domenica 23 marzo 2008

Jovanotti e la capacità d'esser da soli

Assieme a mio figlio, qualche settimana fa, abbiamo cominciato ad ascoltare l'ultimo Cd di Jovanotti (Safari). Ascoltando e riascoltando, alcuni brani presto ci sono divenuti familiari: mentre per l'ennesima volta sentivamo "Fango" - una delle nostre preferite, ma anche quella che, con un bel videoclip, ha fatto da traino mediatico all'intero Cd - mio figlio mi ha chiesto in modo impellente: "Ma cosa significano queste parole? Io non riesco a comprenderne il senso!" [riferendosi al refrain della canzone]

io lo so che non sono solo
anche quando sono solo
io lo so che non sono solo
e rido e piango e mi fondo con il cielo e con il fango
io lo so che non sono solo
anche quando sono solo
io lo so che non sono solo
e rido e piango e mi fondo con il cielo e con il fango

Ho cercato di rispondergli, anche se non è stata una cosa semplice.
In effetti, di primo acchito, per chi non ha dimestichezza con la letteratura psicoanalitica, le parole di Jovanotti sembrebbero alquanto enigmatiche e contradditorie. Infatti, ha aggiunto mio figlio:
"Come è possibile che uno dica che non è solo se è da solo?"
Il testo della canzone di Jovanotti, a ben guardare, è denso di ricordi emozionali che sembrano far riferimento alla rielaborazione d'un passato affettivo, in un caleidoscopio di immagini trasfigurate e fatte rivivere nel presente con una forte pregnanza emotiva. Come, ad esempio, illustra questo passaggio,

un uomo guarda la sua mano
sembra quella di suo padre
quando da bambino
lo prendeva come niente e lo
sollevava su
era bello il panorama visto dall'alto
si gettava sulle cose prima del pensiero
la sua mano era piccina ma
afferrava il mondo intero

rinviante alla dimensione infantile dell'esperienza, quella filtrata attaverso lo schermo protettivo degli adulti che, pur essendo silenti oppure discretamente in disparte, sono comunque presenti, poichè costituiscono l'ambiente "primario" dell'infante (e del bambino, successivamente) che inizia ad esplorare il mondo. I genitori ci sono sempre, seppure in modo non invadente (non sempre è necessario fare o dire), rappresentando quella "base sicura" dalla quale, un bimbo può intraprendere con sicurezza le sue escursioni nel mondo con un raggio di autonomia ed indipendenza via via più ampio.
Winnicott, in un suo saggio (
La capacità di essere solo, in Sviluppo affettivo ed ambiente, Armando editore, Roma, 1974), parla proprio di questo: cioè, della "capacità di essere solo" come di uno dei requisiti fondamentali della autonomia e dell'indipendenza.
Ma come si costruisce questa capacità?
Paradossalmente attraverso l'aver sperimentato la condizione (indubbiamente fortificante) dell'essere stati da soli "in compagnia". In particolare, è fondamentale, usando le parole dello stesso Winnicott,
"...l'esperienza di essere solo, da infante e da bambino piccolo, in presenza della madre. In tal modo la capacità di essere solo ha un fondamento paradossale, e cioè l'esperienza di essere solo in presenza di un'altra persona" (op. cit., p.31). Senza questa fondamentale esperienza non può costruirsi nell'individuo la capacità di essere da solo, nè può essere formulata - con una base di attendibilità psicologica - l'asserzione: "Io sono solo", come appunto dice Jovanotti nel suo refrain.
Sempre guardando al pensiero di Winnicott, nella frase
"io sono solo", innanzitutto, la formulazione del pronome "Io" implica il raggiungimento di uno sviluppo emozionale che consente di delimitare un proprio confine interno rispetto al mondo degli altri e alla realtà circostante. Nella combinazione "io sono" si esprime assertivamente la raggiunta consapevolezza del'esistenza d'un ambiente protettivo che consente all'individuo non solo di prendere forma ("Io"), ma anche vita ("sono"). L'enunciazione dell'intera formula "Io sono solo", infine, è espressione della "...consapevolezza che il bambino ha della continuità dell'esistenza di una madre attendibile, la cui attendibilità rende possibile al bambino di essere solo e di godere il proprio essere solo, per un tempo limitato." (ib., p. 35).
Alla luce di ciò, la solitudine non va necesariamente vista come un disvalore, qualcosa da evitare a tutti i costi (la "paura" della soitudine, gli "effetti negativi" della solitudine), ma anzi un elemento forgiante che può assumere, per l'individuo, un valore estremamente positivo.
In queto senso, la capacità d'esser solo è uno degli elementi basilari della "resilienza" cioè della capacità dell'individuo - insieme cognitiva, operazionale, emozionale - di affrontare situazioni stressanti emozionalmente e sotto il profilo esistenziale, oppure prove fisicamente impegnative e sfibranti.
La canzone di Jovanotti, pur con il suo impatto immediato d'una scarsa comprensibilità, ci consente una riflessione di più ampio respiro sul tema della solitudine e della capacità d'esser solo: una riflessione che, profondamente credibile - per come la formula Jovanotti, trae forza da una conoscenza fortemente intuitiva (che, in alternativa, potrebbe essere la conseguenza di un'esposizione personale ad un percorso di conoscenza e di esplorazione del proprio Sè più intimo).
E' comprensibile che i giovani di oggi che sono stati nutriti di televisione e videogiochi, non riescano a decodificare con immediatezza la profondità del testo di Jovanotti. Non possiedono quest'esperienza (quella della solitudine "in compagnia" di cui la scena prototipo è un bambino intento in un suo gioco, mentre la mamma in disparte svolge una sua attività e, ogni tanto, lo "tiene" con lo sguardo), poichè il più delle volte, quando sono stati da soli, da soli lo sono stati per davvero (i genitori fisicamente assenti oppure distratti totalmente da hobby e preoccupazioni) e lasciati davanti a uno schermo, a far loro da balia.
La possibilità "pura" dell'esplorazione e della scoperta, che non sia accompagnata da rumori, musiche, animazioni, effetti da "sballo", ingenera in loro, il più delle volte, noia e fastidio, perchè ad essi manca, appunto, la possibilità di rievocare un proprio patrimonio di situazioni in cui siano stati da soli "in compagnia": situazioni che avrebbero lasciata aperta la possibilità - il più delle volte differita - di sperimentare la condivisione e la relazione prima con i genitori reali e, successivamente, con le imago genitoriali introiettate.

