lunedì 30 marzo 2009

Il mondo è crudele


In lontananza, nella via, vedo avanzare lungo il marciapiedi, una ragazzina, jeans e maglietta, capelli neri, corporatura esile.
Aspetto normale per la sua età, jeans un po' a vita bassa, come usano tutti i ragazzini.
C'è qualcosa di dsarmonico nel suo incedere.
Ha le spalle particolarmente esili e non c'è il consueto movimento ritmico delle braccia, si ha l'impressione che manchi qualcosa a rendere armonica la progressione.
Guardando meglio, mentre si fa più vicina, mi rendo conto che, al posto delle braccia, ci sono due piccoli moncherini che oscillano, anche se in modo minimo.
In volto, a distanza ravvicinata me ne accorgo meglio, ha un'espressione triste e pensosa.
Eppure, è una ragazzina come tante altre della sua età.
Dietro di lei procedono tre ragazzetti sulle bici acrobatiche.
La indicano più volte.
Parlottano tra loro.
Ridono, forse deridendo qualcosa che non capiscono e che nessuno è stato capace di spiegare loro.
Mi vergogno per loro, per l'insensibilità e la crudeltà che esibiscono.
Penso, mentre osservo questo teatrino di ordinaria crudeltà, che la nostra società non fornisce per nulla ai giovani degli strumenti per comprednere la diversità, benchè ci siano delle normative specifiche che, discendendo dalle convenzioni internazionali, impongono di intraprendere tutte le iniziative necessarie per facilitare l'integrazione e fornire pari opportunità a chi, per nascita o per un destino avverso, è diversamente abile oppure presenti delle anomalie somatiche o psichiche.
Oltre alle normative, d'altra parte, c'è quell'immenso territorio dell'educazione dei più piccoli alla tolleranza e all'accettazione di chi è diverso da noi, ma anche delle famiglie perchè gli adulti trasmettano ai più piccini tali valori: e per questo si sta facendo ben poco, purtroppo.




Per alcuni mesi il turista che si aggirasse per Trafalgar Square avrebbe potuto essere colpito dalla visione di una grande statua in marmo italiano bianco, collocata su di un alto basamento.
E non avrebbe potuto non rimanerne colpito.
Era la statua di una donna focomelica che rievocava la tragedia della talidomide, riaprendo il dibattito sull'aborto e sui diritti dei disabili e che, nello stesso tempo, rappresentava un tributo forte e coraggioso a chi è stato colpito duramente dalla sorte e, al tempo stesso, il riconoscimento culturale ed umano che nella disabilità vi sono la bellezza e il dono della vita.
Perché se è vero che l'arte - parola di Oliviero Toscani - "deve disturbare" può diventare anche un potente strumento di comunicazione.
Nelle piazze cittadine come sulle pagine di un giornale.
Suscitando reazioni decisamente contrastanti "Alison Lapper pregnant", scultura in marmo italiano dell'artista inglese Marc Quinn, è stata infatti scelta da una commissione appositamente nominata dal sindaco Ken Livingstone per occupare, per quindici mesi, il quarto plinto della piazza più famosa di Londra.
E che non si trattasse di una semplice questione di pruderie lo si è capito dalla definizione di "statua choc" che ha immediatamente accompagnato l'opera.
Forse statua choc per alcuni, ma per altri una bellissima e poetica dichiarazione d'intento, un manifesto libertario e saturo di senso civico.

giovedì 26 marzo 2009

In the countryside


Dopo il lungo inverno
son tornate le rondini
con i loro voli incessanti e nervosi

Ancora son poche
quasi smarrite nella solitudine del vasto cielo

Il solè è caldo sulla pelle

Il vento incessante
lo stormire delle fronde
non suono di voci
solo qualche belato
e l'odore selvatico
di un gregge di capre al pascolo

Corsi e ricorsi


L'altro giorno, mio figlio mi ha raccontato di aver acquistato un criceto e di averlo portato a casa di nascosto, per evitare la disapprovazione della madre.
Da allora lo tiene in una gabbietta a due piani nella sua stanza, della cui manuntezione si occupa personalmente. Queste sono state le condizioni dettate dalla mamma.
Mi ha detto di essersi documentato su tutto ciò che occorre sapere sui criceti (manutenzione, alimentazione, etc), facendo una ricerca su internet.
Già, oggi giorno, tutto quello che occorre si può scoprire su internet e mio figlio che è un esemplare rappresentante di quest'epoca non si sottrae alle tendenze imperanti.
Da quando me ne ha parlato, Francesco mi aggiorna periodicamente sulle osservazioni che ha modo di compiere sul comportamento del criceto (meglio, della criceta).
E' meravigliato dalle sue incessanti attività, dal frenetico vorticare dellla ruota, dal suo arrampicarsi e dal suo esplorare con curiosità e pervicacia ogni recesso della gabbia, trovandosi stupito anche del fatto che tali attività si svolgano soprattutto durante le ore notturne.
Avere un animale domestico è stimolante per lo sviluppo delle proprie curiosità naturalistiche e consente di affinare le proprie attitudini all'osservazione di entità viventi distinte da noi.
Sono rimasto colpito da questa "scoperta" che mio figlio figlio ha fatto in totale spontaneità e senza essere emulo di nessuno.
Non gli avevo mai raccontato, infatti, che io stesso tanti anni fa, avevo tenuto in casa dei criceti: e, anche in quel caso, furono i primi animaletti che ebbero l'accesso alla nostra vita domestica.
Come nel caso di mio figlio, io forzai mia madre ad accettarli, mettendola di fronte al fatto compiuto.
Ma ero già un bel po' più grande di Francesco: se non ricordo male, già frequentavo gli ultimi anni di università.
Sin, dall'inizio, però, ebbi una coppia di criceti e non esitai a farli accoppiare: fu un esperienza meravigliosa veder nascere una nidiata di minuscoli cuccioli dalla pelle rosea, nudi e fragili, totalmente ciechi e con le orecchie ancora non sviluppate, che pure pur apparendo così fragili si affanavano a prendere il latte dalla mamma.

