sabato 28 febbraio 2009

"Il Maratoneta": un vero film cult da rivisitare, di tanto in tanto



"E' sicuro?"
Questo l'incipit del dialogo paradossale tra un Laurence Olivier, dagli azzurri occhi di ghiaccio, nei panni del criminale nazista Szell (conosciuto - tra le sue vittime dei lager - come l'"Angelo bianco") e Dustin Hoffmann nel ruolo di Babe, il giovane studente di storia, ebreo di origine e figlio di H.V. Levy, intellettuale vittima del maccarthismo.
A queste parole segue una scena formidabile, rifratta in due parti, in cui il criminale-nazista mette opera le sue arti di dentista per estorcere una confessione alla sua vittima. Già, perchè è un medico odontoiatra...
Una scena che nulla ha perso, malgrado i quasi quarant'anni trascorsi dall'anno di uscita del film.
Mi riferisco a "Il maratoneta", il magistrale film di John Schlesinger, da alcuni considerato un "capolavoro assoluto" della cinematografia.
Un film che mi è piaciuto per diverse ragioni, sia quando l'ho visto una prima volta alla sua uscita, in modo un po' istintivo, sia quando ho avuto modo di rivederlo proprrio di recente in DVD.
Le ragioni per cui mi è piaciuto e per cui mi piace tuttora?
Innanzitutto (fu questa la cosa che mi appassionò la prima volta), perchè - a distanza di oltre 5 anni dalla Maratona di Roma e di qualche anno da quella di Tokyo - ha fatto da cassa di risonanza alle bellissime immagini in bianco e nero, un po' sbiadite, delle imprese eccezionali di Abebe Bikila, il maratoneta etiope che vinse la maratona ai giochi olimpici del 1960 (Roma), correndo a piedi scalzi, e dopo quattro anni quella delle Olimpiadi di Tokyo, entrando nella storia dello sport come il primo uomo a vincere consecutivamente due ori olimpici nella maratona.
In secondo luogo, perchè è una bellissima apologia della corsa
che ti salva la vita (e dell'amore per la maratona, come mito) e chi corre per passione sa bene che la corsa spesso ci "slava" letteralmente la vita, anche se non c'è nessun criminale nazista che ci insegue (ma, spesso, ci sono i nostri demoni interiori e le nostre inquitudini a cui sottrarsi e da sconfiggere). Babe è un corridore e carezza dentro di sè il sogno di correre una maratona e Abebe Bikila è il suo mito. Mentre corre e mentre si misura con altri podisti che - come si usa fare anche oggi - gli lanciano il guanto della sfida bonaria (ma, sotto sotto sempre seria), nella sua mente sfilano proprio quelle mitiche immagini di Abebe che, allargando e alzando elegantemente le braccia quasi fosse un fragile uccello pronto a levarsi in volo, taglia il filo di lana steso davanti a lui. E la sua capacità di correre e di correre, ressitendo al dolore, gli salverà la vita.
In terzo luogo, il film è un bel thriller che mantiene anche oggi un suo ritmo incalzante e che riesce, malgrado tutto a reggere il confronto con i film contemporanei molto più velocizzati.
E' veramente un grande film che - come dicevo - mi è capitato di rivedere recentemente, sperimentando grandi e profonde emozioni, perchè è uno dei film (l'altro
"L'uomo chiamato cavallo" su cui si è fondata la mia passione per la corsa.
In contemporanea, proprio in questi giorni, ho voluto rileggere il romanzo da cui è stato tratto (Willliam Goldman, Il maratoneta, titolo originale: Marathon man) che ho trovato davvero notevole, dal ritmo intrigante e dai dialoghi serrati, spesso ironici.
Anche qui, il paradossale dialogo con il medico torturatore che esordisce con la enigmatica domanda "E' sicuro?", come nel film, è assolutamente magistrale e colpisce tanto a fondo che dopo avere letto il libro e visto il film, il rapporto con il proprio dentista non sarà più sicuro e rasserenante come prima, ve lo posso assicurare... almeno sino che quelle immagini del film non tornano nuovamente a sbiadire nel ricordo.
D'altra parte, la sovrapponibilità del film al romanzo cui si ispira e la godibilità di entrambi, sono qualità che non sempre si riscontrano nella trasposizione dei romanzi in film: in questo caso felice, la sceneggiatura del film è scaturita dalla penna dello stesso Goldman, il quale - in una simpatica introduzione - racconta con gusto ed ironia
che - proprio per quella scena - il film di Schlesinger divenne un vero e proprio cult per i dentisti.

venerdì 27 febbraio 2009

I venditori ambulanti di Mondello paese


Un autobus si ferma a Mondello paese.
Sono le 10.00 del mattino circa di un giorno feriale, insolitamente bello, dopo il protrarsi del cattivo tempo nei giorni precedenti.
La sosta del bus si protrae all'inverosimile: a fatica, ne esce un'intera moltitudine di venditori ambulanti, quelli che poi con i loro banchetti si posizionano sul lungomare, molto più fitti nei giorni di festa e quando è bello.
Ciascuno di loro trasporta enormi scatoloni e altrettanto voluminosi involti.
Sembra di vedere un improvvisato trasloco e si sperimenta una straniante dislocazione nel tempo e nello spazio: sembra di vedere uno di quegli autobus o camion che, strarichi di persone, derrate e perfino animali da cortile viaggiano da una cittadina all'altra in uno dei paesi del Sud.
Si rimane meravigliati e ci si chiede come sia possibile che in tanti siano potuti entrare nell'abitacolo dell'autobus.
Alcuni passanti, infatti, si fermano stupiti a guardare.
E' proprio una scena da non perdere che rende un po' più esotico il borgo marinaro.
Qualcuno commenta: "Ma hanno monopolizzato l'intero autobus!".
Dopo una discesa così laboriosa, ciascuno comincia a montare con attenzione meticolosa la propria postazione di vendita: che viene costruita con materiali leggerissimi e, all'occorenza, anche pieghevoli.
Quelli più "abbienti" di questi commercianti da strada, montano le loro bancarelle su rotelle, in modo tale da poterle spostare velocemente con tutte le mercanzie esposte in caso di controlli da parte dei vigili urbani, controlli che, meglio per loro, non vengono quasi mai effettuati.
La stranezza è che tutti, contravvenendo a un basilare principio del commercio, vendono le stesse cose, assolutamente identiche.
Ogni bancarella è la fotocopia di quella accanto e dell'altra ancora.
Questo rappresenta un adeguamento allo stile del commercio occidentale: ricordo che in Nepal al passaggio di una piccola piazza, affollatissima di colorata umanità, venivo preso da una serie di venditori, ciascuno dei quali era specializzato in un unico genere di mercanzia: c'era quello che vendeva scatolette di balsamo di tigre, quello che mostrava corposi mazzetti di incenso, un altro che esibiva dei magnifici medaglioni d'argento, incisi a sbalzo con dei mandala, di tutto e di più, ma rigorosamente un unico articolo a testa.
E' davvero un mistero come questi ambulanti facciano a sbarcare il lunario: o sono tutti dipendenti da un unico fornitore, o sono accordati tra loro;, per una sorta di calmieraggio dei prezzi oppure, viceversa, ciascuno si fida della propria possibilità di andare al ribasso sui prezzi e di averla vinta sui propri concorrenti!
Fatto sta che il lungomare di Mondello, soprattutto nelle belle giornate e nelle festività è ormai letteralmente intasato dagli ambulanti e che rimane ben poco spazio per il transito di chi semplicemente vuole passeggiare e dei runner.