venerdì 7 marzo 2008

Hair - The american love rock musical in tournée italiana: tra luci ed ombre



Dopo l’anteprima nazionale messa in scena al Teatro Colosseo di Torino, Hair (“The american Tribal Love Rock Musical”) il celebre musical ha iniziato la sua tournée italiana. Una delle sue prime destinazioni è stata Palermo, dove è stato rappresentato in due serate consecutive presso il cinema-teatro Metropolitan.

HAIR che, alla fine degli anni Sessanta, fu creato da James Rado e messo in scena a Broadway dal 1968 (dove ha tenuto banco per vari decenni), viene tuttora considerato il primo ed unico “Love-rock musical” che, grazie anche al successivo adattamento cinematografico, ha divulgato in tutto il mondo il messaggio di amore e di pace, nato nell’America di quegli anni ad opera di numerosi movimenti di contestazione giovanile da quelli più politicizzati a quelli “disimpegnati”, ma non per questo meno attivi nel loro pacifismo.
Di questi movimenti, il più appariscente anche per le sue scelte rispetto all’establishment – non programmatiche, ma “vissute”con forte e provocatoria determinazione assieme ad un pizzico di teatralità – fu quello che si coagulò attorno alla filosofia “hippy”, fondata sul triplice principio della rivoluzione psichedelica (di cui uno dei personaggi più carismatici fu Timothy Leary) che sinteticamente era espresso dallo slogan: “Turn on, tune in, drop out”.

