martedì 30 dicembre 2008

La storia di Bolt, da cane supereroe a cucciolo "normalmente" dipendente


Tempo di Natale, tempo di cartoni animati!
Ritorna la Disney con la storia di Bolt, supereroe a quattro zampe, rispettando la tradizione dell'uscita annuale d'un solo cartone come regalo natalizio per grandi e piccini.
Con un piccolo eroe a quattro zampe si torna al buon vecchio mondo Disney. Per il super-cane BOLT, stella di una serie televisiva, ogni giorno è ricco di avventura, pericolo e intrigo, almeno finché le macchine da presa continuano a girare.

E' la storia di Bolt, il protagonista assieme alla umana Penny (8la sua padroncina, nonchè comprimaria di avventure) di una serie TV di grande successo. Bolt si sente un supereroe e, essendo frutto d'un esperimento di bio-tecnologia sofisticata (nella fiction che per lui è realtà), alimenta in sè una convinzione ferma del'esistenza dei suoi poteri e una fede quasi irriducibile in essi. Bolt è sempre vissuto negli studi cinematografici di Hollywood, presentati come una moderna versione della mitica caverna di Platone, e qui è stato protetto, di fatto, dal contatto traumatico con la realtà che gli toglierebbe ogni illusione.


Il racconto, che risente molto dei modelli Pixar dal punto di vista della grafica, s'attiene tuttavia al modello "morale" della Disney, con una serie di personaggi che ruotano attorno al protagonista in uno schema consueto, con lo stratagemma della antropomorfizzazione senza tuttavia eccessivi approfondimenti psicologici nella costruzione dei personaggi che rimangono piuttosto come "macchiette" e tipi un po' tendenti ala stereotipia (e che, ciò nondimeno, piacciono).
Per una serie di fortuite circostanze, Bolt casca di botto nel mondo esterno (viene nientemeno spedito sino a New York!)e da qui, messo traumaticamente a dura prova, dovrà intraprendere un lungo viaggio di ritorno attraverso gli States per ritrovare la sua padroncina e "salvarla".
Una storia non originale, peraltro: basti pensare ai film della serie "Torna a casa, Lassie! esordita nel 1941 (e questa fortunata serie con un cane vero, un Collie, per la precisione)...
Nella sua impresa, verrà sostenuto da due "amici" che incontrerà durante il suo percorso: la gatta Mittens, il criceto Rhino, ma anche tre piccioni che, in realtà sono degli ammiratori sfegatati di Bolt nei panni del supereroe, come del resto lo è Rhino.
Questo viaggio, attraverso molte vicissitudini ed avventure, porterà Bolt a ritrovare la sua padroncina. Nello stesso tempo, le avventure narrate rappresentano un percorso di formazione per Bolt che è costretto ad abbandonare la convinzione onnipotente di essere un invincibile supereroe, accettando la dimensione esistenziale dell'essere un cane che gioca afinalisticamente, si diverte e vive quietamente la sua dipendenza canina (che, in fondo, è dei superpoteri che credeva di possedere quello più vero, quello sicuramente vincente.
Ci sono anche tuti gli ingredienti di una bella favola "morale" sui valori dell'amicizia e sul patto di fedeltà, sull'amore - più in generale, bene illustrati dall'intreccio di relazioni tra Bolt, Mittens e Rhino.
E' un film, indubbiamente, godibile anche per i più grandi.
In esso, come espressione della recente acquisizione della Pixar da parte della Disney si evidenzia l'acquisizione nel linguaggio "Disney" di una serie di stilemi narrativi più propri della Pixar.