Poi dopo la prima nascita fu un vorticare di altre cucciolate: infatti, i criceti, come tutti gli animali di piccola taglia, hanno un ciclo riproduttivo e di crescita estremamente veloce.
Rapidamente ebbi una "colonia" di criceti che arrivò a contare, nel periodo di massimo sviluppo, sino a 25-30 individui.
Il problema era che, crescendo numericamente, la loro riproduttività si incrementeva in scala geometrica e per quanto tentassi di tenerli separati, si verificavano sempre nuovi accoppiamenti e nuove nascite in una spirale senza fine.
Le gabbiette a due comparti si moltiplicarono a dismisura e la mia stanza finì con l'esserne totalmente invasa.Gran parte del mio tempo era dedicata alla pulizia degli alloggi e alla sistemazione di individui adulti che necessitavano di un ambiente separato.
Ero diventato un vero e proprio "albergatore" di cricetii e il resto della mia vita di studente se ne stava andando a rotoli.
Ad un certo punto, decisi di rompere le catene che io stesso mi ero creato, caricai i criceti con armi, bagagli e casette sulla mia vecchia e scassatissima R4 e li portai da un negoziante di animale, al quale mi riuscì di lasciarli, convincendolo che stava facendo un buon affare (costo della transazione per lui: zero lire).
In ogni caso, mi sono molto commosso di sentire che mio figlio senza sapere nulla di questa mia storia, stia esplorando la stessa cosa.
E lui, per una volta, ha ascoltato con interesse il mio racconto.

I criceti missile

mercoledì 25 marzo 2009

Gran Torino: la storia d'un lascito spirituale


"Gran Torino" è la bellissima opera di un maturo e pensoso Clint Eastwood, non tanto sul tema della inter-razzialità e dell'accettazione buonista dell'Altro da sé dopo la fase del disprezzo e dell'intolleranza, bensì una riflessione sulla vecchiaia e sul possibile lascito spirituale che un uomo ormai giunto alla fine della sua traiettoria di vita può trasmettere a chi rimane.
Tanto si è detto su questo grande film.
Ai critici americani non è piaciuto per il "buonismo" di Mr Kowalski (interpretato dallo stesso Clint Eastwood), veterano della guerra di Corea e poi dipendente della Ford, che - dopo aver odiato per tutta la vita i "musi gialli" (proprio a causa della sue precedenti esperienze), trovandosi a stretto contatto con la comunità di Asiatici dell'etnia Hmong che vive nel suo quartiere si converte al verbo della tolleranza e dell'umanizzazione, davanti alla genuinità delle relazioni tra uomini, al rispetto e all'affetto autentici che gli vengono tributati, in misura molto più profonda e sincera di quanto non ne abbia ricevuto dai suoi familiari che sono invece ipocriti ed interessati.
Questa, in sintesi, la storia
Walt Kowalski è un reduce della guerra di Corea, di carattere burbero e spavaldo, prova una grande passione per la propria Ford Torino, modello classico del 1972, custodita in garage. Walt non mostra pudore nel manifestare il proprio sentimento anticoreano, nato durante la sua campagna in Corea, quando vide morire suoi amici per mano dei nemici. A peggiorare la situazione, il quartiere da lui abitato negli ultimi anni è diventato il principale centro suburbano della comunità coreana, e le bande giovanili danno molto fastidio a Walt. Anche se frustrati e maltrattati da Kowalski, i coreani aiuteranno l'uomo a risolvere i problemi personali che tiene con la famiglia, per diventare amici e aiutarlo a ripudiare il razzismo.
Il rustico Walter (Walt) morirà alla fine per una buona causa, ma in modo onesto e non prevaricatore: il suo morire sarà quello di una vittima sacrificale (non innocente, tuttavia, perchè in guerra ha commesso i suoi peccati di cui ha portato il peso per tutta la vita) che si autoimmola in nome di un bene superiore e di valori etici.
Ferito a morte, cade a terra e lì rimane a giacere come un Cristo crocifisso, un'autentica icona che riscatta i suoi precedenti comportamenti di intolleranza e di disprezzo.