venerdì 20 febbraio 2009

"Juno" diventa realtà: il caso del bambino inglese, padre a 13 anni


Avete il film "Juno"?
E' un felice apologo sulla possibilità che una ragazzina, appena adolescente, possa rimanere incinta e affrontare la "crisi" di crescita legata all'incipiente maternità.
Il delicato racconto, in modo garbato, sviscera questa problematica e mostra che è possibile affrontare l'incidente di una gravidanza non desiderata e, inizialmente, nemmeno "pensabile", come occasione per una crescita interiore e per l'assunzione di scelte consapevoli.
Juno è contro l'aborto: e decide di andare avanti per la sua strada. Per lei, il bimbo dovrà nascere, anche se - dopo vari tentennamenti ed indecisioni (ma, in ciò, è adeguatamente supportata dai propri genitori, presenti e sensibili) il bimbo, appena nato, verrà consegnato ad una coppia di genitori affidatari.
A Juno, plasmata da questa esperienza, rimarrà una seconda chance, in futuro, quando sarà cresciuta ed in grado di assumersi pienamente le responsabilità connesse ad una maternità.
E' semplicemente un problema di tempi e di occasioni.
E Juno è consapevole di ciò.
Questa storia dal film è entrata nella realtà con questo "caso" recente che ha davvero fatto scalpore, anche se molti lo hanno catalogato più come una "curiosità" che non un indicatore di una tendenza sociologica preoccupante, di una "deriva" in cui i piccoli sono sempre più abbandonati a se stessi.
Diventare padre a 13 anni. Ma dimostrarne otto.
E’ la storia di Alfie Patten, un bambino dell’Est Sussex, Gran Bretagna.
Che d’improvviso si ritrova al centro di una vicenda più grande di lui.
La neo-mamma Chantelle Steadman è poco più che una compagna di giochi: ha 15 anni. E insieme, almeno stando alle foto, compongono una coppia veramente improbabile.
E il dibattito sullo stato della società britannica naturalmente s’infiamma. (Stralcio dall'articolo di Mattia Bernardo Bagnoli in LaStampa.it)

Lasciando perdere tutte le polemiche successive attorno alla notizia (che, secondo alcune fonti, sarebbe non vera, per quanto riguarda almeno l'attribuzione di paternità), ciò che rende veramente perplessi in questa vicenda non è solo l'età dei due novelli genitori (la puerpera on avrebbe più di 15 anni), ma l'aspetto fortemente infatilizzato del neo-padre.
Non si comprende come questo evento sia potuto accadere e, soprattutto, come mai sia mancato del tutto il supporto degli adulti vicini, non dico esclusivamente dei genitori.
Sembrerebbe che, a differenza di quanto è prospettato in modo idealizzante in "Juno", qui, la gravidanza indesiderata ed inaspettata non si sia tradotta in un momento di crescita e formazione, con l'approntamento delle soluzioni più idonee, per quanto apparentemente causa di una sofferenza.
Ciò che stupisce è che i due ragazzini siano stati lasciati in preda a se stessi, in balia di una mal riposta capcità di autodeterminazione.
Quanto mai è vero, secondo me, il breve "aforisma" utilizzato da Simona Vinci per dar titolo al suo romanzo "Dei bambini non si sa niente" (Einaudi, 1997).
I bambini si muovono sempre di più e il più delle volte, in mondi separati, in luoghi fisici e mentali di cui l'occhio distratto degli adulti non riesce più ad avere alcuna visione.
Gli stessi bambini, a volte, finiscono con il diventare "invisibili" agli adulti, intenti come sono a giostrare tra TV, PC e videogiochi vari che li assorbono totalmente.
Il disinteresse degli adulti e l'immersione spinta nella dimensione virtuale fanno sì che i ragazzini crescano ignorando del tutto che le loro azioni possono avere delle conseguenze - anche gravi - nella realtà, anzi senza nemmeno riuscire a costruire dentro di sé una rappresentazione valida della realtà.
E quando accade qualcosa è ormai troppo tardi per porre rimedio: i giovani "attori", senza averlo previsto, si trovano davanti a conseguenze irreparabili che saranno causa di dolore e di sofferenza, vere ocasioni mancate che non potranno tradursi mai in un momento di crescita.
"Juno", invece insegna che sinergie positive tra adulti ed adolescenti possono innescare circuiti virtuosi di crescita e miglioramento, ma anche ad attivare un fruttuoso confornto con la realtà "vera" che quindi diventa una "severa" maestra, imponendo scelte, rinuncie e altre decisioni la cui responsabilità ultima non può essere condivisa.
Ciò può accadere soltanto a condizione che gli adulti non rinuncino mai a portare avanti un dialogo costruttivo con i figli che sono a loro affidati e che mai distolgano lo sguardo.
E, per questo motivo, "Juno" è un film che tutti, genitori e figli, dovrebbero vedere assieme e discutere.