sabato 27 dicembre 2008

Ultimatum alla terra: il pensoso remake di un film di 60 anni fa


Di questi tempi, sono di moda le visioni apocalittiche d'una prossima fine del mondo, tanto più adesso che, sopite le angosce millenaristiche del passaggio del millennio, ci avviciniamo a grandi passi al 2012 anno in cui, secondo il computo d'una tradizione maya fondata su calcoli matematici ed astrologici sofisticati, dovrebbe avvenire la fine del mondo che conosciamo, con l'allineamento dell'asse del nostro sistema solare e dellresto della galassia.
Non è un caso che, come remake, venga riproposto un film già uscito con identico titolo nel lontano 1951 (quasi 6o anni fa).
Si tratta di "Ultimatum alla terra (titolo originale "The Day the Earth Stood Still").
Questa molto in sintesi la trama.
L’alieno Klaatu atterra sull’America post-undici settembre con un avvertimento per l’umanità: non fate la guerra e amate l’ambiente. Un'affermata scienziata si ritrova faccia a faccia con un alieno chiamato Klaatu, che ha viaggiato nell’universo per avvertire l’umanità di un’imminente crisi globale.…

Entrambi i film propongono l'idea che una razza superiore abbia dislocato nei diversi pianeti abitati da esseri senzienti delle "sentinelle" (dei propri rappresentanti) che vigilano e stendono periodici rapporti sullo stato di salute del mondo di cui hanno la responsabilità. Il loro scopo è quello di mantenere in ognunoodei mondiidi cui sentono di avere la responsabilità, una sorta di equilibrio globale e di evitare che alcune specie assumano un rango di predatori attivando circoli viziosi di distruttività. Se ciò accade arrivano altri rappresentanti della loro razza con l'incarico dii"mettere lecose a posto"; nei panni dunque del dio biblico dell'Arca di Noè.


In sostanza, questi esseri si pongono nei confronti dei mondi come degli Dei "giardineri", pronti ad estirpare le erbacce malefiche che soffocano quelle buone.
La salvezza dei mondi può richiedere, a volte, delle soluzione drastiche: eliminare una specie per preservare tutte le altre, non per il piacere di farlo, ma per un motivo di ordine superiore: mantenere in vita il pianeta che li ospita.
E' questa la filosofia "cosmica" che entrambi i due film propongono.
Chiaramente, con delle differenze in funzione dell'epoca in cui sono comparsi.
Il primo risentiva degli effetti delle paure instillate dal maccarthismo e dal clima della guerra fredda, quando tutti (e soprattutto gli Americani) vivevano con il fantasma della guerra nucleare e del conseguente inverno radioattivo.
Questo remake, invece, nasce nel clima del post-11 settembre, ma soprattutto è fortemente influenzato dall'accresciuta sensibilità che ciascuno di noi alimenta sulla necessità di preservare l'equilibrio globale del nostro pianeta (visto come un organismo vivente: Gaia), dall'onda lunga del prezioso atto di denuncia di Rachel Carson e dal tentativo di cercare di porre riparo alle distruzioni già messe in opera.
Quindi, in questo secondo film, tutta l'attenzione è centrata sulla fondamentale cattiveria degli uomini nel determinare - con insensibilità e crescente protervia - danni crescenti all'ambiente che li ospita.
Keanu Reeves, pensoso e grave, si propone come personaggio "divino" (e, dopo le sue interpretazioni dei diversi episodi di "Matrix", non può che essere così) che, con onnipotenza ed estrema fermezza decide di ciò che deve essere fatto: lo sterminio di tutti gli uomini e l'annientamanto di tutte le loro opere per la salvezza della Terra e delle altre specie viventi.
Salvo, poi, a dare agli uomini un'ultima chance, riconoscendo che c'è in loro qualcosa di buono: varrà l'avvertimento, c'è da sperare.
Per il resto, tutti gli elementi del primo film ci sono tutti. Sono stati riversati con maestria e senza nemmeno eccedere con gli effetti speciali nel nuovo film: salvooforse la rappresentazione della biblica invasione di cavallette metalliche che tutto polverizzanooal loro passaggio (l'atto finale).
Una differenza rispetto al primo film è nel modo in cui arrivano gli alieni: nel primo, si trattava d'un immenso disco volante (ricordiamoci dell'ossessione degli americani per l'Area 51 e dell'ineusaribile filone degli X-Files), qui invece si tratta di immense sfere luminose, fatte d'una sostanza inattacabile ed indistruttibile.
In entrambi i casi questi veicoli non sono altro che delle "arche" che serviranno a mettere in salvo le specie da preservare, mentre gli uomini cattivi e dannosi vengono distrutti.
Una notazione cinematografica: eccellente l'interpretazione di Kathy Bates, nella parte del Segretario di Stato del Presidente USA che, invece, stranamente non compare mai: si è appena messo in salvo in una località segreta (e si può immaginare, blindata) in attesa degli eventi che verranno.
Un film che può piacere o non piacere, ma in ogni caso dignitoso ed onesto, portatore d'un forte messaggio morale.

