mercoledì 28 gennaio 2009

Qualche volta facciamo come gli struzzi


Litigi e contrasti tra persone nel consesso umano e all'interno della famiglia o nell'intimità di un rapporto di coppia sono espressione di un "conflitto" tra modi diversi d'intendere le cose, tra differenti strutture di personalità, tra caratteri simmetrici o, in alcuni casi, complementari.
Non è detto che il conflitto debba essere evitato, anzi, è vero esattamente il contrario, come è anche vero che il conflitto può essere una forza che modula e fa crescere in meglio le relazioni umane.
Senza un livello fisiologico di conflitto in seno ai gruppi umani ci sarebbero indubbiamente stasi e morte di ogni vitalità.
Il conflitto, se affrontato in modo costruttivo e propositivo, cavalcando la tigre dell'aggressività reciproca, può diventare uno strumento di adattamento, mediazione, aggiustamento.
Solo se la conflittualità viene evitata, "tabuizzata", essa degenera in forme insanabili di aggressività reciproca.
Bisogna poter riconoscere tempestivamente le "crisi", affrontarle e cercando di tradurre il "non detto" in parole, trasformando una serie di elementi confusi e indigeribili (in altri termini, non metabolizzabili emotivamente) in strutture di pensiero, cognitive ed emozionali, più elaborate, costruendo di volta in volta delle soluzioni adattive che portino le diverse parti in gioco alla cessazione delle ostilità e alla strutturazione della relazione su nuove basi, ben più vigorose.
Tutto ciò (mettersi in gioco) implica tuttavia un forte dispendio energetico sotto il profilo emozionale, ma c'è anche da dire che, a volte, l'espressione (verbale) di malessere di una delle parti in gioco può essere intesa dall'altro come un'ingiustificata apertura delle ostilità, attivando una risposta simmetrica. C'è sempre la possibilità che si apra la porta ad un fraintendimento, ma - tra il parlare ed il tacere - la strada da scegliere è sempre quella della comunicazione, per quanto irta di ostacoli essa possa rivelarsi in seguito, ma sempre meglio della via del silenzio e dell'acquiescenza o della politica dello struzzo ("mettere la testa sotto la sabbia" per non vedere).
Senza dimenticare che il silenzio, a volte, può essere peggio di ogni parola detta con veemenza, perchè dietro tutto quel "non parlato" c'è un carico mostruoso di aggressività, pesante quanto un masso di parecchie tonnellate.
Il silenzio, nei conflitti irrisolti, può essere il modo provocatorio di dichiarare la propria non disponibilità a lavorare in funzione dell'appianamento delle difficoltà e la propria sfida simmetrica all'espressione di disagio da parte dell'altro, o infine il proprio bisogno di fuga.
Cerchiamo di capirci, sempre, e di affrontare i conflitti come momentanee crisi che, se affrontate al meglio, mettendosi autenticamente in gioco, possono rappresentare un forte impulso al miglioramento e al rafforzamento relazionale.

venerdì 23 gennaio 2009

Pioggia e marosi

Pioggia battente
raffiche impetuose
gocce d'acqua che imperlano i vetri

Poi, rimane il mare gonfio
di marosi ribollenti
di spuma bianca,
e l'urlo della risacca
lacera le orecchie

Sulla spiagggia
emergono frammenti
di altre vite
detriti senza nome,
plastica sminuzzata,
pezzi di legno,
corde e rottami di vecchie recinzioni,
una scarpa estiva
con suola a zatterone
giace semisepolta
dalla sabbia,
una testa mozza di bambola,
senza occhi,
i capelli scarmigliati
occhieggia,
inquietante Medusa
che pietrifica con lo sguardo

Non una sola persona in cammino
Il mondo è disabitato
da presenze umane

Quando il cielo s'apre
il profilo acqueo dell'orizzonte
dentellato e rotto
rivela la furia del vento,
al largo,
e si scorgono tratti di costa
lontani
illuminati da raggi di sole

Gabbiani planano
in voli intrecciati
scivolano d'ala
e riprendono quota
in un gioco infinito
condannati
alle catene del cielo