Lo spettacolo, cantato e suonato dal vivo, è recitato in italiano da un cast di venti giovani talenti selezionati in Italia e negli Stati Uniti, mentre le canzoni indimenticabili - ormai entrate nella storia della musica - come Aquarious, Sodomy, Ain't Got No, I Got Life, Hair, Let The Sunshine In e riadattate da Elisa alla direzione musicale, sono rigorosamente in lingua originale. Le coreografie sono di David Parsons, geniale coreografo americano, mentre la regia è firmata da Giampiero Solari.
Elisa, che ha lavorato duramente a questo compito e che, per i giovani attori selezionati, ha ricantato personalmente tutto il repertorio di Hair, parlando del suo incarico, ha commentato: "E’ una sfida molto bella, ogni anno mi propongono di fare un musical con le mie canzoni, ma mi sembra un’idea senza senso. Questo lavoro, invece, è come una vacanza. Alcuni brani hanno un’anima così potente - ha continuato - con il mescolarsi del rock bianco e del soul che non potevano essere toccate. Noi però siamo i ragazzi dei rave, dei Daft Punk e, allo stesso tempo, siamo riusciti a farci ispirare ancora una volta dai Doors, dai
Beatles. Ma la scoperta vera sono le tante voci belle, giovani, che abbiamo incontrato, un patrimonio inesplorato".
Sono passati esattamente 40 anni dal debutto di HAIR a Broadway e ancora oggi, in questo adattamento, lo spettacolo - soprattutto nelle coreografie e nei brani cantati - mantiene intatta la travolgente forza musicale e la freschezza originaria del suo esordio, grazie anche alla soluzione di “allargare” la rappresentazione a tutta la platea, con momenti in cui giovani attori si ritrovano a cantare, danzare, piroettare tra il pubblico.
Nella messa in scena, nei testi delle canzoni e nelle battute della sceneggiatura originale si rinvengono temi di straordinaria attualità; la protesta contro la guerra, contro l’intolleranza, la brutalità e la disumanizzazione della società. L’amore, la felicità, la libertà come una possibile alternativa.
Il messaggio di HAIR trascende ogni barriera generazionale o culturale per diventare messaggio universale: nel musical e poi nel film di Milos Forman, comparso un decennio più tardi della prima rappresentazione a Broadway
quando già il movimento hippy aveva cominciato a sfaldarsi, convergono tanti elementi diversi. C’è la rappresentazione di un rituale, di una celebrazione estatica, della protesta civile, di un complesso e colorato happening, d’una commedia e perfino di qualche elemento di una tragedia, assieme alla celebrazione dei valori della solidarietà tra gli uomini, del pacifismo, della non-violenza.