giovedì 19 febbraio 2009

Curiosità... on the road

Sarò telegrafico.
Passo da una strada cittadina che non percorro da tanto tempo (siamo, ovviamente, nella città in cui vivo).
Mi colpisce un'insegna sul fronte di un negozio.
Dice: "BUFALO - CARNI -SCELTA DI PRIMA QUALITA'".
Ora, i casi sono due: o si tratta di un negozio specializzato nella vendita di carni di bufalo. Oppure il proprietario si chiama, giustappunto, "Bufalo" di cognome.
Nel primo caso, si rimarrebbe colpiti dalla singolarità del genere di carne messa in vendita.
Nel secondo, invece, dalla peculiarità dell'accoppiamento cognome - tipologia di attività commerciale. E questo aprirebbe una riflessione sul fatto, che nei nomi e nei cognomi che il destino ci impone, possa essere racchiuso un destino, al quale - a volte - è davvero impossibile sottrarsi: come ad esempio un tale nato "PIOMBO" che nella sua vita diventi dentista... oppure di quei fratelli "Acquario" che decisero di aprire un esercizio di bagni pubblici...
E se poi il signor Bufalo abbia deciso di esercitarsi nella nobile arte del macellaio solo per la vendita di carni di bufalo, questo sì sarebbe stato il massimo...
Molto superficialmente non sono entrato dentro a chiedere: ho preferito lasciare spazio all'incertezza tra i due corni del dilemma.
Sarà per un'altra volta...
A voi, quale eventualità sarebbe piaciuta di più?

Poco, più avanti, un secondo negozio, molto spoglio e sobrio, quasi severo. Un'insegna davvero minuscola dice:"Prodotti tipici Pilliu".
Qui, mi sono avvicinato per sbirciare attraverso i vetri...
Tra le merci esposte ho notato alcune bottiglie di "Cannonau", un ben noto vino sardo; poi dagli arredi e dagli altri articoli esposti sembrava possedere tutti i numeri per essere una salumeria, per quanto specializzata.
"Dunque", ho pensato, "si tratta di un negozio di specialità sarde... Mai visto prima! Si scoprono sempre cose nuove! Ci tornerò!".
Ma questa non era una stranezza.
Solo una faccenda intrigante: basta che cammini a piedi e, subito, passando da strade insolite, hai modo di scoprire cose nuove, cose che non conosci o a cui non hai mai fatto caso.

Terzo piccolo flash.
Ad un incrocio trafficato con semaforo, un Rom - macilento e dall'aria disperata - passa da un'auto all'altra, questando. Com'è usanza recente tra loro, esibisce un grosso cartello di cartone su cui ha vergato in rozze lettere la seguente scritta: "OH DIO HO FAME".
Solo che la scritta la tiene capovolta. Tanto non importa: il messaggio è eloquente eguale...
Oppure che egli stia immaginando di rivolgersi a persone che, rispetto a lui, stanno agli antipodi?

lunedì 16 febbraio 2009

Il sogno del mondo


Nuvole lievi e cotonose
basse
a cumuli

Risacca che si frange
con un suo intimo ritmo
e il sussurrare della brezza

Lontano,
all'orizzonte
una linea seghettata
d'aspre
montagne innevate
brilla nel sole

Grandi ombrelloni
di foglie di palma intrecciate
gettano ombre ovoidali
sulla sabbia

Gabbiani
si levano alti in volo
e poi ricadono

Piccioni becchettano

Un cane bianco dorme
gettato di fianco,
confidente
di non patire alcun affronto

Il sole mi riscalda
pelle e cuore e sangue e ossa,
come fossi una lucertola

Il suono ciclico del mare
che rompe a riva
mi parla
di viaggi in terre lontane,
di tristezza,
di abbandoni e ritorni,
e dell'eterno giro della ruota della vita
e del quotidiano morire
racchiuso nel vivere

Perdermi vorrei
in quell'orizzonte lontano

Ne sarei inebriato

Ma vincolato come sono
ad invisibili catene
posso soltanto sognare
il sogno del mondo
e le vie dei canti


sabato 14 febbraio 2009

Oggi è San Valentino, ragazzi!!!


Che sbadato!
Che sciatto!
Oggi è il giorno di San Valentino!!!

Per tutti quelli che ci credono,.

ma anche per quelli che non ci credono...
per gli innamorati disamorati
per gli innamorati che non riescono a dirlo
e per quelli che lo dicono troppo
per coloro il cui cuore palpita in petto
e per quelli che l'hanno buttato via,
chi sa dove

Per tutti,
nessuno escluso,
è giusto dire,
prima che questa giornata di passioni
e di cuori trafitti e spezzati
volga al termine:

"Buon San Valentino!!!"



Valentino
(per chi non lo ricordasse questa poesia è
di Giovanni Pascoli)

Oh! Valentino vestito di nuovo,
come le brocche dei biancospini
Solo, ai piedini provati dal rovo
porti la pelle de' tuoi piedini;
porti le scarpe che mamma ti fece,
che non mutasti mai da quel dì,
che non costarono un picciolo: in vece
costa il vestito che ti cucì.
Costa; ché mamma già tutto ci spese
quel tintinnante salvadanaio:
ora esso è vuoto; e cantò più d' un mese,
per riempirlo, tutto il pollaio.
Pensa, a Gennaio, che il fuoco del ciocco
non ti bastava, tremavi, ahimè!,
e le galline cantavano, Un cocco!
ecco ecco un cocco un cocco per te!
Poi, le galline chiocciarono, e venne
Marzo, e tu, magro contadinello
restasti a mezzo, così, con le penne,
ma nudi i piedi, come un uccello:
come l'uccello venuto dal mare,
che tra il ciliegio salta, e non sa
ch' oltre il beccare, il cantare, l'amare,
ci sia qualch'altra felicità.

E' il più bel regalo che ho ricevuto in questa ricorrenza cui, personalmente, credo poco, ma ci si può sempre ri-credere...