giovedì 22 gennaio 2009

"Viaggio al centro della terra" rivisitato come videogioco

"Nel cratere Yökull dello Snæffels che l'ombra dello Scartaris tocca alle calende di luglio, scendi, coraggioso viaggiatore, e raggiungerai il centro della terra. Ciò che feci. Arne Saknussem".Questo il crittogramma decifrato che apre la strada al viaggio d'esplorazione sino al cuore della terra, da parte dell'intrepido professore Otto Lidenbrock e del nipote Axel, protagonisti del romanzo verniano "Viaggio al centro della terra".
Jules Verne con i suoi romanzi di scoperta ed esplorazione e i molti altri che hanno anticipato importanti scoperte scientifiche (perfino la NASA, a detta di alcuni, ha un debito nei suoi confronti) ha fatto sognare generazioni di adolescenti, istruendoli in modo intelliggente, nello stesso tempo. In tutti i suoi romanzi, sempre cercando di mantenere fede ala credibilità scientifica, egli esplorava di volta in volta i limiti della conoscenza umana, senza mai dimenticare l'aspetto avventuro condito di elementi romanzeschi e romantici (anche se, a differenza della scrittura di Salgari, in Verne predominava sempre l'aspetto didascalico). Molti adolescenti hanno avuto in questi romanzi un'importante complemento dei programmi scolastici per conoscere il mondo e, in un certo senso, per formare dentro di sé una giusta dose di curiosità epistemologica.
"Viaggio al centro della terra" è stato sempre per me uno dei suoi romanzi più affascinanti, anche se - in definitiva - quello meno veritiero, dal momento che già ai tempi di Verne era disponibile la conoscenza che la temperatura della massa terrestre s'incrementa progressivamente man mano che si procede verso il centro di essa. L'idea di fondo, mutuata da alcune teorie "para-scientifiche" del tempo che, tuttavia, malgrado la loro eccentricità, ebbero largo seguito di pubblico, è che la terra possa avere al suo interno grandi cavità, collegate da cunicoli e camminamenti e che possa ospitare, al suo interno, dei veri e propri ecosistemi nei quali, in alcuni casi, persistono forme di vita primitive mai distrutte dalle quelle grandi catastrofi naturali che hanno rappresentato dei "salti" nell'evoluzione della vita nell'ambiente terrestre. Una delle più celebri di tali teorie fu quella di John Cleves Symmes, come è illustrato nel bel saggio di Martin Gardner, "Nel nome della scienza", illustrante alcune delle principali teorie scientifiche "eccentriche" che pur nondimeno hanno lasciato una traccia nell'immaginario collettivo).
In "Viaggio al centro dela terra" c'erano proprio tutti gli elementi del romanzo d'avventura: il crittogramma svelato, la storia di un precedente viaggio compiuto da un certo Arne Saknussen il viaggio avventuroso verso l'Islanda sino alle pendici del vulcano Snaeffels che sovrasta l'imponente ghiacciaio dello Snaeffelsjokull, poi l'esplorazione del misterioso cunicolo, dove gli esploratori - a conferma dele loro illazioni - ritrovano su una roccia un'incisione lasciata dallo stesso Saknussen, la scoperta di cose meravigliose, l'oceano sotterraneo, la persistenza di forme di vita estinte da milioni di anni sulla terra, il gregge di dinosauri tenuto al pascolo da un un uomo gigantesco, tanto per citare alcuni dettagli. Fascino che era acresciuto dalle illustrazioni mutuate dalla prestigiosa edizione Hetzel che lo corredavano, spesso realizzate come incisioni in bianco-nero, ma con tratti accuratissimi.
Di tutti questi elementi, prima ancora di ciò che io lessi direttamente ricordo le descrizioni e i racconti appassionati che me ne faceva mio padre. E la mia fantasia di ragazzino s'infiammava e fantasticava questi stessi scenari.
Nel 1959, quasi allo scoccare del centenario della prima edizione a stampa del fortunato romanzo, venne fuori un film (per la regia di Henry Levin) che, pur con tutti i limiti del linguaggio cinematografico di quel tempo, riusciva in parte a ricreare l'atmosfera fantastica, eppure realistica, del romanzo verniano. Chi dovesse andare a vedere questo remake rimarebbe deluso per molti aspetti.
Per semplificare sul budget, la storia - con uno stratagemma - è ambientata in epoca moderna. In secondo luogo, tutta la parte preliminare della decifrazione del crittogramma e del viaggio avventuroso di avvicinamento all'Islanda che segue sino alla porta d'ingresso al mondo sotterraneo è di molto semplificata, se non attraverso il riferimneto ad un'ipotetica società di "verniani", una sorta di congrega di studiosi e scienziati che credono alla verità d'una serie di cose prospettate da Verne nei suoi romanzi, anche di quelli più fantastici.
Tutto serve da preambolo per introdurre lo spettatore ad una serie di "topoi", di pezzi "forti" realizzati con una profusioni di effetti speciali digitali, in cui vengono - in sostanza - presentate sequenze da videogioco (con l'implicita regola che è necessario superare una prova per accedere al livello successivo) come, ad esempio, la discesa mozzafiato nei carrelli da miniera (una citazione da "Indiana Jones e il tempio maledetto"), la caduta "infinita" nel camino vulcanico, il passaggio attraverso grandi lastre di pietra tenute sospese sull'abisso da un campo magnetico, l'attacco dei pesci volanti armti di denti aguzzi e mandibole voraci, il confronto con le orrende piante carnivore, l'inseguimento da parte del Tirannosaurus Rex.
Tutto il resto del film (trama e personaggi) è semplicemente l'apparato (piuttosto esile) che consente di mettere in scena, con un minimo di credibilità, le diverse "prove" che i personaggi devono superare.
Così come la trama è tenue ed inconsistente, così i personaggi sono appena abbozzati.
Con l'unica differenza che qui viene a mancare proprio quell'aspetto che renderebbe intrigante un videogioco, cioè la possibilità di sperimentazione dell'azione in soggettiva, nonché il brivido derivante dal fatto che, almeno "virtualmente" è il giocatore potrebbe anche "morire". Diciamo pure che questo film è una semplificazione di come stia diventando la rappresentazione del mondo attraverso la cultura dei videogiochi e, in questo senso, s'allinea a tanti altri film - ormai di "genere" - con una forte impronta omologante, ma con la perdita secca della specificità e dell'originalità della trama originaria.
L'unico aspetto per cui questo film dovrebbe essere visto è la sua realizzazione in 3D (che necessita d'una sala cinematografica attrezzata con due proiettori sincronizzati che, proiettando ciascuno 2/3 del fotogramma, realizzano una visione somigliante a quella naturalmente stereoscopica fornitaci dalla nostra modalità di visione che è "binoculare".
Peccato che le sale cinematografiche attrezzate per questo siano in Italia soltanto una trentina: la maggior parte degli spettatori dovranno accontentarsi d'una "normale" visione, visto che il film è stato messo in distribuzione nella doppia versione.
Quindi, salvo a vivere in una delle città italiane dotate di sala cinematografica 3D, le aspettive di molti spettatori rimarrano deluse.
Questo, il sintetico occhiello che correda la scheda del film in www.mymovies.it: "Un giocattolone da parco dei divertimenti, da vedere in 3D. L’incredibile avventura di tre esploratori alla scoperta di un insolito regno sotto la superficie terrestre, in cui incontreranno dei luoghi meravigliosi, ma si ritroveranno ad affrontare dei gravi pericoli".