Il film che comincia con un funerale, si conclude così con un altro funerale dolente che tuttavia apre la strada ad una vita rinnovata per alcuni di quelli che sono rimasti (gli Hmong: il giovane Thao e la sua famiglia).
Non dirò di più sul film che va visto senza sconti e senza prevenzioni di sorta, con un ritmo lento nel primo tempo e un po' più concitato ed intenso sul piano emozionale nella sua seconda parte, con Kowalski che trova la via di una redenzione (ma senza mai abbandonare il suo ruvidume), lasciandosi alle spalle disprezzo e apparente chiusura, per entrare in una dimensione di vita "umanizzata" e attenta alle esigenze degli altri.
Vi è, in questo, la cifra di un intenso percorso interiore che fa da catalizzatore a tutto il resto: la strutturazione di un rapporto intenso e formativo tra Kowalski e il giovane Thao che, chiuso ed introverso a causa della precoce perdita del padre, non vuole accettare le lusinghe e le prevaricazioni della banda di teppistelli del quartiere.
Tra i due si attiva un percorso di formazione rustico, senza tante edulcorazioni: un percorso in cui il Maestro diventa tale senza nemmeno saperlo di esserlo, ma è nello stesso plasmato dall'umanità e dalla sofferenza con cui viene in contatto. E, nello stesso tempo, in una totale complementarità di ruoli Walt attraverso Thao e la sua famiglia riprende dimestichezza con il linguaggio dei sentimenti e dei valori etici più alti.
Usando questa chiave di lettura, colpisce questo'aspettto in particolare.
Bisogna focalizzare l'officina degli attrezzi di Mr Kowalski.
Thao si sofferma a guardare ammirato la profusione e la varietà di attrezzi e strumenti che contiene.
Si capisce che gli piacerebbe conoscere l'utilizzo di ciascuno di quegli oggetti.
Kowalski gli dice: "Con ognuno di questi attrezzi puoi fare una cosa specifica e con l'officina così attrezzata puoi compiere praticamente ogni tipo di lavoro meccanico".
Ancora maggiore è l'ammirazione che si accende negli occhi di Thao.
"Ma saranno costati un sacco di soldi", replica Thao.
"Sì, dice Kowalskj, non penserai certo che io li abbia rubati! Li ho acquistati tutti, uno alla volta. Non puoi averla all'inizio un'officina così attrezzata. Un uomo ci può impiegare anche tutta la sua vita per arrivare a questo punto".
E, in effetti, è proprio così: ogni uomo, che sia capace di mettere bene a frutto la sua vita, va fornendosi per tutta la sua durata d'una cassetta di attrezzi ben dotata, di un capanno dove tenere i propri strumenti e dove compiere i lavori che sa fare meglio, in un processo di accrescimento che, virtualmente, dovrebbe essere continuo ed inarrestabile: alla fine, quell'uomo dovrebbe possedere una gran quantità di strumenti con i quali affrontare al mondo ed insegnare - se possibile - qualcosa agli altri.
E a quel punto, per quell'uomo, si porrebbe il problema della successione: cosa accadrà dei suoi strumenti, se non c'è nessuno a cui lasciarli, nessuno che ne sia degno (che ne comprenda il valore intrinseco e simbolico) e che partendo da quelli possa costruire il suo personale strumentario o se gli eredi legittimi sono poco interessati al valore profondo - non monetizzabile - di essi?
Clinti Eastwood risolve il formidabile interrogativo esistenziale affidando al giovane Thao, divenuto pupillo di Walt "per caso", il compito d'assumere l'eredità-lascito spirituale - prima ancora che materiale - di Walt, il suo protagonista.
La splendida Ford modello "Gran Torino" del 1972 che, per Walter, è un auto di culto da tenere linda, immacolata e in perfette condizioni d'uso diventa il tramite materiale del lascito destinato a Thao che di tale "bene" sa coglierne il significato più profondo, non essendo per nulla interessato al suo valore "monetizzabile" (a differenza dei due figli che mai sono stati in grado di capire l'umanità di Walt, nascosta dietro quella scorza coriacea) .
E proprio sulle sequenze di Thao che viaggia in auto sulle rive del lago si chiude il film.

Il trailer

La canzone che chiude il film

sabato 21 marzo 2009

Impressioni notturne



La via è buia e deserta:
una desolation row della mente.

Folate di vento cattivo e mordace
sollevano cartacce,
pagine gualcite di giornale
e vecchi involucri di plastica.
E anche quelle rade foglie cadute
che ancora rimangono dalla morìa dell'autunno.

E tutti questi oggetti
intrecciano morbide danze,
evocando fantasmi con il loro fruscio.

Fruscio e silenzio,
Silenzi e fruscio
e ancora il soffio del vento.

Rombo di motore,
violenta lama di luce
che lacera il buio

E poi silenzio, silenzio,
immobilità, attesa.

E poi di nuovo il fremito del vento

Che ci fa lì,
nel buio e nel silenzio,
quel viandante con una sporta
sghemba sulle spalle,
proteso sull'orlo del nulla?

Forse prima di muovere un passo ancora
si protende ad ascoltare il silenzio,
o è intento a leggere gli arabeschi frattali
tracciati da quegli oggetti volanti
cercando il ricorrere d'una cifra magica,
la chiave ultima per leggere se stesso