Questo ho scritto, dopo avere ricevuto il link sulla poesia:

Momi,
non ho mai ricevuto un unico e solo regalo per San Valentino.
Questa poesia che mi hai mandato in un momento di sconforto ed amarezza, è il più bel dono che io abbia mai ricevuto, soprattutto perchè mi riporta alla mia infanzia, al libro sussidiario delle scuole elementari, alle prime poesie cacciate a memoria; e, se non ricordo male, questa era anche la poesia che spesso mi recitava mia madre, innamorata di Pascoli.
Grazie, grazie, grazie!!!!
Io ti ricorderò sempre per tutto quello che hai fatto per me, per cercare di tirarmi fuori dal pozzo profondo dentro cui sono stato recluso per anni e dove ogni tanto mi infilo come in un grembo protettivo, come quel personaggio di Murakami in "L'uccello che girava le viiti del mondo".
Fuori piove, una pioggia fredda ed eterna.
Fa freddo.
Freddo.
Freddo.
E il freddo penetra fin dentro le ossa.
Ma sono felice di questo tuo dono che mi riscalda.
E non dire che "Valentino si è vestito di vecchio!" che mi si spezza il cuore.

Caducità


Freddo tagliente.
Gocce gelide di pioggia e si può immaginare la neve candida sui monti.
Pochi viandanti frettolosi.

Al mio fianco, il cane - compagno fedele - cammina svelto.
Non c'è panorama visibile.
Solo brume e sagome indistinte.


E' un lungo inverno, questo.

venerdì 13 febbraio 2009

Lo sguardo dell'infanzia

Immagini inquiete di un sogno che al mio risveglio non riesco a ricordare.
Eppure, più volte, nel corso della notte, mi son destato, come se stessi vivendo un'altra vita di cui serbavo solo tracce, impressioni confuse e vaghe immagini.
E, al mattino, dalla finestra hanno fatto irruzione a mandare via le brume del sonno lampi di luce bluastra, spettrale, e un cupo rullare di tamburi, quasi a sottolineare che il mondo del mio risveglio stesse precipitando verso un abisso e che i giorni allegri e luminosi di un tempo, quelli in cui si sentiva nell'aria il profumo della primavera, con un cestello di ciliegie appena colte che occhieggiava allegro dal davanzale della finestra, e i colori dell'estate conditi dall'aspro sentore di pesche montagnole, non potranno tornare più.
Forse, soltanto gli occhi e i sensi di un bambino che si affaccia alle prime soglie della vita sono capaci di cogliere questi aspetti, serbarne il ricordo e farli vivere con nostalgia anni dopo.
Forse, il mondo è stato sempre - drammaticamente - sull'orlo della fine ed è solo quello sguardo innocente che lo fa apparire pieno, rigoglioso e denso di promesse.
Fortunati quelli che mantengono quello sguardo e che nei momenti gravi della propria vita possono ritrovarlo in se stessi!

Un uomo stava camminando in un campo,
quando s'imbattè in una tigre...
Si mise a correre tallonato dall'animale...
Giunto ad un burrone, si afferrò ad un arbusto e si lascio penzolare...
Solo quel tralcio lo reggeva!
La tigre, sopra, lo fiutava, mentre un'altra - sotto - lo aspettava per divorarlo, quando fosse caduto.
Due topi, uno bianco e uno nero, cominciarono a rosicchiare la radice dell'arbusto...
Fu allora che l'uomo vide accanto a sè una fragola...
Tenendosi saldo al tralcio con una mano sola, con l'altra spiccò la fragola.
"Com'è dolce!" - disse, assaporandola.
[D'incanto, i topi smisero di rosicchiare le radici dell'arbusto, le tigri se ne andarono e l'uomo che non aveva mai smesso di credere nel gusto della bontà, si salvò e visse ancora a lungo.].
(da "Storie zen e dintorni, Casa editrice Demetra, 1989)

Questo piccolo apologo mi piace molto, anche se una vera storia zen si sarebbe conclusa con il rinvenimento della fragola oppure con la sua "degustazione" da parte dell'uomo in pericolo di vita. Il percorso sapienzale zen non prevede finali consolatori nelle sue storie: anzi chi le ascolta deve rimanere perplesso e con la mente turbata.
Solo un turbamento interiore può portare all'illluminazione e alla vera conoscenza di sé.
Qualcuno si chiederà perchè l'ho citato: non so bene.
Prima di trovarlo scritto in un libro, questa storiella è "venuta" a me, letteralmente.
Camminavo in un parco, una mattina, e su una panchina di travertino era stata trascritta, per intero, a caratteri irregolari. L'ho fotografata e l'ho letta più volte (ed era la versione senza il finale consolotario). Poi, a distanza di tempo, è "venuto" a me il libro che la conteneva e, qui, il testo era arricchitto da vignette a colori molto belle e gradevoli.
E' stato, forse, a partire dall'immagine delle ciliegie sul davanzale che ho cominciato a pensarci su e tale era la forza trainante delle ciliegie (di cui, mentre me scrivevo ,mi sembrava di sentire il profumo e la consistenza della polpa sotto i denti), che, erroneamente, ho creduto che il frutto capace di salvare la vita del viandante fosse una ciliegia, e non la fragola. Anche se, in realtà, non è tanto rilevante sapere di quale frutto si tratti, perchè, in definitiva, è il viandante a salvare se stesso, perchè sa cogliere l'opportunità che la sorte, con quel frutto, gli offre).
Forse, ho voluto inserire il piccolo apologo, perchè - a prescindere dal quel finale che nemmeno a me piace molto - esso dà un senso forte a certe immagini dell'infanzia, radiose e piene di bellezza, immagini che, con i correlati ricordi, rappresentano un tesoro di risorse interiori che aiutano ad affrontare i pericoli della vita e a sfuggir loro, oppure a lottare con energia (e con speranza).
Citando, per una volta il maghetto Harry Potter, ricorderei che l'unico modo dei maghi "buoni" per evocare l'incantesimo "Patronus" (quello che può proteggere dai "Dissennatori") è avere la mente sgombra da pensieri tristi, da risentimento e odio, appigliandosi invece ai ricordi più belli e più gioiosi, custoditi nel profondo di sé.


