - e continuano a creare - soprattutto sui più giovani, adolescenti e bambini che siano, costretti ad arrangiarsi oppure a divenire "reclute" di un esercito sotterranneo e/o clandestino che non sta con nessuna delle parti contendenti (siano gli invasori, il governo fantoccio, oppure la resistenza) ma curando esclusivamente i propri interessi, come accade in tutti i periodi di destabilizzazione sociale e politica.
Vania e Majla - ciascuno con un percorso di vita diverso - hanno imparato a sopravvivere in questo mondo allo sbando, apprendendo la durezza e la violenza: un mondo cupo che fa tanto pensare alla società delineata da Orwell in 1984.
Le vicissitudini di una vita lontana da qualsiasi affetto familiare (entrambi sono stati privati dei genitori) li hanno induriti, ma il loro incontrarsi fortuito (con l'accendersi in entrambi d'un guizzo di solidarietà che consente loro di superare la mera legge della sopravvivenzza) e l'aggregazione temporanea ad un gruppo di ribelli idealisti fanno loro comprendere che un modo diverso di vita è possibile, che ci può essere la speranza, che ci possono essere relazioni con l'altro dominate dagli affetti, anzichè esclusivamente dalla violenza e dalla prevaricazione.
Nel romanzo c'è, in qualche modo, un lieto fine
che - pur relativo - passa attraverso la rappresentazione della via di salvezza - drammatica e dura - dei trasporti di profughi via mare gestiti dagli scafisti, : le ferite e i guasti rimarrano e, forse, solo con il tempo cicatrici così vaste potranno ridimensionarsi...
Ciascuno dei due protagonisti - e questo è un dettaglio che mi è piaciuto - come sempre accade ai più giovani sottoposti a condizioni estreme - ha le proprie tecniche di sopravvivenza: Vania ha una sorta di mentore immaginario (il signor Blovo che nei momenti di difficoltà compare allucinatoriamente per dispensargli conforto, consigli ed esortazioni) e Maila, invece, si perde nel mondo raccontato dai libri - e scopre altri mondi più belli di quello in cui dalla sorte è stata costretta a vivere.
Una bella storia di formazione in tempi bui.

Chi è Riccardo Blum
Giornalista, scrittore e sceneggiatore, Riccardo Brun è nato a Napoli nel 1974. Ha pubblicato tre romanzi: Carissimo L , Guida Editore, con M.Ricciuti, Menzione Speciale al premio Elsa Morante 2001, Genova Express, Manifestolibri, e La Città di Sotto, Stampa Alternativa. Ha pubblicato anche racconti in varie raccolte.
Ha lavorato per il cinema scrivendo sceneggiature, tra le quali quella di Racconto di Guerra di Mario Amura, David di Donatello 2002, e quella di In Ascolto , di Giacomo Martelli, Premio per la miglior sceneggiatura al Magna Graecia Film Festival.
Collabora con riviste e quotidiani fra cui “Il Corriere del Mezzogiorno” e “il manifesto”.
Si è occupato di mediattivismo, uffici stampa e comunicazione integrata soprattutto in ambito culturale e di movimento. Ha diretto la redazione del Premio Napoli, quella della Fondazione Idis-Città della Scienza ed è stato il responsabile cultura e comunicazione e il coordinatore dell’ufficio stampa di Rifondazione Comunista in Campania. Attualmente lavora per la Produzione cinematografica Panamafilm e vive fra Napoli e Roma.

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