giovedì 19 marzo 2009

L'uomo-scatola


Palermo.
Mattino.
All'angolo tra via Brigata Verona e via Sciuti, dove si conclude il fronte del mercatino rionale del mercoledì, si scorgono le ultime propaggini della consueta corte dei miracoli colorita e frenetica, fatta di ambulanti abusivi, di questuanti e di perditempo.
Proprio là all'angolo, c'è, in statuaria immobilità, un uomo-scatola.
Se ne sta tutto infilato sino alla vita dentro una grande scatola di cartone da imballo, con espressione contrita e addolorata.
Allunga la mano e con voce cantilenante ripete "Ho fame, ho fame".
Molti si fermano ad allungargli una monetina.
Escludendo che si sia infilato dentro la scatola per non patire il freddo (non è una giornata troppo fredda, via!) e considerando che la scatola è abbastanza bassa, tanto da non consentire di starci dentro in piedi, facendo arrivare la vita al bordo rimangono poche altre alternative: o al poveretto mancano le gambe causa amputazione, oppure le ha deformi e contorte, o ancora ha una coda da tritone che tiene tutta arrotolata al riparo di sguardi troppo penetranti.
L'ultima alternativa - la più plausibile - è che semplicemente egli tenga le gambe raccolte sotto il corpo in una scomoda posizione.
Ma allora perchè se ne sta dentro la scatola?
Secondo me, una genialata!
In un'epoca di corpi virtuali, questo personaggio ha inventato in modo rozzo la deformità "virtuale".
Occultando alla vista la metà inferiore del suo corpo, lascia che il passante proietti su quel vuoto d'immagine le sue fantasie e le sue personali rappresentazioni, lasciandosi prendere da esse e depositando più facilmente e più motivato psicologicamente - magari mosso a commozione - il suo obolo.
Dopo aver fatto il suo "turno" in quel punto, il tipo s'è spostato all'estremità opposta della strada, ricollocandosi nuovamente dentro la scatola.
Comunque sia, questo insolito personaggio mi ha spinto a ricordarmi di un romanzo che lessi tanti anni fa: il kafkiano "L'uomo scatola" del giapponese Kobo Abe: la storia un po' metafisica di uno che vive nel mondo costantentemente chiuso dentro una grande scatola di cartone che lo occulta del tutto alla vista degli altri, sino ai piedi, mentre lui guarda scorrere la vita attorno a sé - senza mai essere visto da alcuno e senza esporsi - attraverso piccole feritoie aperte nel cartone.
Mi piacque molto quel romanzo: ricordo che lessi con molto vigore, trovandolo una geniale metafora dell'assurdo nella condizione umana, anche se prospettava una situazione esistenziale di grande isolamento e solitudine.

Quella che segue è una recensione al libro che lessi a suo tempo e che ho ritrovato nel web.

Si ritrovano, in questo romanzo di Abe Kobo, scritto agli inizi degli anni settanta, quelle ossessioni tipiche dell'autore che gettarono non poco scompiglio nel panorama letterario giapponese del decennio precedente. Attraverso la paradossale vicenda di un uomo che decide di trascorrere dentro una scatola il resto della propria esistenza, Abe prosegue infatti il suo discorso sulla perdita d'identità dell'individuo nella società contemporanea, sulla rappresentazione di un mondo vissuto come trappola, labirinto, spazio claustrofobico. Prigioniero di questa realtà, l'uomo di Abe non può fare altro che reagire portando alle estreme conseguenze il processo di reificazione di cui è involontariamente parte, divenendo egli stesso una cosa, un uomo-scatola. Delle opere del decennio precedente Abe riprende anche quell'affascinante mescolarsi di elementi fantastici e quotidiani, che conferisce ai suoi romanzi un andamento onirico e dà vita a uno stile assai personale, sebbene non privo di influenze occidentali, prime fra tutte quelle di Kafka e Robbe-Grillet. Si può forse rimproverare ad Abe di comportarsi come uno dei suoi personaggi, di essere egli stesso prigioniero di ossessioni da cui non è riuscito a liberarsi, tuttavia queste stesse osservazioni testimoniano anche di un'autenticità e un coinvolgimento dell'autore nella propria opera che se non significano automaticamente buona letteratura ne sono certamente una premessa.

Ma, per associazione d'idee, mi è venuto in mente anche un brano di Lou Reed/john Cale, The gift (Il dono) che, a suo tempo mi era piaciuto straordinariamente.
Una canzone lunga contenuta nell'album White light/ White Heat, e con un finale - se vogliamo - terribile e disperante, ma sin dalla prima volta che ho ascoltato questo pezzo con la sua musica ipnotica e quella voce recitante come una nenia, m'è venuta la pelle d’oca.
In fondo si tratta di una grande storia d’amore che parla anche di tristezza e di solitudine. E il finale non importa. Non è reale, del resto.
Non vuole essere una canzone splatter, ma una bellissima e sconvolgente metafora della vita e dei suoi incontri mancati e delle intenzioni fraintesi e degli equivoci che, senza averlo previsto, ingenerano pesanti conseguenze e scavano abissi tra le persone.

Hic sunt leones


Poche notti fa ho sognato.
Ero con la mia compagna che mi induceva a prendere con me un leone (in teoria addomesticato).
La parte successiva del sogno era tutta dedicata alla mia vita con il leone.
Qualsiasi cosa stessi facendo ero sempre assorto. I leone, ospite incomodo ed ingombrante, riempiva con infinite varianti, i miei pensieri. Ero certo che, prima o poi, la sua natura selvaggia di predatore sarebbe emersa in modo distruttivo.
Non volevo allontanarmi da casa e, se ne uscivo, dovevo tornare subito indietro per verificare che non fosse accaduto nulla di grave.
Temevo eventi irreparabili di cui avrei potuto essere considerato responsabile.
Pensavo soprattutto alla difficile convinvenza tra la mia cagnetta Frida e il leone possente - nella ricombinazione del confronto eterno tra agnelli e lupi.
Pensavo al leone che minaccioso spalancava fauci irte di denti aguzzi, chiudendole con uno scatto sulla testa minuscola - in confronto - della povera Frida.
Una volta ho avuto in casa un cane e un gatto che, essendo già adulti quando si erano trovati sotto lo stesso tetto, non avevavo potuto in alcun modo maturare un linguaggio comune per una pacifica convivenza.
La mia vita fu resa impossibile. Era tutto un aprire e un chiuder di porte, la casa suddivisa in compartimenti stagni, il quartiere del gatto e quello del cane...
Del leone non dovrei avere invero alcuna paura, dal momento che il Re della Foresta - come si dice - rappresenta anche il mio segno zodiacale.
Ma, si sa, i leoni nel mondo antico rappresentavano, per antonomasia, le belve che vivevano nei luoghi sconosciuti e non toccati dalla civilizzazione dei Romani.