martedì 20 gennaio 2009

In "Davanti agli occhi", il desiderio di riplasmare la propria vita e superare intollerabili sensi di colpa

"Ritorno ad un'altra vita, oltre la propria vita. Confondendo memoria e desiderio, Vadim Perelman azzera, riavvolge e riavvia la cronaca di un martirio. La vita di Diana McFee è tormentata da un mistero, un terribile evento avvenuto circa quindici anni prima: una strage avvenuta all'interno del suo liceo nella quale la sua migliore amica Maureen rimase uccisa" (www.mymovies.it). Nel flm di Perelman (il regista ucraino autore di "La casa di sabbia e nebbia"), viene raccontato il desiderio di riplasmare la propria vita, cambiando le proprie scelte.
Ci sono nella vita di ciascuno degli eventi cruciali, a volte, tali da segnare profondamente il decorso di tutto ciò che segue. Ci si può ritrovare, talvolta, a rimpiangere amaramente di non aver compiuto una certa scelta, di non avere agito seguendo un altruismo disinteressato laddove le circostanze hanno spinto a seguire ottusamente il proprio istinto di sopravvivenza.
In alcuni casi, essere i "sopravvissuti" d'una tragedia che ha colpito altri in modo irreparabile è un peso troppo difficile da sopportare ed è cosa che attiva dei sensi di colpa insopportabili, anche quando non ve ne sarebbe una ragione oggettiva.
"Davanti agli occhi" tratta proprio questa tematica.
Il regista sviluppa questo interrogativo: "Come sarebbe vivere per tutta la vita avendo costantemente 'davanti ai propri occhi' quel momento fatale, consapevoli che proprio lì, a quel punto, la propria esistenza ha imboccato un bivio dopo il quale non sarà più dato ritornare indietro per poter riplasmare le proprie vicissitudini e salvarsi da derive intollerabili di amarezze e di colpa?"
Il bel film di Perelman, intenso e conciso, è tratto da un romanzo che, anche in Italia, ha avuto un discreto successo (Laura Kasischke, La vita davanti ai suoi occhi, Neri Pozza, 2003), ampiamente rimaneggiato nella sceneggiatura per creare, nella storia del personaggio interpretato da Uma Thurman, un antefatto più aderente all'attualità.
L'evento che modula e plasma l'intera vita della Thurman è il confronto con un "mass murderer" nella scuola da lei frequentata da ragazza.
Una strage, terribile come quella di Columbine, viene perpetrata: un compagno, dopo aver esplicitato le sue intenzioni senza essere creduto, arriva a scuola con un'arma da guerra e spara a ripetizione, uccidendo chiunque gli venga a tiro. Diana è nel bagno della scuola con la sua amica del cuore, Maureen: l'assassino, in uno stato di forte alterazione psichica, irrompe e le mette entrambe sotto tiro, dicendo che solo una di loro dovrà morire. Maureen, altruista, dice, senza esitazioni: "Uccidi me. Non lei!". Quando a Diana tocca dire la sua in questo gioco atroce, ella - cedendo alla paura - grida "Uccidi lei!", pur consapevole dell'atroce tradimento che sta consumando nei confronti dell'amica.
Nel flm noi vediamo una Diana (Uma Thurman) adulta e madre, a confronto con la figlia adolescente e capiamo che ella rimane indissolubilmente vincolata a quel passato e alla ripetizione ossessiva della pellicola di quei pochi attimi che hanno segnato per sempre la sua vita, e alla rivisitazione di tutto ciò che è accaduto nei giorni precedenti, quelli della crescita e del formarsi di un forte sentimentio di amicizia, fatto di complicità e di condivisioni, con Maureen (anche confidente di tutti i suoi turbamenti adolescenziali e, nello stesso tempo, oggetto della sua gelosia).
La Thurman vive quasi spaesata nel presente, perchè piccoli dettagli, stimoli apparentemente insignificanti la fanno rimpiombare nel passato, in quel passato, un passato che non passa mai, costringendola a vivere in un presente smorto e derealizzato a confronto a quelle forti emozioni mai elaborate del tutto..
E' come se il regista ci presentasse due vicende parallele che convergono ossessivamente in quell'unico momento cruciale e determinante: la scelta definitiva ed irreparabile, Mors tua vita mea, l'affermazione della propria viltà e il trionfo, a dispetto di tutto, del proprio attaccamento alla vita.
Proprio di vicende parallele si tratta e non di semplici flashback tinti di onirismo.
La mente e gli occhi della protagonista sono là, sempre aperti su quell'istante e su quelli precedenti.
La tecnica di presentazione del passato e del presente sembra derivare dal montaggio di due film distinti e combinati ad incastro in un viluppo intrigante e non immediatamente decifrabile.
In questa ossessione, Diana cerca di riscrivere il suo passato alla ricerca d'un possibile riscatto.
La sua vita sarebbe finita se si fosse detta pronta ad immolarsi per l'amica, o forse no.
Questo non possiamo saperlo.
Avrebbe anche potuto sopravvivere, pur ferita.
E il regista sembra voler proporre, in chiusura, proprio quell'impossibile riscatto.