HAIR, ai tempi della sua prima uscita, ruppe ogni regola teatrale, come del resto i suoi protagonisti - gli hippy – decidendo di vivere da “drop-out” ruppero ogni norma sociale stabilita. Se è stata lodevole l’intenzione di riesumare e riproporre al pubblico italiano, questo “classico” del pacifismo, la ciambella non è riuscita perfettamente. Ciò è dipeso per un verso anche per il fondamentale anacronismo dell’operazione (gli hippy sono belli morti e sepolti, considerando che, già nel 1967, alcuni desiderosi di sbarazzarsi dell’ingombrante etichetta avviata a diventare “commerciale”, avevano provocatoriamente celebrato un “funerale all’hippy”), per altri dall’impossibilità di adattarne i contenuti agli scenari contemporanei in cui le grandi idealità d’un tempo (di cui il movimento hippy fu un rigurgito) si sono p
erse per strada e tutti i governi s’impegnano in azioni di guerra il più delle volte ciniche ed interessate a condizione che la definizione di ciò che si sta facendo sia altra (le guerre non-guerre dei nostri giorni: Afghanistan ed Iraq insegnano).
La conseguenza è che, ai più giovani, mancano i presupposti culturali ed emozionale per capire a pieno la storia di Claude e dei suoi amici hippy. Quindi, davanti a questo spettacolo, soprattutto chi ha avuto modo di conoscere (ed amare) quello originario e il film di Milos Forman è andato incontro a qualche cocente delusione, pur avendo deciso di fargli onore e di non disertarlo sulla base di un pregiudizio.
Nel musical e nel film, erano molto strutturate sia la trama sia la parte “recitata” che faceva da ossatura ai più famosi brani musicali. C’era una storia ben riconoscibile, con parti e ruoli che assumevano spessore e profondità. Si capiva bene tutta la vicenda del giovane “contadinotto” Claude, appena arrivato a New York dall’Oklahoma rurale perché ha ricevuto la
cartolina-precetto per il Vietnam, i cui valori, dopo l’incontro con un gruppo di giovani hippy a Central Park, va in crisi. Claude, attraverso l’amore per una delle ragazze e l’affetto disinteressato da parte di tutti gli altri (che, nelle estreme conseguenze, giunge al “sacrificio” di Berger), riusciva ad intravedere un mondo nuovo e a farsene plasmare. La “storia” (c’è sempre bisogno di storie) faceva trepidare il pubblico, lo faceva indignare, commuovere: non era affatto banale, ma anzi portatrice di forti valori morali. Nell’adattamento attuale, tutto questo è venuto a mancare: le parti recitate sono deboli e confuse, i singoli personaggi non riescono a staccarsi dallo sfondo di un gruppo “fusionale” ed indifferenziato. Ciò è in parte dovuto ad una scelta di regia molto precisa, ma anche – probabilmente – ad una scarsa esperienza recitativa dei singoli personaggi che, più che attori, sono ballerini e canterini di gruppo, non possedendo, singolarmente presi, né una grande presenza scenica né abilità canore tali da consentirgli di avventurarsi in performance soliste, come è nella partitura originaria.
Gli adattamenti musicali sono in massima parte buoni e supportati da scelte coreografiche valide, anche se a livelli minimali: sono veramente pochi quelli che raggiungono una grandissima potenza espressiva e che si librano alti. E, in ogni caso, rispetto allo spettacolo originario, sono state privilegiate le parti corali, mentre sono state escluse i canti solisti che, secondo la migliore tradizione del soul e del gospel, a tratti, si distaccano dal coro. Il proporre Hair al pubblico giovanile nostrano (anche se nella platea molto affollata non mancavano i nostalgici, nel ’68 appena ventenni, come i ventenni del ’79 che, senza aver conosciuto il musical, s’appassionarono con il film di Forman) rischia seriamente di non veicolare più alcun messaggio: se i nostalgici si sono indignati per la mancata aderenza dell’attuale adattamento al testo originario, sono ben lontani oggi i presupposti per comprendere il senso della protesta pacifista di quel tempo.
Vero è che la regia, in fase di apertura, proprio nel tentativo di contestualizzare il musical, ha scelto di proiettare su un maxi-schermo alle spalle degli attori immagini della guerra in Vietnam e della protesta civile contro di essa, ma questo stimolo è rimasto, secondo alcuni, troppo debole e poco incisivo. Forse, per riattualizzare e rendere così il messaggio di pace veramente universale sarebbe stato il caso di elaborare un video che, pur sempre partendo dal Vietnam fosse corredato con un patchwork di immagini a partire dall’11 settembre sino a nostri giorni, mettendoci denro - se possibile - anche alcune rappresentazioni di ciò che è avvenuto - avviene - in Afghanista
n, in Iraq e sulla recente - attualissima - aggressione dei Palestinesi della Striscia di Gaza da parte degli Israeliani. Questo sì che sarebbe stato parlare! Ma per far ciò ci sarebbe voluta una dose di coraggio mediatico non indifferente.
Scollata dall’attualità di quel tempo, peraltro, l’operazione non è riuscita molto bene e s’è risolta in una banalizzazione: se nelle scene individuali la capacità discorsiva dei singoli personaggi sembra essere azzerata e priva di ogni dialettica, in quelle corali i giovani hippy - con il loro discorrere spezzato, con le loro risatine idiote, con i gemiti e i sussurri che simulano i momenti dell’amore, con le loro battute di stupido adattamento a linguaggi e culture regionali, producono soltanto un “balbettamento” comunicativo, finendo con il dare l’impressione di essere – in pieno accordo con gli stereotipi giornalistici dell’epoca e, purtroppo, anche attuali - un branco di rincoglioniti, annebbiati dalla droga, che poco hanno da dire se non un coacervo di parole stereotipate e fasulle.