Hic sunt leones dicevano i Romani per indicare le terre dove non avevano ancora costruite le loro strade, ma si servivano anche di questa espressione per indicare i luoghi dove vivevano avversari ritenuti potenti cui - pur sconfitti - occorreva tributare rispetto.
Spesso gli antichi cartografi indicavano le terre non ancora esplorate con la dicitura "Hic sunt leones", per indicare le aree del mondo non ancora conosciute, quelle che venivano lasciate vuote, perchè relative a luoghi sconosciuti e potenzialmente pericolosi.
"Hic sunt leones!": sappiate - essi dicevano - che, da questo punto in avanti, vi inoltrate in queste terre a vostro rischio e pericolo.
Nulla è più temibile di ciò che è sconosciuto.
Ma l'associare al leone l'idea di forza e di temibilità portava anche a collocare leoni in pietra a guardia di chiese oppure di grandi edifici pubblici, oppure ai piedi di illustri personaggi che con gesta gloriose hanno fatto la storia, come quei leoni accovacciati minacciosi ai piedi della statua di Nelson in Trafalgar square.

giovedì 12 marzo 2009

Un libro ci spiega perchè Facebook può diventare una droga


Lo sapete che il nome di Facebook (inizialmente noto col nome di Thefacebook) di riferisce agli annuari con le foto di ogni singolo membro (facebooks) che alcuni college e scuole preparatorie statunitensi pubblicano all'inizio dell'anno accademico e distribuiscono ai nuovi studenti e al personale della facoltà come una via per conoscere le persone del campus? In effetti, la parola significa, letteralmente, il "libro dei volti". Oggi, Facebook è un popolare sito di "social network", di proprietà della Facebook, Inc e ad accesso completamente gratuito.
Facebook è stato fondato il 4 febbraio 2004 da Mark Zuckerberg, all'epoca studente diciannovenne presso l'università di Harvard, con l'aiuto di Andrew McCollum e Eduardo Saverin, diventando rapidamente da sito di rilevanza locale, con iscritti prevalentemente della Harvard University a sito di rilevanza mondiale.
Il numero di iscritti è vertiginosamente aumentato a partire dal 2006, anno in cui venne autorizzato il loging anche per ragazzi dai 13 anni in su. Infatti, dal settembre 2006 al settembre 2007, la posizione nella graduatoria del traffico dei siti è passata - secondo Alexa - dalla sessantesima alla settima posizione.
Dal luglio 2007, FB figura nella Top 10 dei siti più visitati al mondo ed è il sito numero uno per foto negli Stati Uniti con oltre 60 milioni di foto caricate settimanalmente.
In Italia, nel 2008, c'è stato un vero e proprio boom: nel mese di agosto si sono registrate oltre un milione e trecentomila visite, con un incremento annuo del 961%; il terzo trimestre 2008 ha poi visto l'Italia in testa alla lista dei paesi con il maggiore incremento del numero di utenti (+135%).
Il sito conta attualmente oltre 175 milioni (!!!) di utenti in tutto il mondo ed è valutato più di 16 miliardi di dollari.

In un articolo pubblicato on-line dalla rivista britannica The Economist, il sociologo Cameron Marlow ha divulgato i dati sulla socializzazione degli utenti registrati su Facebook.
Secondo i dati interni al sito di social networking il numero medio di amici per utente è 120.
Esistono delle differenze sessuali per quanto riguarda la socializzazione e le donne sarebbero mediamente più attive degli uomini.
Gli uomini in media rispondono solo a 7 dei loro amici con commenti alle foto, messaggi di status o sul "wall". Le donne, sempre in media, rispondono con messaggi a 10 dei loro amici. Quando si parla di comunicazione a due sensi, come la chat o le e-mails, gli uomini socializzano con 4 amici, mentre le donne con 6.
Anche quando l'utente raggiunge una lista di 500 amici esiste un ragguardevole scarto tra questo numero e l'effettiva socializzazione: un uomo invia commenti a 17 amici e si intrattiene in chat o scambia e-mails con 10 di loro; la donna è mediamente è un po' più socievole ed invia commenti a 26 amici e chatta o scambia messaggi di posta elettronica con 16 contatti su Facebook.
Siamo tutti su Facebook.
Oggi, non essere in Facebook significa esprimere una propria diversità anticonformista secondo un punto di vista, anche se - secondo altri - chi non è su FB è un poveretto che si perde delle meraviglie. A differenza del blog che, forse, è più elitario e meno sociale, fatte salve alcune eccezioni, Facebook ha a che fare con la creazione di una rete "sociale" che, come è nella Biblioteca di Babele borgesiana, può progressivamente estendersi all'infinito, con un incremento geometrico dei propri contatti: anche se, in definitiva, a giudicare dai risultati dello studio sociologico in sintesi riportati sopra, si tratta dell'attivazione di una rete pseudo-sociale e
profondamente solipsistica.
Rimane, in sostanza, come un luogo virtuale, una "bacheca" ("wall") in cui si fa "pubblicità a se stessi" per citare il titolo di un'opera di Norman Mailer.
Ma se la parete è una bacheca, può diventare anche una prigione che distoglie dai contatti sociali reali, diventando "The wall" per parafrasare il concept album dei Pink Floyd che fa appunto da veicolo per esprimere l'angoscia e la solitudine dell'uomo postmoderno.
Una volta che ci sei dentro ti rendi conto che FB è abbastanza totalizzante.
Lo posso confermare sulla base della mia breve esperienza di neofita.
Non sapevo nulla di FB, sino ad un mese fa. Un mio amico me ne ha parlato e ho cominciato a curiosare.
Da lì a fare il login è stata questione di secondi.
Oggettivamente, devo dire che mi piace come strumento di comunicazione, ma nello stesso tempo ho constatato che con FB, crescendo a dsimisura le cose da controllare, come le risposte ai messaggi personali, ai wall-to-wall, i commenti alle note che hai postato, la movimentazione nei gruppi che tu hai creato o a cui hai aderito, i tempi di permanenza davanti al PC lievitano in modo non indifferente, direi quasi preoccupante.