venerdì 16 gennaio 2009

"Sette anime": una storia di riscatto e redenzione


Un esattore delle tasse compie uno straordinario cammino di redenzione che cambierà per sempre la vita di sette sconosciuti. . La seconda volta di Muccino in America "ridistribuisce" la felicità e ricerca la redenzione (www.mymovies.it)
La donazione di sè deve o dovrebbe essere il più possibile anonima e sommessa. Questo ci insegna ancora prima dell'etica dei trapianti, il sistema di riferimenti morali che regola la donazione di sangue.
Un dono per essere tale dovrebbe essere il più possibile non direzionato, perché altrimenti si rischierebbe di dividere l'universo tra "meritevoli" e "non meritevoli" del proprio atto di carità o del proprio gesto soccorrevole.
L’“altruismo” a volte può essere invasivo della sfera privata dell’Altro, oggetto delle nostre attenzione, se non addirittura fortemente aggressivo.
Per di più, in una società dominata da un isolamento sociale sempre più marcato, dall’egoismo e dalla necessità d'accaparrare per sé il maggior numero di vantaggi, un atto disinteressato ha buoni titoli per rimanere incompreso o per ricevere delle interpretazioni fuorvianti.
Una donazione esplicita, invece, crea imbarazzo, suscita perplessità ed imbarazzo.
Interrogativi si affollerebero subito alla mente,invadendo la relazione con il presunto "buon samaritano".
Perchè io?
Per quale motivo mi scegli?
Cosa vuoi da me?
Chi sei tu?
Perchè lo fai? Cosa ti spinge?