martedì 10 febbraio 2009

Il dolore per la morte di Eluana e la cinica strumentalizzazione dei politici

Eluana Englaro non è più con noi.
Purtroppo, laddove sarebbe stato necessario - e doveroso- un compunto silenzio s'è scatenata una bagarre davvero indegna, sia nella sede del parlamento sia nel dibattito pubblico tra gli stessi personaggi politici che per l'occasione hanno indossato le loro "maschere" di ruolo, manifestando ipocritamente dei sentimenti che non scaturivano dal loro intimo.
Intanto, i rappresentanti più eccelsi del giornalismo televisivo hanno potuto fare i loro bei scoop.
In particolare il nostro Vespa che ha saputo accogliere con vigore e prontezza (sicuramente era già pronto, in agguato) una delle più grandi occasioni del primo decennio del XXI (sia per l'importanza dei risvolti etici, sia per il particolare vigore e accanimento del dibattito politici, con annesso scontro istituzionale), con una serie ben orchestrata di invitati e testimonial, con il risultato di fare apparire papà Englaro uno che non si è voluto assumere le sue responsabilità e che ha anche mentito per perseguire il suo progetto di "levarsi un incomodo".
Indegno!!! Indegno!!!
Emilio Fede ha imperversato dal piccolo schermo con una stralunata faccia da funerale, anche lui portando avanti basse insinuazioni, per amore fedele alla linea di Berlusconi.
In contemporanea, Mediaset, nell'interesse dell'audience - malgrado il dichiarato, "vivo", dolore di Berlusconi, ha optato per mandare in onda egualmente "Il grande fratello" (perseguendo, a beneficio del popolo, l'efficacia della formula "Panem e circenses"). Mentana che s'è visto sfuggire dalle mani il suo Special su Eluana, di fronte a questo scacco, ha rassegnato prontamente le dimissioni, lamentandosi del suo personale "Grande Fratello" che lo controlla (e almeno lui è stato coerente, diamogliene atto!).
Nella strada davanti alla clinica "La Quiete" di Udine si sono fronteggiate fazioni avverse, sfiorando momenti di tensione in cui sono volati insulti.
Su una cosa si può essere d'accordo, tuttavia: la morte di Eluana ha creato un precedente normativo importante.
Se andrà avanti il progetto legislativo che regolamenterà iltestamento biologico, rimarrà tuttavia in sospeso la questione dei circa 2500 che in Italia sono in coma vegetativo.
Cosa ne sarà di loro?
Costoro, in mancanza di un testamento biologico valido, dovranno continuare a patire in un fondo di letto in una condizione che non è più vita? Oppure, grazie al calvario di Eluana e al coraggio del papà, che sino in fondo ha voluto percorrere questa strada i loro familiari potranno ancora appellarsi a questa sentenza prima che qualche ipocrita politicante impietosamente non vada a chiudere questa porta?
Sagge e forti ed ispirate al buon senso sono state invece le parole del Dalai Lama, che ieri ha ricevuto la cittadinanza onoraria di Roma: semplici parole sapienziali perchè con lui, in quanto incarnazione del Buddha, è il Buddha stesso a parlare, senza mediazioni.
Di fronte alla morte e al dolore, bisognerebbe spegnere ogni intolleranza e ogni strumentalizzazione, piegata ad altri fini.
I nostri politici, nello spettacolo squallido che hanno dato di sé, in Parlamento e poi nelle successive interviste, hanno dato una pessima prova di sé, dimostrando di non possedere nemmeno un briciolo di quella pietas che ci si attenderebbe di fronte alla sofferenza protratta e ad un infinito morire.

lunedì 9 febbraio 2009

Fare la coda è bello!!!