"HAIR- The Tribal Love Rock Musical"

Direzione musicale: Elisa

Coreografie: David Parsons

Regia: Giampiero Solari

Image consulting e regista collaboratore: Luca Tomassini

Regista collaboratore: Nicoletta Robello

Produttore musicale esecutivo: Ali Soleimani Noori

Costumista: Francesca Schiavon

Luci: Marcello Mazzetti


mercoledì 5 marzo 2008

Lo scafandro e la farfalla, ovvero il vincolo e la possibilità

Ho visto di recente questo film: come tutte le storie vere che riguardano disabilità e malattia è risultato toccante e coinvolgente e di non facile fruizione. Tuttavia, la storia di Jean-Dominique Bauby ha tanto da insegnare a tutti. E' la storia dell'invicibile vitalità di un uomo imprigionato dentro il suo corpo
“Lo scafandro e la farfalla”, realizzato dal regista Julian Schnabel è un film che, con quasi nessuna concessione alla retorica e al facile pietismo, rende un omaggio accorato a tutti coloro che vengono "salvati" dalla medicina contemporanea per essere consegnati ad una vita – a volte prolungata – letteralmente "imprigionati" all’interno di un corpo danneggiato – senza averlo voluto – e costretti a vivere sofferenze che, in altri tempi, una natura certamente più benigna - seguendo il suo corso - avrebbe loro risparmiato. La condizione veramente "estrema", in casi come quello raccontato dal film e dall’omonima opera autobiografica, non è la morte (che, come è nel corso naturale degli eventi, spesso può arrivare per un incidente improvviso ed imprevedibile) ma il dover vivere "ai confini", esclusi dal corso principale dell'esistenza e rinchiusi in un mondo che si è fatto improvvisamente ristretto e claustrale. Il protagonista del film e, nella vita, accorato narratore d’una storia toccante ed intensa è Jean-Dominique Bauby (affettuosamente per gli amici: Jean-Do): egli è autenticamente imprigionato nel suo corpo, poiché soffre d'una sindrome neurologica che, in passato, non veniva riconosciuta: a questi pazienti era assegnata una diagnosi di stato simil-comatoso (rubricato, in alcuni casi, come “coma vigile”) che comportava una rinuncia preventiva a qualsiasi tentativo di comunicazione da parte del personale curante. Più di recente, le evidenze cliniche hanno suggerito che, per alcuni soggetti, vi fosse uno stato di piena coscienza celato dalla paralisi di tutte le funzioni relazionali. Questi casi ricadono oggi nell'ambito della cosiddetta "locked-in syndrome" , ovvero - per spiegare il termine inglese - la sindrome dell'uomo "intrappolato" o "chiuso dentro". In questi casi, un accidente neurologico - il più delle volte a carico delle strutture del tronco cerebrale, intermedie tra i centri nervosi superiori ed il midollo spinale - provoca l'interruzione delle connessioni tra il cervello e tutta la periferia del corpo (inclusa la maggior parte dei distretti somatici innervati dai nervi cranici). Superata la fase acuta, le funzioni corticali superiori si riattivano e, quindi, l’individuo, pur essendo di nuovo capace di articolare pensieri ed affetti, di evocare ricordi, di sentire, di percepire, di vivere stati onirici, non ha più la facoltà di convogliare alcun impulso alla periferia del corpo e verso l'esterno. Ne consegue che è bloccata qualsiasi possibilità di movimento, di parola, di comunicazione e di relazione con gli altri e con il mondo, ma anche fortemente limitata la capacità di raccogliere le sensazioni provenienti dall'esterno: in altri termini, il paziente affetto da "locked-in syndrome" è brutalmente - ed irrevocabilmente (per quanto nella casistica limitata disponibile siano stati descritti casi di ritorno ad una possibilità di interazione) - imprigionato all'interno del proprio corpo che diventa – a tutti gli effetti - una prigione (il più delle volte "artificiale") e che, non fosse per la complessa assistenza medica ed infermieristica cui questi malati devono essere sottoposti giornalmente, sarebbe votata alla morte fisiologica per una serie di inevitabili complicanze. Unico spiraglio di contatto con il mondo è garantito dal fatto che la persistenza di alcuni residui di innervazione periferica da parte dei nervi cranici (che assicurano il mantenimento delle sensorialità di base: vista, udito, olfatto) consente il contatto in entrata con la realtà.