Occorre fare attenzione, mettendo in atto delle precauzioni d'uso: rinunciare a seguire qualcosa, non accettare tutti gli inviti, essere più selettivi nell'accettare nuovi "amici".
Esce in questi giorni un interessante libricino scritto da un facebookiano massimalista (con più di quattrocento "amici"), prima incallito utilizzatore e poi pentito, dal titolo "Facebook: domani smetto" (Castelvecchi, Roma, 2009).
Il libro, che nasce come una riflessione maturata all'interno di FB, pone sul tappeto alcune interessanti questioni.

La più cruciale è questa: che ci sia il rischio che FB possa diventare una nuova droga, soprattutto per tutte quelle sollecitazioni che è capace di offrire al desiderio dentro ciascuno di noi di una "socialità" intelligente?

Pensiamoci!

Riflettiamo!
E' bello potere prendere le distanze da ciò che ci coinvolge ed attivare forme di metariflessione sulla propria esperienza.
Questa che segue la sintetica presentazione al volume in quarta di copertina:

"Pensi sia solo un gioco e cominci: perché c'è dentro qualcuno che conosci, perché lo fanno tutti.
Per curiosità o per necessità, prima o poi è sicuro che ci finisci, e vedi che tutti gli altri sono già lì. A consumare la droga più devastante dai tempi del crack. Su di loro scopri tutto: e-mail, numero di cellulare, cartone animato preferito, voto di condotta delle medie. Nome e cognome veri e soprannome che gli ha dato la compagna di banco all'asilo. E dopo poco tempo ti basta una sola occhiata alla loro bacheca per inquadrarli: il principiante e il fanatico, la sex symboi e la timida, il boss e il pentito. È
la prima cosa a cui pensi quando ti svegli, l'ultima prima di addormentarti. La sera non esci perché tutti i tuoi amici sono lì, su Facebook. Il giorno non telefoni, non mandi e-mail, non incontri persone. Tanto c'è Facebook. E se proprio devi uscire di casa per fare la spesa, crei un evento con un inizio e una fine. Questo libro è per te, che avevi una vita più o meno felice fino a quando, un giorno, qualcuno ti ha chiesto: "Ma tu sei su Facebook?". Questo libro ti farà smettere. O quasi."
A guardare i titoli dei diversi capitoli, in cui è suddiviso il racconto della sua esperienza, sembrerebbe che Ferrari abbia preso una brutta cotta per FB e che il suo percorso sia stato estremamente simile ad una storia di coinvolgimento in una dipendenza e all'uscita da essa con tutte le ambiguità e i ritorni indietro (le ricadute).
Ma, a prescindere dalle estremizzazioni, FB può avere dei pregi e fornire stimoli intellettuali non indifferenti attraverso il confronto e la discussione in un'agorà senza limiti.

mercoledì 11 marzo 2009

Watchmen: qual'è l'evoluzione di una "ronda" dotata di superpoteri?


"Watchmen" è un film decisamente in controtendenza rispetto ad altri che sono stati tirati fuori dalle saghe dei DC Comics.
Innanzitutto è lento, di una lentezza soporifera, che rende ardua la resistenza mentale nelle quasi tre ore di proiezione.
In secondo luogo, presenta una serie di scene realmente atroci (uccisioni, arti amputati, mannaie che spaccano teste, corpi che esplodono in frammenti) che ne fanno - proprio per queste specifiche sequenze - un film splatter ed improponibile ad un pubblico di minori.
Per altri versi, si presenta con alcuni spunti di originalità: alcuni spunti narrativi di tipo chandleriano, come ad esempio la voce narrante fuori campo o la pensosità malinconica di alcuni dei personaggi. E' anche interessante il modo in cui la vicenda, innestandosi nello scenario politico americano degli anni Ottanta (con un caricaturale Nixon), presenti poi degli imprevedibili sviluppi di fantapolitica.
Il ritmo narrativo - come si diceva - è lento, fatto di molti dialoghi, di primi piani, di lunghi flashback che consentono allo spettatore di ricostruire l'intera storia del gruppetto di vigilantes (alcuni dei quali dotati di ambigui super-poteri).
Il tema che è dibattuto nel film (e, credo, anche nella saga a fumetti) è "Chi controlla i controllori?".
Se - in modi occulti - un gruppo di cittadini decide di sostituirsi alla giustizia, per contrastare la violenza delle bande delinquenziali, degli assassini, dei pedofili e degli stupratori, assicurandoli al potere terreno, perchè abbiano la loro giusta pena, molteplici sono le tentazioni e i passi in una strada di "immoralità".
Innanzitutto la voglia di sostituirsi alla giustizia terrena, quando non vi è più alcuna certezza della pena, provvedendo ad erogare direttamente delle punizioni fondate su una rozza legge del contrapasso o del taglione; in secondo luogo, di iniziare ad essere sottilmente pervasi da un delirio di onnipotenza per sentirsi sempre più simili ad un dio che ha il potere di salvare o erogare pene o comminare la morte.
Nei diversi rappresentanti della pattuglia di "guardiani" sono rappresentate tutte le possibili gradazioni di una simile deriva: sino a Mr Manhattan, trasformato - lui sì - da un esperimento di scomposizione della materia in un essere onnipotente ed immortale.
Già, nel cinema, avevamo avuto modo di vedere simili derive in altri film, come nel giustiziere/vendicatore magistralmente interpretato da Charles Bronson ("Il giustiziere della notte" - Death wish - di Wendell Mayes) che, dato il successo iniziale, diventò rapidamente una serie (ben quattro altri film dopo il primo).
Per quanto noioso e lento e, a tratti, anche cruento, "The watchmen" contiene degli interessanti spunti di riflessioni che è possibile travasare nella nostra attualità.