Oggi sono stato al SERIT della mia città (Palermo) per chiedere chiarimenti su un pagamento che mi veniva richiesto ed evitare ulteriori complicazioni burocratiche.
Orario d'ingresso: alle 8.30 circa.
Davanti a me, già una coda di 78 persone (orario di apertura al pubblico 8.20),
Io dunque il 79°.
Dei magnifici 78 davanti a me, 16 erano stati già chiamati.
Vi chiederete come è possibile che dopo pochi minuti di apertura al pubblico così tanti fossero stati chiamati, mentre poi la fila procedeva a rilento con lunghi minuti di intervallo tra uno e l'altro.
Forse che dipenda da un maggire entusiasmo ed alacrità all'inizio del turno di lavoro, quando i corpi sono freschi e le menti vigili?
Affatto! Come è stato segnalato di recente in un altro blog "palermitano", ciò dipende dal fatto che ci sono gli accaparratori di ticket dalle "macchine anti-coda" e che poi rilasciano il ticket come servizio accessorio (dietro compenso, ovviamente) a chi ne faccia richiesta. Il posteggiatore che bazzica nei pressi di un uffcio postale, per esempio, oltre a custodire la macchina parcheggiata in seconda fila, può erogare su richiesta un numerino "conveniente"...
Ma non sono queste le cose che mi disturbano...
L'attesa può essere un buon momento, in verità. E per tanti motivi.
Anche stavolta ero andato fornito di tutti i confort necessari per trascorrere quietamente il tempo della prevedibile attesa: libri, riviste, agenda e occorente per prendere degli appunti. Mi mancavano soltanto notebook, macchina fotografica e generi di conforto.
Insomma, in queste circostanze lo zainetto (o capiente borsa o borsone) deve avere l'attrezzatura-base analoga a quella che ci portiamo in viaggio.
L'attesa è stata lunga, ma fra i "passatempi" dei quali mi ero munito e l'osservazione dei tipi umani che si accalcavano nel grande camerone all'ingresso non mi sono certo annoiato.
Si dice "Perchè l'attesa non pesi, occorre saper ingannare il tempo": e se tu fai così, se non sei impaziente, se non sei sbuffante, il tempo- in effetti - trascorrerà un attimo.
Ogni tanto uscivo all'aperto a prendere una boccata d'aria pura..., mentre altri uscivano per aspirare quanttro boccate di fumo fresco
Poi rientravo, con un occhio allo scorrere dei numeri sul display.
D'altronde, a scanso di distrazioni, ogni cambio di numero era accompagnato da un vigoroso muggito meccanico: l'unica cosa da cui era difficile astrarsi, vista l'assoluta mancanza di ritmo nel suo sopraggiungere. A volte, tra un suono e l'altro trascorrevano diversi minuti; talaltra, invece, i muggiti arrivano a raffica, facendoti ogni volta sobbalzare.
Poi, i processi attentivi sono andati in automatico anche su questa cosa e, da allora in avanti, tutto è andato magnificamente...
Rovesciando un punto di vista comune, si potrebbe quasi dire: "attendere è bello", se soltanto hai la pazienza (o la saggezza) di accettare che qualcun altro (o le impersonali esigenze di un apparato burocratico-amministrativo dal quale non sempre riesci a tenerti distante) ti rubi il tuo tempo.
C'era gente che, come me, leggeva un giornale o una rivista, altri che chiaccheravano, altri ancora (si) raccontavano con dovizia di particolari i casi della propria vita, incuranti se l'interlocutore prescelto fosse veramente attento alle loro parole.
Sotto questo profilo, attendere all'ufficio postale o all'esattaria comunale attiva situazioni analoghe a quelle di persone che si travano a viaggiare per ore e ore nello stesso scompartimento di un treno.
Anzi, forse, le code negli uffici pubblici hanno un'importante funzione di socializzazione e d attivazione di forme di sana solidarietà tra cittadini vilipesi.
Forse, è proprio per questo che ce le fanno fare...
Altri ancora, al limite tra la zona di stazionamento del pubblico e l'area di smistamento ai diversi uffici, s'affollavano attorno alla guardia giurata, un omone massiccio reso ancora più imponente dal vistoso giubbotto antiproiettile che avviluppava il suo torace massiccio, messo lì a regolamentare il traffico e a sedare eventuali tumulti: una sorta di "guardiano" kafkiano. Il parlare con lui era un modo da parte dei più apprensivi per rabbonirselo e carpire i segreti di quello che, nell'immaginario, può pur sempre considerarsi uno dei tanti "palazzi della legge" incombenti sulle nostre vite.
Quando l'ultima manciata di minuti galoppava furiosamente verso il fatidico orario di chiusura al pubblico (le 13.00) ecco scattare il mio numero.
Alacremente sono entrato nelle "segrete" stanze.
Ho fatto ciò che dovevo in pochi minuti e quindi "sono riuscito a riveder le stelle", anche se era ancora pieno giorno.
Vabbè la pazienza e la saggezza... ma di queste cose così le vediamo soltanto in Sicilia.
Nei miei viaggi, ho spesso portato con me i bollettini di ccp per pagare dei sospesi: ho avuto modo di conoscere gli uffici postali di città italiane grandi e piccole e, senza alcuna enfasi, devo dire che mai, mai, mi è capitato di attendere al di là del ragionevole.
Chi sa poi perchè?!
Un mio caro amico, dopo aver letto questi miei appunti, così ha commentato:
Grazie Maurizio, ci hai fatto sentire tutti un pò speciali. Credo che tu abbia chiamato in causa anche l'evoluzionismo che ha plasmato una razza siciliana capace di disumana attesa. Se rinchiudessimo tutti i padani in un'esattoria siciliana, ebbene, la razza padana sarebbe a rischio di estinzione. Che Dio non voglia!".


sabato 7 febbraio 2009

Il ricordo tenue di un'estate morente


In questa foto c'è il ricordo di un bel pomeriggio autunnale, uno degli ultimi trascorsi al mare prima dell'arrivo del freddo, con una traccia di incertezze e nostalgie, e forse anche d'un filo di malinconia.
Ricordo che la sabbia sotto i piedi era fredda, liscia e morbida come velluto.

Mi viene in mente anche che il sole, sino ad un momento prima vigoroso, in un batter d'occhio s'era nascosto rapidamente dietro le palme, formando subito delle ombre lunghe dentro le quali abbiamo subito sentito piccoli brividi muoversi sotto la pelle...
E' stato quello il momento in cui abbiamo raccolto le nostre cose e ci siamo avviati...

venerdì 6 febbraio 2009

Caso Englaro: il governo, con piglio anti-umanitario, vara d'urgenza un decreto-legge per sospendere l'esecuzione della sentenza della Cassazione