E’ proprio il caso di Bauby, protagonista del film e narratore in prima persona della storia pubblicata qualche anno fa, con titolo identico. Jean-Do può vedere attraverso un unico occhio, la cui funzionalità è rimasta intatta, e aprire e chiudere la palpebra. Per lui l’occhio è divenuto un vero e proprio oblò spalancato sul mondo, attraverso il quale può captare avidamente ciò che rientra nel suo limitato campo di osservazione e può costruire una relazione. Superato lo shock emotivo, legato al raggiungimento della traumatica consapevolezza d’essere imprigionato dentro un corpo immobile, Bauby impara a comunicare utilizzando il battito della sua palpebra, con un elementare codice binario (sì/no) e a comporre singole parole, scegliendo le singole lettere dell’alfabeto con un sistema computazionale.

Pur chiuso dentro lo “scafandro” (che è il corpo divenuto immobile e pesante), Bauby riesce a travalicare - con la fantasia e con l’accesso ad una dimensione onirica nella quale di tanto in tanto scivola la sua mente – i suoi limiti. La fantasia e i ricordi di ciò che ha vissuto sino a prima dell’ictus, rendono ricca e traboccante la sua vita interiore, spingendolo a costruire - parola dopo parola, capitolo dopo capitolo - la sua storia e a raccontarla con il battito della palpebra.

Se il corpo di Jean-Do è lo scafandro (il corpo trasformato in prigione), egli è - nello stesso tempo - la farfalla che, strumento di evasione dal claustrum, rappresenta il volo della fantasia ed il turbine dei ricordi vivissimi della vita precedente ed è anche quel lieve battito della palpebra, unica possibilità di legame con gli altri e di rapporto con il mondo.

La storia di Bauby, struggente e melanconica, ma al tempo stesso densa di vitalità, ci dice tanto sulla possibilità dell’essere umano di adattarsi a condizioni estreme, trovando la possibilità di risorgere da cadute devastanti. Bauby, con la sua storia, ha consegnato all’umanità il lascito di una profonda lezione morale su come fare per uscire dalla lacerante e malinconica disperazione di un’esistenza apparentemente spezzata nella sua vitalità.

È una lezione su cui tutti dovrebbero meditare, in sintonia, peraltro, con le soluzioni di pensiero prospettate dalla seconda rivoluzione della cibernetica, in cui il vincolo si trasforma in possibilità, esplorate da Mauro Ceruti ("Il vincolo e la possibilità", Feltrinelli).

“Gli sviluppi degli esseri auto-eco-organizzatori ci consentono di comprendere ciò che è stato inconcepibile per la scienza: l'autonomia dei sistemi fisici, dei sistemi biologici, dei sistemi cognitivi. L'autonomia non si emancipa dai vincoli. Si costituisce al contrario all'interno della dipendenza ecologica e, per noi stessi umani, della dipendenza sociale e culturale. La libertà umana è la possibilità interna di operare delle scelte, e ciò presuppone vincoli interni del nostro cervello, della nostra mente e della nostra cultura. Perché questa possibilità interna possa esprimersi occorre la conoscenza dei vincoli esterni, cioè dei determinismi da utilizzare e da evitare, e occorre anche la conoscenza delle possibilità esterne, cioè delle zone di indeterminazione e di incertezza fra i vincoli”.

Sono tanti quelli che ci hanno raccontato (o scritto) la loro storia, come ad esempio Piergiorgio Welby o il personaggio letterario - altrettanto emblematico - creato da Dalton Trumbo protagonista del romanzo “E Johnny prese il fucile”, che ridotto dalle ferite di guerra (ai tempi della I Guerra Mondiale) ad un tronco privo di braccia e gambe, senza più possibilità di articolare parola, impara ad uscire dalla prigione del suo corpo battendo con la testa l’alfabeto Morse. O ancora, non si può non citare qui Rosanna Benzi che, essend stata condannata dalle complicanze d’una polmonite virale a passare la sua vita in un polmone d’acciaio (il suo “scaldabagno” – soleva ironizzare), non ha lasciato che i vincoli della sua condizione mortificassero la sua vita, e ha condotto numerose battaglie a favore dei diritti dei disabili, fondando e dirigendo sino alla sua morte una rivista stampata in seimila copie («Gli altri»), e scrivendo anche due libri («Il vizio di vivere», «Girotondo in una stanza», Rusconi Editore), uno dei quali è diventato un film diretto da Dino Risi, con Carol Alt protagonista.