Per chi volesse saperne di più sulla serie a fumetti, inserisco di seguito l'introduzione alla voce wikipediana:

Watchmen è una miniserie a fumetti supereroistica di 12 albi, scritta dall'autore britannicoAlan Moore e disegnata dal suo connazionale Dave Gibbons, che venne pubblicata in albi mensili dalla DC Comics a partire dal 1986. Ad oggi rimane l'unico graphic novel ad aver vinto un Premio Hugo e ad essere inserita nella lista di TIME Magazine dei "100 migliori romanzi in lingua inglese dal 1923 ad oggi".

La particolarità innovativa che differenzia principalmente Watchmen dai fumetti di genere che lo hanno preceduto, è quella di presentare i supereroi protagonisti più nell'aspetto umano e "quotidiano" che in quello straordinario e avventuroso, "decostruendo" l'archetipo del supereroe convenzionale. Ecco che allora vengono descritti i loro problemi etici e personali, le difficoltà di relazione tra i componenti del gruppo, i loro difetti e le loro nevrosi, spesso riconducibili a particolari avvenimenti del loro passato. Inoltre, nessuno di essi - con una sola notevole eccezione - possiede alcun superpotere: sono persone comuni che hanno deciso di fare il mestiere, comune nell'universo di Watchmen, del "giustiziere mascherato". A questo si devono aggiungere una sapiente applicazione di tecniche cinematografiche, un ampio uso di simboli, dialoghi con più livelli interpretativi e metanarrazione.

E' il caso qui di ricordare che da una "graphic novel" di Alan Moore è stato tratto un altro film - "V per vendetta" - che, come del resto la storia dei watchmen, indubbiamente pone sul tappeto una serie di questioni etiche non da poco e che è godibilissimo da parte di un pubblico di tutte le età.

Ma vediamo la sintesi biografica di Alan Moore, anche questa tratta da Wikipedia

Alan Moore (Northampton, 18 novembre 1953) è un autore di fumetti e scrittore inglese. Le sue opere Watchmen , From Hell e V for Vendetta , lo collocano tra i più famosi autori di fumetti.

Moore, comunque, oltre ad essere un abile scrittore di fumetti, è anche un romanziere, cantante e cantautore (famose sono le sue rappresentazioni teatrali: un misto tra parte recitata e musica, preferibilmente elettrica), e, dal giorno del suo quarantesimo compleanno, autoproclamatosi mago.

Influenzato da Brian Eno e Captain Beefheart, in campo musicale, tra le sue letture formative si contano Mervyn Peake, William Seward Burroughs, Thomas Pynchon, Michael Moorcock, oltre ai fumetti letti nel periodo dell'infanzia.

martedì 10 marzo 2009

L'avanzata inarrestabile del punteruolo rosso


In Sicilia le palme continuano a morire infestate dall'implacabile punteruolo rosso.
Sembra che a nulla siano valsi alcuni interventi conservativi con la sperimentazione di metodiche atte a preservare la parte vegetativa delle piante infestate.
Gli esperti dicono che sono oltre 11.000 le palme colpite, già morte o destinate a morire comunque.
La fisionomia di molti luoghi della Sicilia sta inevitabilmente cambiando. E se dovesse proseguire si prospettano gravi amputazioni della tipicità paesaggistica della Sicilia: per fare un singolo esempio, potete immaginare la rotonda di Valdesi senza quelle palme svettanti?
Adesso, è sempre più frequente il triste panorama di palme la cui chioma verde s'è completamentamente disseccata oppure quello di tristi mozziconi di tronco che sporgono dal suolo dopo il taglio radicale delle piante morte.
Gli entomologi sostengono che il "punteruolo rosso" è una meraviglia della natura, quanto a resistenza e a capacità di sopravvivenza, e che, per quanto lo studino, non riescono a trovare un sistema efficace per debellarlo.


Quando una pianta, infestata e morta, viene abbattuta i parassiti l'abbandonano e spostano la loro attenzione sulle piante vicine, ancora sane ed è così che l'infestazione si propaga.
Da qui la necessità di non abbandonare i tronchi tagliati a terra, ma di rimuoverli subito con attenzioni adeguate.
Si notano in questo processo una grande trascuratezza e non giustificabili ritardi.
L'altra misura - a questo punto, soltanto per cercare di limitare il danno - è quella di adoperarsi il più possibile per effettuare una "diagnosi precoce" delle palme già infestate e quella - altrettanto urgente - di agire con tempestività sulle palme presenti nei giardini e nei fondi privati.
Non tutti i proprietari di terreni e di giardini hanno la sensibilità e il senso di responsabilità necessari per sollecitare degli interventi sulle proprie palme.