Quando le coscienze di molti si erano tranquillizzate perchè finalmente i nodi si erano sciolti e, malgrado le manifestazioni contrarie, era stato dato l'avallo per l'interruzione delle cure forzate a Eluana Englaro in coma da 17 anni, giunge con un colpo di scena il decreto governativo approvato proprio poche ore fa.
Nel decreto "Englaro" un solo articolo, che così recita: "In attesa dell'approvazione di una completa e organica disciplina legislativa in materia di fine vita, l'alimentazione e l'idratazione, in quanto forme di sostegno vitale e fisiologicamente finalizzate ad alleviare le sofferenze, non possono in alcun caso essere sospese da chi assiste soggetti non in grado di provvedere a se stessi".
Il decreto, decisamente in rottura rispetto alle indicazioni fornite dal Presidente della Repubblica, non potrà essere operativo prima della firma da parte di Napolitano e della pubblicazione sulla GUR.
Quindi, a stretto rigore, le procedure di interruzione dell'alimentazione forzata, avviate presso la casa di cura "La Quiete" di Udine, non dovrebbero essere sospese.
Il varo di tale decreto rappresenta, tuttavia, un colpo di scena, voluto con piglio quasi "dittatoriale", rispetto sia alla sentenza della Corte di Cassazione, sia a quanto dichiarato appena poche ore prima dal Capo dello Stato. E' un sintomo indicativo di quanto vilmente il governo intenda manifestare una strategia di sottomissione clericale alla linea rigida di Papa Ratzinger su queste tematiche (per timore di perdere il supporto dell'elettorato cattolico), e di quanto intenda tendere ancor più la corda nel confronto duro con altre fondamentali istituzioni dello Stato.
Vi è, in una decisione presa tanto precipitosamente, un cipiglio decisamente autoritario e la mancanza assoluta - in nome di un principio declinato in maniera ottusa - di un briciolo soltanto di sensibilità umanitaria.
Qui, nel caso di Eluana, non si discute se sospendere delle cure erogate con accanimento "terapeutico" ad un individuo in coma da pochi mesi o da un anno soltanto, ma da ben 17 anni, in una situazione che non dà assolutamente adito alla speranza d'un cambiamento.
Le attese per Eluana si sono protratte al di l° di ogni ragionevole speranza: è arrivato il momento in cui si deve pur decidere se "liberare" qualcuno da uno stato intermedio di non vita e di non morte.
Le decisioni sono state prese; una sentenza della Cassazione è stata emessa.
Cosa occorre di più?
C'è da chiedersi: dov'è Eluana Englaro, adesso? Se si crede all'esistenza di un'anima, probabilmente non è più in quel corpo da tempo. Oppure se, come tendono a credere altri, a causa della permanenza del suo corpo in una vita soltanto vegetativa, quest'anima è costretta a rimanere in quei paraggi, pur già scorporata, è impossibilitata ad "andarsene" del tutto, proprio perchè quel suo corpo è mantenuto in vita artificialmente, alimentato e sostenuto nelle sue funzioni vitali.
Se, invece, si pensa secondo un'ottica laica e si postula che l'individuo si manifesta soltanto a condizione che il suo cervello sia attivo, esprimendo anche in lievi tracce una qualsivoglia attività elettrica, allora Eluana non è più lì da tempo.
Viceversa, il suo corpo è stato mantenuto in vita così a lungo, andando - a ben guardare - contro la natura: quale individuo (o essere vivente, più in generale) potrebbe sopravvivere senza alcuna attività cerebrale, in condizioni "naturali", cioè senza le macchine, l'alimentazione artificiale ed il supporto alle diverse funzioni vitali?
In altri tempi, la natura avrebbe fatto il suo corso e nessun medico avrebbe potuto contrastare una naturale evoluzione delle cose: a costoro sarebbe stato richiesto soltanto di essere presenti, soccorrevoli per confortare ed allievare le sofferenze del morente.
Il meno è il meglio, recita una delle massime ippocratiche che dovrebbe essere tuttora alla base della pratica medica.
Dando simili prove di sé, la Medicina contemporanea dimostra di essere crudele e senza cuore e di aver perso alcuni suoi principi etici e filosofici di base.
In più, è preoccupante oltremodo la tendenza dei politici di controllare sempre più con leggi e decreti l'operato medico che dovrebbe essere regolato principalmente da norme deontologiche, soprattutto per quanto concerne tutte quelle delicate decisioni da prendere "secondo scienza e coscienza".

mercoledì 4 febbraio 2009

Che fare?

Sosta ad un distributore di benzina.
Sono le 19.00 circa, di un pomeriggio infrasettimanale.
S'avvicina l'addetto che comincia il rifornimento.
Mentre la benzina viene erogata, io scendo dall'auto e si chiacchiera del più e del meno.
Ad un certo punto, il tizio mi fa: "Un'ora e mezza all'alba!"
Intende dire: "Fra un'ora e mezzo smonto dal servizio!".
Io: "A che ora ha preso servizio oggi?", aspettandomi di sentirmi rispondere "Alle 14.00", o giù di lì.
Invece, il tipo mi fa: "Sono qui dalle otto del mattino...".
Io: "Come!? Quasi dodici ore di seguito! Ma allora, poi Lei avrà domani un turno di riposo, forse..."
"No, affatto! Sono qui ogni giorno dalle otto del mattino sino ad oltre 20.00".
Io: "Senza pause?"
"No, ci spetta un'ora d'intervallo per riposare... attorno alle 14.00".
Io: "Ma ce l'ha il tempo per tornare a casa?"
"No, ovvio che no!"
Io: "E allora?".
"Mangio qua. C'è un accordo con il proprietario (che è anche il datore di lavoro) per un pasto da consumare qui, in una stanza che da sul retro...".
[La stazione di servizio possiede un bar che funge da bar/tavola calda]
Io: "Ma con tutte queste ore di lavoro, ce ne scapperà qualcheduna di straordinario?"
"No, di straordinario non se ne deve proprio parlare... Meglio che me ne sto zitto!"- chiudendo la frase con un certo piglio.
"Ma come mai? Cosa dice il suo contratto al riguardo?"
"Contratto! Contratto! Non c'è un contratto... Meglio che me sto zitto. Sa, il mio mestiere è quello di muratore, ma oggi di lavoro nel mio campo non ce n'è proprio e allora devo accontentarmi. Ho una figlia piccola e a casa devo portare da mangiare ogni santo giorno...".
A questo punto, il serbatoio era bello pieno e la conversazione era arrivata ad un un punto conclusivo e definitivo.
Proprio non c'era più nulla da dire o da commentare.
Cosa dire? Cosa proporre?
Me ne sono andato con il cuore stretto, ammirato del coraggio di questo signore che, accettando condizioni lavorative pesanti e forse un po' inique, cerca di sbarcare il lunario ogni giorno della sua vita e, nello stesso profondamente rattristato.

Questa conversazione, riportata così come è avvenuta, non merita alcun commento: parla da sé.