Sappiamo che, in un paese a matrice cattolica come il nostro, i mali sociali, la sofferenza e il dolore (altrui) sono importanti e necessari, perchè consentono ai "buoni" credenti di porsi nella posizione di "benefattori" (dispensando oboli ed elemosine, devolvendo una parte dei propri beni in opere di carità), ma sempre mantenendo le distanze, sempre conservando i propri piccoli (o grandi) privilegi. In questi casi, far del bene, pur avendo delle ricadute sociali positive, serve soltanto a chi "dà" beni e servizi, fungendo da riscatto, da espiazione o anche da ammortizzatrore della propria coscienza e consentendo di dormire sonni tranquilli.
E' raro che nella coscienza dei "normali" cattolici ci sia la pinta a donare integralmente se stessi, anche al prezzo della propria vita.
Alcuni che l'hanno fatto, sono stati fatti santi.
Fare il "benefattore", donando a ciascuno dei propri "eletti" (cioè a quegli individui che siano, buoni di cuore e di animo puro) a "pound of flesh" del proprio corpo (in metafora, ma in alcuni casi anche letteralmente), implica un ulteriore ebbrezza d'onnipotenza. a meno che non ci siano valide ragioni e motivazioni, ma nello stesso tempo l'individuo che si mette su questa strada deve essere animato da fortissime motivazioni interiori.
Il film di Muccino sfiora questa tematica, senza però riuscire ad approfondirla del tutto.
In questa seconda prova americana del nostro regista, dopo "La ricerca della felicità", vi è una storia di riscatto e di redenzione, in cui Ben Thomas (Will Smith) vota la sua vita a salvare "sette anime", donando a ciascuno un pezzo di sé o la sua disponibilità samaritana o i suoi beni.
Apparentemente dando, senza chiedere nulla in cambio.
Ciò che Ben Thomas cerca è la possibilità di mettere a tacere il senso di colpa, cercando - nello stesso tempo - redenzione e riscatto, ma esprimendo anche in ultima analisi la sua determinazione alla rinuncia alla vita, perchè non è più degno di gioire e di godere dei piaceri semplici della vita, nemmeno d'un amore ritrovato.
Il film è dunque una storia di redenzione, guidata dalla rabbia e dal senso di colpa irrisolto per aver causato, per una banale distrazione, la morte di sette persone in un sol colpo.
Per alcuni aspetti, Ben Thomas potrebbe essere un personaggio capace di aspirare alla "santità" nei termini formulati sopra, se il suo bisogno di far del bene non fosse così strabordante, invadente, prepotente a tratti ( e se non ci fosse il bisogno di "mettere alla prova" per valutare la "bontà dei prescelti, come è nel caso del colloquio telefonico con il non vedente). E se il suo ultimo sacrificio etico, non avvenisse in modo "non" etico, come suicidio lucido, mascherato da incidente.
La recitazione di Will Smith è forse eccessivamente imperniata sul tormento causato in lui dal senso di colpa per la tragedia che in pochi secondi ha provocato, più recitata e mimata che scaturente dall'interiorità del personaggio.
Agli spettatori, la dinamica degli eventi, la comprensione completa di essi e della ragione profonda delle scelte di Ben sarà possibile soltanto al compimento della storia, a riscatto compiuto, soltanto anticipata da numerosi e frammentari flashback.
Peraltro, per i motivi già detti prima, non è facile "salvare" o "far del bene" a sette predestinati, anche perchè la non anonimità dell'elargizione attiva sospetto, rifiuto, desiderio del mantenimento della propria privacy e viene, in definitiva, fraintesa, salvo che non vi sia una comprensione tardiva, dopo.
Vi è forse un eccesso di "americanizzazione" nella trama con l'inserimento, nella sceneggiatura, di alcuni dettagli che paiono decisamente ridondanti (e un po' istrionici), come ad esempio quello della temibile "Cubo-medusa" (e la relativa sotto-storia scaturente da un ricordo d'infanzia di Ben) e, forse, anche qualche risvolto francamente melodrammatico e un po' troppo "buonistico", come accade in chiusura nell'incontro tra alcuni degli "eletti", grazie al "sacrificio" di Ben.
Si veda - come contraltare - la forza e l'intensità (non recitata) di "23 grammi", indubbiamente affine per la tematica e per l'intreccio di vita, morte e sensi di colpa.
Ma queste sono questioni di lana caprina.
Il film è comunque godibile e, quando le luci si riaccendono in sala, lascia nello spettatore un buon sapore, delle forti emozioni e il giusto coinvolgimento emozionale.
Un film, per piacere, non deve necessariamente essere una somma opera d'arte.

giovedì 15 gennaio 2009

"Ketti ti amo" sfida il tempo

Sul muretto di contenimento d'una delle rampe della Scala Vecchia che sale a Monte Pellegrino (Palermo), a pochi passi dalla prima cappelletta votiva intitolata a Santa Rosalia e primo luogo di sosta importante per i pellegrini, una mano ignota tantissimi anni fa ha tracciato a lettere cubitali rosse una perentoria e lapidaria dichiarazione d'amore per la sua "Ketti".
"Ketti ti amo", si riesce ancora a leggere, benchè i caratteri siano ora sbiaditi dal tempo.
E' da almeno trent'anni che la osservo, chiedendomi chi fosse questa Ketti, e - in anni più recenti - ogni volta che mi capita di passarci davanti, rimango stupito del fatto che - in un mondo dominato dall'impermanenza, fatto di cose transitorie e precarie dalla vita fugace e di amori "usa e getta" o "liquidi" per usare la felice espressione di Zygmunt Baumann, questa dichiarazione d'amore se ne stia là a sfidare il tempo, ad imperitura memoria d'uno stato dell'anima dell'ignoto autore, forse di una condizione in "statu nascendi" - di particolare effervescenza - nell'innamoramento tra i due.
Stando seduto sulla rozza panca di ferro (assicurata ad un palo con un catenaccio per prevenire perniciose tentazioni), posta dinanzi all'immagine della Santuzza e che invita al riposo e alla contemplazione, sto per un po' a meditare sulla "resistenza" al tempo dell'anonima dichiarazione, appena distratto dal brusio che sale dalla città convulsa sotto di me.
Mi chiedo: Ketti sarà mai passata di qui?
Oppure: la scritta è stata posta proprio qui, a due passi dalla Santuzza, perchè il suo compilatore sperava in una speciale intercessione da parte della Santa?
Oppure: i due erano insieme quando le lettere furono tracciate?
Immagino, in un'ipotetica lieta conclusione della storia d'amore che s'intravede dietro, che i due - Ketti e il suo innamorato senza nome - alla fine si siano incontrati e si siano fidanzati.
Immagino anche, nel prosieguo di quest'estrapolazione, che i due, a distanza di quasi trentanni, siano ancora assieme e che, almeno una volta all'anno, vengano qui in "pellegrinaggio", tenendosi per mano, per fermarsi - pensosi ed emozionati - davanti alla dichiarazione che è stata il fondamento della loro storia.
Ma anche se le cose non fossero andate così, non importa.
E' bello vedere che la traccia d'una dichiarazione d'amore abbia potuto vivere tanto a lungo, quasi a testimoniare il forte importo d'energia emozionale che, alla sua origine, ne dovette "impregnare" i caratteri.