sabato 20 dicembre 2008

The long run ovvero una corsa per la vittoria


Qualche giorno fa m'è capitato di vedere uno splendido film del regista Anangh Singh, uscito con poco battage nelle sale cinematografiche (2000) e transitato da esse quasi sotto silenzio, per poi ricomparire di recente in DVD nel mercato dell'home video.
Di tale film, sconoscevo l'esistenza, pur avendo dei motivi specifici per doverlo conoscere. Mi sono imbattuto in esso per puro caso, mentre cercavo di reperire un altro film che mi sarebbe piaciuto acquistare (nel cui titolo entrava pure la parola "run"): uno dei tanti scherzi delle indagini effettuate con i più comuni motori di ricerca, una sorta di "serendipity" telematica.
La brevissima sintesi di appena due righe, fondamentalmente ermetica, m'è piaciuta perchè rimandava al mondo della corsa e, detto fatto, l'ho ordinato.
Il film è risultato straordinario, perchè - in una bellissima storia - sono abbinate assieme "corsa" e formazione personale.
Questa ne è, in sintesi, la storia, ambientata in Sudafrica.
Barry, allenatore di atletica sulla via del declino cerca qualcuno da preparare per la Comrades Marathon che, essendo una celebre e blasonata gara podistica (si disputa dal 1921) sulla distanza di 56 miglia (circa 90 km), ha luogo ogni anno (tra maggio e giugno) sulla distanza che si sviluppa in linea da Pietermaritzburg a Durban, alimentando tra migliaia di partecipanti uno spirito di gruppo e di festa che rappresenta la vera essenza dello sport ed anche il trionfo dela competizione non agonistica.
Alla fine, Barry incontra una giovane donna che, immigrata clandestinamente dalla vicina Namibia, sembra possedere un innato talento per la corsa. Christine, questo il nome della giovanne runner talentuosa, sarà il suo cavallo vincente.
Se sono indubbiamente emozionanti le sequenze finali che il regista dedica alla corsa (la Comrades Marathon), realizzate peraltro con il supporto della stessa Associazione che si ooccupa di organizzare di anno in anno l'ultramaratona in questione, sono ben più toccanti le pagine che descrivono l'incontro tra Barry e Christine, poichè rappresentano in modo straordinario le difficoltà insite nel difficile rapporto tra allenatore e atleta, che è anche relazione tra tutor e allievo.
Il regista propone una forte riflessione sul fatto che accettare una guida (in fondo in qualsiasi campo, non solo nello sport) implica il mantenimento di spazi di autodeterminazione e che la decisione di dedicarsi con impegno ad un progetto agonistico forte deve essere necessariamente autoreferenziale e fondata su d'una propria determinazione volitiva e passionale.
Un allenatore non riuscirà mai nel suo intento (formare un atleta, portandolo alla vittoria o a risultati d'eccellenza) se l'atleta che a lui si affida non condive pienamente lo stesso progetto o non sente emergere dal suo interno una forte motivazione che lo spinge in quella direzione, facendolo adattare a grandi sacrifici e rinuncie. Tutto ciò non può avvenire meccanicamente, ma implica uno sforzo relazionale condiviso in cui entrambi i "contraenti" siano capaci di mettere in gioco se stessi, pienamente, anche sul piano degli affetti e delle emozioni.
Nel nostro film, entrambi, Barry e Chiristine, attraverso tormenti, difficoltà e costruttivi conflitti, imparano qualcosa dal loro incontro: Barry comprende alla fine che, solo accettando anche le componenti affettive della sua dedizione nei confronti di Christine e, contemporanenamente, dandole spazio perchè viva autonomamente la sua vita e le proprie esperienze di giovane donna in crescita, potrà riuscire nel suo intento.
Christine, dopo aver rifiutato Barry e il suo modo fermo e determinato (a tratti, quasi impuslivo) di imporre un controllo sulla sua vita e le sue scelte (rispettoso, ma rigido), si rende conto - dopo aver sperimentato la libertà delle sue decisioni, che ha introiettato dentro di sè la voce, le esortazioni e i consigli di Barry. E saranno proprio questi forti messaggi interiorizzati che, facendosi strada dall'interno verso la superficie, a dare a Christine - nel momento culminante della gara - quella sferzata di energia che, alla fine, le consentirà di tagliare il traguardo, vincente innanzitutto con se stessa.
"The long run" è anche un bel film sulla Comrades Ultramarathon che, anche per questo, dovrebbe essere visto da tutti quelli che amano le ultramaratone.