mercoledì 4 marzo 2009

"Crampi" e il destino dei libri

La storia dei libri che leggiamo qualche volta è semplice e lineare.
Altre volte, invece, è tortuosa.
Ci sono dei libri tra quelli che compriamo con i quali si instaura subito un rapporto che è quasi di folgorazione. Vanno letti subito, anche al costo di mettere da parte delle letture già iniziate.
Altri, invece, devono rimanere in attesa per tempi più o meno lunghi, posati su un tavolo o una sedia, lì dove li abbiamo poggiati, quando sono entrati per la prima volta nella nostra casa.
Questi sono i libri che devono subire un processo di acclimatazione, assumendo - per così dire - l'odore di casa.
Sono quelli che qualche volta li dimentichiamo del tutto e che poi. improvvisamente, saltano fuori; oppure s ene stanno lì, muti e inerti, mentre noi - per mesi e mesi - li occhieggiamo, li carezziamo con lo sguardo, li soppesiamo, prima di deciderci a prenderli, anche solo per cominciare a sfogliarli.
Poi ci sono quei libri che, per curiosità o per voglia, iniziamo a leggere carichi di entusiasmo e che poi rimangono per lungo o lunghissimo tempo a metà, dimenticati.
Poi, improvvisamente, capita che quel libro ci ritorni tra le mani ed allora lo riprendiamo esattamente dal punto in cui l'abbiamo lasciato oppure lo rileggiamo daccapo e, questa volta, sino in fondo.
E' uno strano fenomeno che ci dice tanto sulla qualità fortemente soggettiva del rapporto con il libro, come strumento di conoscenza e come oggetto d'affezione: analoghi meccanismi entrano in gioco quando, a distanza di anni, riprendiamo in mano un libro che ci era piaciuto molto e, nel rileggerlo, ci accorgiamo che non "funziona" più, non ci piace più tanto quanto ci aveva entusiasmato allora.
Ma, ovviamente, può anche capitare il contrario.

Il rapporto con i libri è vario è mutevole: se alcuni di loro invecchiamo, anche noi cambiamo, strada facendo, e muta la nostra sensibilità, così come mutano i nostri gusti.
E quel libro non ci dice più le stesse cose, non fa più vibrare le stesse corde.
"Crampi" di Marco Lodoli (Einaudi, 1992) è un rappresentante del terzo tipo di destino: iniziato - posato - dimenticato e, infine ripreso.
E' un libricino smilzo e, nel sistemare alcuni volumi in uno scaffale, l'ho notato che sporgeva, messo di sghimbescio.
L'ho preso, l'ho sfogliato e s'è acceso qualcosa dentro di me, un guizzo, una reminiscenza.
"Voglio leggerlo!"
Poi, guardando bene, mi sono accorto d'una mia annotazione nel frontespizio ("Nepal, 1992", seguita dalla mia firma).
E mi sono ricordato.
Era una delle letture, che mi ero portata nel mio "mitico" viaggio in Nepal nel lontano 1992 e mai finita. Chi sa perchè? Forse, perchè c'era un altro romanzo più attraente che era in competizione con questo o forse per via del contenuto.
"Caspita!", ho pensato, "ne è passato del tempo!"
La sua storia ha a che vedere con la corsa.
Allora, io ero appena all'inizio delle mie esperienze podistiche e pieno di entusiasmo e, forse, fu proprio il modo dell'autore di trattare l'oggetto "corsa" a infastidirmi.
Cesare, il protagonista, s'iscrive ad una gara che si svolge lungo l'Autostrada del Sole, per loccasione chiusa al traffico (improbabile). Si tratta d'una maratona non competitiva e orientata ad una qualche causa umanitaria, battezzata "Due per il mondo", perchè vi si può correre soltanto a coppie, legati con un simbolico filo d'oro.
Cesare - non avendo una compagna, un fratello, un figlio, un amico - si registra con la sua Betta, una capra che - nella derviva esistenziale in cui vive - è diventata la sua amica fedele ed inseparabile.
L'esile romanzo è tutto qui: nella descrizione delle varie fasi della corsa, con un continuo spostamento sui pensieri che passano per la testa di Cesare, sui sui ricordi, sui suoi fallimenti e forse anche su alcuni suoi oscuri delitti che ha compiuto spinto dall'isolamento e dal senso di fallimento che lo pervade in modo sempre più spinto.
La corsa per lui - come per gli altri che partecipano a questa scalcinata gara - è l'unica cosa che riesce ancora a tenere assieme i pezzi vacillanti della sua intera esistenza allo sbando.
Ma il traguardo finale rimarrà, per lui sempre irraggiungibile.
Forse, allora, era stato questo aspetto a infastidirmi: l'essere messo di fronte alla realtà oscura di una scelta che - per come la vedevo allora - poteva soltanto essere orientata alla vita, solare e fatta da persone "positive", solo ed assolutamente "positive".
Cesare è un fallimento, poichè ha forse anche compiuto azioni disdicevoli e delittuose per dare qualche guizzo alla sua vita di incomunicabilità: e corre, cercando forse di salvare la sua esistenza, anche se in modo stralunato e sciatto.
Oggi, forse la vedo diversamente, perchè penso che sono tanti e diversi i modi in cui si possono praticare lo sport e la corsa; e che, sia come sia, la corsa ci salva la vita, anche se volte in modo incompleto e mai definitivo; e che, infine, spesso la corsa ci aiuta a uscire dalla solitudine e a metterci su d'una strada in cui ci sono anche altri che camminano, come noi.
La corsa, se protratta allo stremo, può causare crampi, ma il può delle volte aiuta e proteggi dai "crampi" del vivere quotidiano e dalle derive esistenziali.
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