lunedì 12 gennaio 2009

La fondamentale "incertezza" della medicina contemporanea riflessa nell'esperienza di un paziente/scrittore


Di questi tempi, fioccano saggi e opere letterarie che, in forma diaristica o romanzata, trattano di esperienze di malattie e guarigione, e - per quanto riguarda noi - di rapporti con il Sistema sanitario nazionale. Alcune sono eccessivamente polemiche, mentre altre riescono a puntare il dito, non tanto sul "marcio" che, a
chiazza di leopardo, indubbiamente c'è nel nostro sistema sanitario, quanto piuttosto sulle sue "disfunzioni". Appartiene alla tipologia della saggistica "diaristica" il piccolo volume del giornalista Roberto Levi, preceduto dall'accattivante presentazione di Umberto Veronesi, "Lo sapevo, non dovevo ammalarmi. Un uomo alla ricerca della sua diagnosi" (Feltrinelli, 2008). L'autore (che ha inizato la sua carriera giornalistica nel quotidiano "La Notte" come cronista di nera, notista di costume ed inviato sportivo e che, dal 1996 cura su "Il Giornale" una rubrica quotidiana di critica televisiva) racconta in prima persona d'una propria esperienza di malattia (così sembrerebbe, salvo ad avanzare il dubbio che possa trattarsi d'una finzione letteraria), dal riconoscimento dei primi sintomi all'avvio d'un itinerario tortuoso e complicato per identificare una possibile diagnosi, un vero e proprio "calvario", che,descritto in modo ironico e disincatato,con toni talvolta dissacranti, lo porta ad entrare in contatto con diversi aspetti - pubblici e privati - del mondo della terapia e della cura (perfino con le medicine alternativa e con la dietologia).
L'autore è, appunto, un "uomo alla ricerca della sua diagnosi" e il suo percorso, affine a quello rappresentato da Nanni Moretti nell'ultimo episodio ("Medici") in "Caro diario..." presenta delle vicende quasi paradossali e grottesche.
Ricordiamo qui che "Medici" è la cronistoria, con una ripresa iniziale autentica, della lunga malattia che Moretti aveva contratto. Diagnosi e medicine sbagliate, medici poco disposti ad ascoltare. Poi il paradosso finale: quella che sembrava una malattia della pelle era un tumore benigno e i sintomi erano riportati da una semplice enciclopedia medica.

Ma, tornando al nostro libro, dietro l'ironia graffiante s'intravedono alcune disfunzioni del sistema sanitario (grandi e piccole), che tuttavia sembrano dipendere in massima parte da un'umanizzazione ancora alquanto precaria nella relazione intercorrente tra i "sacerdoti" della diagnosi, della terapia e della cura e i "pazienti", secondo una geometria che non è mai armonica e paritaria, ma sempre segnata da una forte asimmetria e da un fondamentale squilbrio nel gioco di forze in campo. Il paziente viene rappresentato come una "vittima" del sistema, anche se alcuni dei suoi patimenti derivano dall'incertezza che tuttora domina l'approccio alle malattie, dall'impossibilità per i medici - in una grande percentuale di casi - di formulare diagnosi sicure, dal collidere di scuole di pensiero diverse, dall'incidenza pesante - infine - di interessi personali.
Il vero problema, spesso ignorato o preso sotto gamba, è che lo scientismo dominante e la necessità di trasformare la pratica medica in commercio di farmaci e di pratiche strumentali costose hanno oscurato fin troppo l'empirismo della Medicina, la sua natura di scienza "debole", le sue incertezze, benchè interessi commerciali predichino il contrario nei media e attaverso i loro "portavoce" ufficiali, creando false speranze e l'aspettativa non realistica che, per qualsiasi sintomo, ci sia una diagnosi ed una "cura" risolutiva, laddove invece la filosofia ippocratica ci ricorda che, a volte, "Il meno è il meglio" e che, di fronte a tante situazioni morbose incerte e poco chiare, occorrerebbe imparare a "convivere" e ad accettare, ponendosi da medici in una posizione di umiltà e di disponibilità all'ascolto della singolarità di "quel" paziente.