venerdì 19 dicembre 2008

La serenità edenica di "Blue lagoon" per curarsi dalla volgarità idiota de "L'isola dei famosi"...


Ieri, m'è capitato di rivedere in DVD un film che con la sua trama ingenua ed il lieto finale, mi aveva colpito quando più di vent'anni fa ebbi modo di vederlo al cinema. Si tratta di "Blue lagoon", realizzato dallo stesso regista di Grease ed interpretato da una ancora giovanissima Brooke Shields (allora appena diciasettenne).
Il film, quando venne fuori nel circuito delle sale cinematografiche, pur essendo un per tutti, fece scalpore, perchè i due attori protagonisti erano il più delle volte nudi, con l'esibizione naif del proprio corpo, salvo a trovare forme di delicato pudore soltanto dopo la scoperta dell'amore.
Il film, realizzato con misura e buon gusto, peraltro non creava (e non crea tuttora) aspettive morbose negli spettatori, ma presenta la rivelazione d'un mondo selvatico ed incontaminato, un vero e proprio Eden, in cui i due giovani naufraghi crescono e si sviluppanoin una condizione di purezza" primigenia.
Il mito trattato è quello del fanciullo selvaggio di Rousseau che, pur lasciato in balia di se stesso negli anni cruciali dello sviluppo, si forma con codici etici e comportamentali adeguati a quelli della civiltà da cui proviene.
Non bisogna dimenticare che il film è tratto dal romanzo d'uno scrittore inglese ancora intriso dei codici culturali vittoriani (Henry De Vere Stackpoole, un vero autore di best-selers, per quell'epoca) che, nel suo immaginario, riuscì ad ideare una vicenda decisamente in controtendenza rispetto ai canoni del tempo (e forse proprio per questo "Blue lagoon" ebbe tanto successo di pubblico).
Lo scrittore riuscì pienamente nel suo intento senza lasciarsi intrappolare dalla faccia nascosta e morbosa del puritanesimo della sua epoca.
Il film che ho visto ieri ha appunto questa forte impronta d'innocenza e purezza: il tutto, senza scadere nella melensaggine, ha il sapore fresco della scoperta, sia le gioie sia i timori sia il confronto con il duro mondo al di fuori (in cui vengono accomunati i selvaggi crudeli dediti ai sacrifici umani e i bianchi che vengono alla loro ricerca).
Non vi è mai lo scadimento nella volgarità e ogni sequenza è delicatamente interpunta con scene "documentaristiche" che mostrano la fondamentale bellezza della natura, maestra benigna e dispensatrice di doni (dove perfino delle bacche ritenute velenose fanno soltanto addormentare)
"Blue lagoon" ci offre una visione, tutto sommato, rassicurante e rasserenante che trova il suo contraltare nella rappresentazione decisamente più cupa e pessimista di William Golding nel suo "Il signore delle mosche", che pure venne trasposto efficacemente in film, dove viene mostrato come il confronto con un ambiente selvaggio in assenza degli adulti "educatori" espone i giovani a rischiose derive e alla liberazione di comportamenti violenti.
Secondo me, tutti i giovani dovrebbero vedere questo film (magari assieme al "Il signore delle mosche" che mostra l'altra faccia della medaglia della serenità edenica) per disintossicarsi e riedurcarsi dalla volgarità, dalle finzioni e dai pettegolezzi della becera "Isola dei famosi".
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