lunedì 2 febbraio 2009

Angelo, fantasma, ombra, anima: una riflessione sulla peri-morte


E’ proprio vero che le soglie del testo rivelano molto delle preferenze e delle attitudini di chi scrive e che, contemporaneamente, influenzano profondamente il lettore nei confronti del libro che si accinge a leggere.
"Lasciami andare" di Marcello Alessandra (Dario Flaccovio, 2008) è un racconto breve, un po' filosofico, un po' nel genere dell'apologo morale, molto ricco per diversi aspetti, non solo per il suo contenuto ma anche per le numerose “soglie” che lo precedono e che bisogna superare una volta che si è giunti alla parola "fine": una fine che, per altro, non è che un inizio.
È difficile collocare esattamente questa seconda opera di Marcello Alessandra, psichiatra palermitano che è anche impegnato nel volontariato (essendo socio fondatore dell’Associazione Onlus “Stupenda-mente”).
Possiede indubbiamente le qualità del sogno e, come si è detto, del romanzo filosofico, ma contiene anche una dichiarazione di fede nella vita ultra-terrena e nello stesso tempo, è esplicitamente un forte tributo di indelebile affetto nei confronti d'un amico prematuramente scomparso.
Le soglie del testo, dicevo.
Anche la copertina del volume che raffigura il dettaglio di un’ala piumata bianca su sfondo celeste porta l'immaginazione del lettore all’interno del testo, prima ancora che – di esso – abbia varcato altre porte. Sembra alludere al fatto che il libro tratterà di “angeli”, impressione rafforzata dalla frase che fa da “occhiello” al titolo “Un uomo muore e scopre un’altra vita. La fine sarà un nuovo inizio”.
Questa molto in sintesi, la storia che Marcello Alessandra ci racconta.
Un uomo muore in una città lontana da casa, a seguito di un’imprevista
complicazione nel corso di un lungo intervento chirurgico che avrebbe dovuto essere risolutore di una malattia cronica. La sua anima scorporata rimarrà accanto alle proprie spoglie mortali e vicino ai suoi cari, ma anche in un percorso quasi iniziatico di presa di contatto con le sofferenza di altri pazienti e di altri che sono morti e che ancora si attardano nel luogo che è stato teatro della loro morte. Egli trasformato in anima fluttuante scopre che può aiutare gli altri che da poco si sono staccati dal proprio corpo e far loro da guida. Anche l’incontro con un amico, anche lui da poco morto a causa di un incidente sarà determinante in questo viaggio sino alla completa pacificazione e al momento del congedo definitivo dai propri familiari per avviarsi in un cammino al cui termine lo attende una luce abbagliante.

La lettura fideistica porterebbe a leggere tutta questa vicenda come un modo per esprimere una rappresentazione forte dell’esistenza d'una vita dopo la morte e ciò potrebbe essere un limite epistemologico di approccio al testo, nel senso che chi non “crede” potrebbe rifiutarsi di proseguire oltre nella sua lettura, una volta accertato l’intendimento dell’autore, non riuscendo a posizionarsi in modo “laico” rispetto a iò che viene narrato.
Ma il piccolo romanzo è ben di più: infatti, a ben vedere e traasciando troppo facili pregiudizi, non si limita a voler catechizzare sulla vita dopo la morte e sull’ontologia dell’angelo, come anima soccorrevole che, con la sua presenza silenziosa, conforta i vivi che pure non possono vederlo né sentirlo.
Una convinzione popolare fortemente radicata (e che è all’origine di un intero filone della parapsicologia e del genere letterario delle storie di fantasmi), sostiene che la parte immateriale dell’individuo stenta ad abbandonare il proprio corpo e il luogo dove è avvenuto il trapasso, specie quando esso si sia verificato in modo violento ed improvviso, oppure traumaticamente o per un imprevisto incidente.
Quella parte immateriale dell’individuo che altri identificano con un surplus d'energia che si è liberata dai vincoli materiali del corpo rimarrebbe come "aura" oppure diventerebbe “ombra” o “fantasma” in attesa d'una possibile, auspicabile, pacificazione per poi dileguarsi, con la persistenza d'un'iniziale inconsapevolezza che richiede chiarimenti circa l’origine di questa nuova condizione.
E, a volte, l'anima spaesata ha bisogno di una guida, un'altra anima già pienamente consapevole che le faccia, in certo qual modo, da "psicopompo".
E' riflessa peraltro nell'impianto narrativo il tema delle esperienze di quasi-morte, di quelle esperienze cioè raccontate da persone che sono state in coma e ne sono riemerse, o che - rimaste prive di coscienza dopo un grave incidente - al risveglio hanno raccontato di essersi sentiti "scorporati", di avere osservato la scena dall'esterno, vedendo il proprio corpo giacere nel letto d'ospedale, e di essersi incamminarsi in un tunnel al cui termine brillava una luce accecante.
Si veda, ad esempio, il saggio di Vladimir Jankélevitch, Pensare la morte? (Raffaello Cortina Editore, 1992) in cui "invece di proporre una nuova teoria 'sulla morte', l'autore invita piuttosto a guardare alla vita dal difficile margine che separa l'esistenza dal nulla. Ne deriva un punto di vista sul mondo e sulle cose che, alleggerito da qualsiasi dogmatismo, affronta ogni questione con il sorridente beneficio dell'ironia".
Il nostro immaginario, a questo riguardo, è stato colpito da tanti film, sicuramente.
Uno dei più celebri (e dei più riusciti per la sua capacità di creare coinvolgimento emozionale negli spettatori) è stato “Ghost” che prescindeva da un’interpretazione obbligata, dando semplicemente per scontata l’ipotesi della persistenza di un’anima al di fuori del corpo dopo la morte, come “fantasma” o “ombra” che pur potendo vedere, sentire, non ha la facoltà di interagire e per cui, proprio dalla percezione dolorosa di questo divario, scaturisce la possibilità di "iniziarsi" a questa nuova condizione.
In definitiva, si potrebbe dire che la definizione di “anima” o “fantasma” o “ombra” o "angelo" scaturisce dal vertice epistemico che si utilizza.
In più nel breve libro di Alessandra vi è, nell’uso d'una prosa immaginifica e trasognata, un tributo molto forte alla narrativa di Coehlo (che peraltro è rivelata da alcune citazioni di stampo coehliano, all’inizio e alla fine del romanzo).
Infine, è apprezzabile e commovente il tributo dolente di forte amicizia all’amico scomparso da poco (cui è dedicato il libro: “A Marzio, un marito, un papà, un amico che ha lasciato in tutti quelli che lo hanno conosciuto l’insegnamento più grande: l’amore e il rispetto per gli altri”).
Alla fine, l’autore ci rivelerà l’artificio narrativo che ha utilizzato.
Tutta la vicenda è stata un sogno evenescente (eppure visionario e, forse, anicipatorio di una vita "altra" che verrà) che tuttavia, attraverso la finzione di essere da poco morto, ha consentito all'autore di poter parlare con immediatezza e realismo dell’incontro con l'anima di Marzio, tributandogli così tutto il suo affetto.

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