Laddove, invece, un paziente con sintomi oscuri e poco chiari viene spesso catagolato come un ipocondriaco o licenziato con superficialità con frasi del tipo ("E' una banale gastrite!", oppure "Non è niente", oppure "Una bella notte di sonno e passa tutto...", per non dire le famose frasi latine di conforto, quali "In amaritudine salus!" o ancora "Sursum corda!").
Niente di peggio, poi, quando le paura e i timori d'un paziente, candidato ad una diagnosi, o la sua franca ipocondria s'incontrano con la prosopopea e la superbia di alcuni specialisti e dei grandi luminari, com'è raffigurato con acume e con gustosa ironia da Daniel Pennac in "La lunga notte del dottor Galvan" (Feltrinelli, 2005).
Forse, soltanto quando si crea un'attitudine interiore di "accettazione" si possono realizzare le premesse per il ristabilirsi d'un equilibrio psicosomatico che apre la strada alla guarigione con la percezione di una qualità di vita sicuramente migliorata (percezione sempre soggettiva, si badi bene, non necessariamente oggettiva e legata alla consapevlezza di una "restitutio ad integrum").
Resta comunque certo che, in Italia, vi è ancora moltissimo da fare per una umanizzazione delle pratiche mediche e della relazione tra "paziente" e "curanti", a qualsiasi livello i secondi si trovino nella "catena" della cura.
Molte delle sofferenze, descritte da Levi nel suo piccolo libro, e degli sballottamenti da un'esperto all'altro, dall'ospedale pubblico alla clinica privata, dall'ambulatorio alla corsia d'ospedale (tutti motivati dalla necessità spamodica di trovare risposte a quesiti, dubbi, incertezze), come tappe della sua personale odissea, derivano soprattutto da un'insensibilità del mondo dei curanti nei confronti di chi è portatore d'una malattia o d'una sindrome o d'una costellazione di sintomi per la quale non si trova ancora un'etichetta. E' la qualità della relazione ad essere spesso scadente e questa percezione, vissuta dai pazienti sulla propria pelle con un forte senso di inferiorità (per via di quella asimmetria di rapporti di cui s'è detto) suscita disagi (che con un po' di accortezza e di sensibilità in più sarebbero evitabili) che nulla hanno a che vedere con la malattia in senso stretto.
E' ciò che sottolinea Umberto Veronesi nella sua breve ed incisiva presentazione al volumetto.

Queste le parole di presentazione al volume di Roberto Levi, riportate nel retro di copertina:

Provate a immaginare: un giorno vi comunicano che i vostri valori sono fuori norma e gli esiti incomprensibili degli esami stabiliscono che avete qualcosa che non va. Che cosa non va? Il problema è proprio questo: che cosa? Qual è la diagnosi? Dopo il ricovero "precauzionale", il paziente subisce ogni tipo di esame invasivo e i medici si affastellano attorno al suo letto per toccarlo, palparlo, auscultarlo, diagnosticarlo. Le ipotesi si accavallano, la medicina brancola nel buio e i dottori non sanno far altro che riempirlo di cortisone e assicurare che la causa del suo male sarà presto scoperta. Il paziente è ottimista, ma i vicini di letto !o mettono in guardia:"Senza diagnosi non sei nessuno". Il paziente si trasforma in un "cercatore di diagnosi". Consulta specialisti, dal luminare all'omeopata, e decide di tornare in ospedale, per un'altra "ricerca". Ed ecco i vecchi amici, e ancora esami, dottori, ipotesi azzardate. Niente da fare. Il paziente viene dimesso. E adesso? Le cure? Cosa dirà ad amici e parenti? In ospedale non sanno rispondere neppure a questa domanda. Forse al prossimo ricovero potranno dirgli qualcosa di utile. Un libro divertente e arguto, paradossale e vero, da tenere in tasca o in borsa ogni volta che facciamo la fila per un ticket, a ogni ritiro di esami clinici, a ogni sguardo melanconico che ci dice quanto sembriamo stanchi, pallidi, fuori forma, a ogni check-up parziale o totale. A ogni visita specialistica, in sala d'attesa, spiando gli altri pazienti.