Come ci mostrano tutti questi straordinari personaggi, il segreto per la sopravvivenza interiore è proprio questo: riuscire a far sì che i vincoli diventino elemento propulsore per esplorare nuove possibilità e modalità di adattamento.

La locked-in sindrome: cos’è?

La "locked-in syndrome" (letteralmente "chiuso dentro", dunque: imprigionato) è una condizione caratterizzata da tetraplegia, diplegia facciale, paralisi labio-glosso-faringea, paralisi laringea, con conservazione della motilità oculare (almeno sul piano verticale), e dell’ammiccamento, coscienza e funzioni mentali integre e possibilità di stabilire un codice di comunicazione tra paziente ed esaminatore. Se qualche altra minima possibilità di controllo motorio è presente è possibile considerare tale condizione come una locked-in incompleta. Il più delle volte tale condizione è associata ad una lesione pontina ventrale di varia eziologia ( emorragica, ischemica, contusiva etc.). Una simile lesione risparmia abitualmente le vie della sensibilità somatica, la formazione reticolare tronco-encefalica responsabile della vigilanza e dello stato di allerta, alcuni raggruppamenti neuronali mesencefalici che permettono il sollevamento delle palpebre e la motilità oculare sul piano verticale, il diencefalo e gli emisferi cerebrali, interrompe invece le vie cortico-bulbari e corticospinali, privando il paziente della capacità di rispondere in qualsiasi modo eccetto che con lo sguardo verticale e con l’ammiccamento. Gravi polineuropatie possono avere un effetto del tutto simile in assenza di un coinvolgimento diretto a carico del sistema nervoso centrale. Abitualmente tale quadro sindromico segue una fase di coma vero e proprio o come condizione transitoria suscettibile di evolvere verso un parziale recupero del controllo motorio o, più spesso, come uno stato permanente. Naturalmente, la locked-in syndrome ha ispirato alcuni scrittori, come ad esempio l’inglese Mark Billingham che, nel suo thriller, “Collezionista di morte” immagina che un serial killer vada alla ricerca del delitto perfetto consistente, nei suoi intenti, alla realizzazione della sindrome nelle sue vittime, per mezzo di una abile compressione dell’arteria vertebrale, combinata con la somministrazione di alcuni farmaci che svolgono una funzione depressiva sull'attività dei centri respiratori. Il grande Jack London, in un romanzo del tutto insolito rispetto alle sue tematiche (Il Vagabondo delle stelle), è riuscito peraltro a descrivere con grande efficacia la potenza della fantasia e dell'immaginazione come strumenti per sfuggire a condizioni somatiche fortemente mortificanti e costrittive. Questa, molto in sintesi, la trama.
Il protagonista, accusato di far parte d'un gruppo anarchico responsabile di attentati dinamitardi e rinchiuso nel braccio della morte del carcerre di Saint Quentin, in attesa dell'esecuzione, viene sottoposto regolarmente a torture e costretto in una camicia di forza dai suoi carcerieri che tentano di estorcergli delle confessioni che portino a smascherare l'intera rete terroristica. Con straordinaria autodisciplina, egli riuscirà a trasformarsi in uno sciamano capace di attraversare le barriere del tempo e dello spazio come muri di carta, divenendo appunto il "vagabondo delle stelle" evanificando le sempre più estreme condizioni di mortificazione cui è costretto. Ultimo romanzo di Jack London, "Il vagabondo delle stelle" che apparve per la prima volta nel 1915, anticipa in modo singolare alcune delle torture "psicologiche" messe in atto in tempi moderni e per noi molto attuali (basti pensare a ciò che è accaduto a Guantanamo o ad Abu Ghraib) e per ottenere, attraverso forme di "sensory deprivation", l'abbattimento dei fondamenti dell'identità personale e sociale dell'individuo torturato, inducendolo così a rendere piene e aperte confessioni, senza più il vincolo di fedeltà e lealtà al proprio gruppo di riferimento. Il romanzo illustra anche il potere dei meccanismi dissociativi della psiche per evadere da condizioni di vita intollerabilmente costrittive, studiati in modo approfondito solo negli ultimi anni.


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