giovedì 1 gennaio 2009

L'anno nuovo e le monetine della fortuna



Oggi è il primo dell'anno.
Come sempre, passato il furore selvaggio ed insulso di botti e scoppi, subentra uno stato d'animo più tranquillo e rilassato.
E' più che altro un fatto 'cerimoniale' accogliere così fragorosamente il nuovo anno e in simultanea di congedarsi da quello appena trascorso, in un'atmosfera che, secondo un rigido e scontato protocollo, deve sempre essere venata di eccitata concitazione ( con l'anticipazione di un futuro sicuramente migliore).
Poi, quando i giochi d'artificio e i plop-plop delle bottiglie di spumante si placano, rimangono soltanto stanchezza e senso di vuoto.
La ruota riprende a girare, presentandoci - come sempre - senza sconto alcuno tutti gli eventi della vita, gioie, dolori, noia, divertimento in un remix caleidoscopico, eppure fondamentalmente simile a quelli degli anni precedenti.
Tutto cambia e tutto si rinnova sempre eguale, è questo il leit-motiv che tutti noi ci troviamo a dover accettare, malgrado le illusioni che sempre coltiviamo nel nostro animo.
E' la giostra della vita: ogni giro è un anno che s'aggiunge ad una lunga filiera.
Sta a noi viverlo bene senza sprecarlo.
Dipende da noi riuscire a farlo fruttificare.
Anzichè nutrire speranze di eventi improbabili, la cosa migliore, forse, è dedicarsi a far bene le piccole cose, tutte quelle che - da sole - ci possono dare più soddisfazione di qualcosa che invece - per quanto vagheggiata - non giungerà mai o sarà sempre evanescente o si realizzerà, ma mai neri modi e nei tempi che abbiamo sperato.
Molti - secondo un luogo comune che si riflette nella miriade di sms augurali che fioccano a mezzanotte e dintorni - pensano che la chiave di volta di tutti siano "fortuna e soldi", molta fortuna, tanti soldi.
E' così che poi si spreca il nuovo giro di giostra: nell'attesa livida della fortuna e d'una cascata di soldi (magari vinta alle scommesse, al Superenalotto, al totocalcio).
"La Fortuna è cieca", si dice: la Sorte non può essere blandita in alcun modo.
Arriva sempre inaspettata, senza che si possa mai sapere in anticipo chi la dea bendata toccherà con la sua mano.
Eppure, si può gioire delle piccole fortune che ci capitano ogni giorno.
Godendo, per esempio, della sorte benigna che ci fa trovare per strada monete di scarso valore e altri oggettini.
Alcuni lasciano perdere: trovano che non sia nemmeno il caso di chinarsi a raccogliere quella piccola cosa che è venuta sino a te.
Altri, invece, prendono tutto quello in cui s'imbattono e sono felici del piccolo dono avuto dalla sorte.
E'la filosofia ancestrazle dei nostri antenati cacciatori-raccoglitori: meglio accontentarsi di ogni piccola preda commestibile (radice, tubero o frutto che sia); mai rifiutare sdegnosamente il poco che si può trovare quotidianamente in attesa della selvaggina più grossa, di cui però non si ha certezza (verrà domani o dopodomani, ma certamente non oggi).
In fondo, di questo si tratta: mantenere in ogni evento della vita un senso composto della misura; mai desiderare più di quello che si può avere.
L'altro giorno, ad un incrocio d'uno dei quartieri residenziali della città, il rom stanziale di quella via si accostava alle auto in attesa del segnale verde, chiedendo l'elemosina.
"Ho fame", diceva una scritta a rozze lettere su d'un pezzo di cartone che egli reggeva davanti a sé per suscitare compassione.
Per terra, a pochi da metri da lui, occhieggiava con riflessi ramati un pezzo da 5 centesimi che, forse, gli era caduta di mano o era stata persa da qualcun altro.
L'avrei voluta raccogliere per me, come faccio con tutte le monetine in cui m'imbatto, ma - per scrupolo di coscienza - gliel'ho indicata, pensando che, senza farsi pregare, egli l'avrebbe raccolto (pensavo: "E' qui per questo! Non voglio levargli il pane. Ha più bisogno di me").



Invece no. L'ha guardata distrattamente, continuando nella sua questua. Evidentemente per lui, 5 centesimi non valgono nulla.
Per me, invece, sì.
Le raccolgo tutte, anche quelle da 1 e da 2 centesimi.
Per me valgono perchè sono le monetine della buona fortuna, perchè sono un segno.
Poi, le conservo tutte in un apposito salvadanaio.
Magari, un giorno, senza averla mai desiderata, troverò anche una banconota da 100 euro, oppure m'imbatterò in una cosa che, pur priva di un valore monetizzabile, sarà per me straordinaria.
Sono certo che, se tralascerò gli oggettini di poco valore che oggi vengono a me, domani non troverò mai le cose che siano veramente di valore (beninteso, in senso soggettivo)...
Non bisogna mai dare un calcio alla buona sorte.
Sapersi accontentare dei piccoli doni quotidiani, significa che, domani, inaspettatamente, qualche cosa più bella che non abbiamo chiesto o in cui non abbiamo sperato ci accadrà.
E' così, dunque, con questo spirito umile e positivo che va accolto il nuovo anno, il nuovo giro di giostra della nostra vita.
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